mercoledì 19 dicembre 2007

È Natale, vai con la birra!

Angelo Peretti
È Natale, e come sappiamo, siamo tutti più buoni: non è mica vero, ma ogni tanto è bello illudersi.
È Natale, e la cassetta della posta, e la casella delle email traboccano di auguri. E di solito tocca anche ai giornali, perfino quelli on line come quest’InternetGourmet che avete la pazienza di leggere (ed è stato letto 250mila volte: sono proprio contento), fare gli auguri ai lettori. E sia, e gran volentieri: auguri!
È Natale, e sui magazine d’enogastronomia si elargiscono consigli in tema di ricette e vini e abbinamenti e sfiziosità varie, regalini golosi inclusi. E dunque anche su questo tema vedo d’essere allineato. Eccoci dunque col pezzo natalizio a soggetto. Ma non parlo né di piatti, né di vini: è la birra stavolta la protagonista. O meglio, son le birre di Natale. Meglio ancora, le Noël del Belgio, che adoro.
Siccome però sono un po’ di corsa e anche un po’ pigro, la parte centrale di quest’intervento la prendo pari pari da un pezzo che ho scritto un paio di settimane fa per la Pagina del Gusto del quotidiano L’Arena (buon Natale a Morello Pecchioli, il mio capo, che cura la pagina). E poi, alla fine, ci metto gli appunti di degustazione delle sei bière de Noël tastate alla Taverna Kus nella degustazione che abbiamo allestito qualche giorno fa: la cena era a base di stinco di maiale al forno, gorgonzola naturale con miele di castagno, torta al cioccolato. Wow!
E insomma: eccoci qua. Dici: «Birra», e pensi alla schiumosa bevanda giallo-dorata moderatamente alcolica che si serve in pizzeria. Ti dicono invece: «Birra di Natale» e magari fai un po’ fatica a capire di cosa si tratti. Eppure questi sono proprio i giorni delle bière de Noël, capolavori dell’arte birraria belga. È stato nei giorni scorsi che, uno dopo l’altro, i piccoli birrifici artigianali del Belgio hanno fatto uscire le loro birre natalizie.
Produzioni limitate, rare, intriganti. Che non hanno nulla, ma proprio nulla a che vedere con le bionde copiosamente tracannate dal boccale.
Sono scure: il colore va dall’ambrato al bruno carico. Di alcol ne hanno un bel po’, dagli 8 fino ai 13 gradi, mica scherzi. Vietato berle gelate: tutt’al più fresche, attorno ai 14 gradi di temperatura, ma se vanno a 18 non c’è problema, come se fossero dei vini rossi importanti. E come un buon rosso, normalmente, sono in bottiglie da 0,75, perché è nella boccia da tre quarti che sviluppano al meglio i loro strepitosi caratteri aromatici. In etichetta, temi classici del periodo: neve, alberi addobbati, notti stellate, angioletti, monaci, l’immancabile Babbo Natale, scoiattoli, gnomi. Spesso la decorazione è addirittura serigrafata direttamente sulla boccia. Tra le birre di Natale del mito belga ci sono la Noël St. Feuillien, la Christmas Ale St. Bernardus, la Noël dell’Abbaye des Rocs, la Chouffe N’Ice, la Binchoise de Nöel, l’alcolicissima Bush de Nöel. Sono birre che riescono perfino a invecchiare bene: qualche anno non gli fa male. Si assaporano a sorsi. Stanno a meraviglia con la cucina invernale. Ma sono ideali anche per il dopo cena: un bicchiere basta e avanza per passarci un’ora, chiacchierando con gli amici, prendendosi un po’ di relax davanti al caminetto.
Il gusto è decisamente unico, ammaliante. Ed è influenzato dalle segretissime ricette dei mastri birrai. Intanto, per fare le birre di Natale si usano malti selezionatissimi. E poi vien fatta l’aromatizzazione: c’è chi adopera cannella, noce moscata, coriandolo, ginepro, spesso anche del miele, e persino frutti, la buccia di arancia, in particolare. Si mormora ci si taglino qualche volta dei distillati. Ovvio che ne derivi una complessità organolettica di tutto rispetto. Intanto, hanno un gradevolissimo fondo amaro che ricorda la liquirizia, ma anche una vena di dolcezza che rammenta il miele di castagno, il caramello. Poi, la speziatura. E le note di frutta secca: nocciola, noce soprattutto. E vaghi ricordi di frutti di bosco surmaturi. E una spuma cremosa e morbida. Affascinanti.
Adesso le schede delle sei birre che ho citato di sopra. Di ciascuna fornisco l’indice di piacevolezza media riscontrato nella degustazione: eravano in sedici, e il voto poteva andare da zero a dieci, inclusi il mezzo punto. Poi c’è il mio consueto parere in faccini, da uno a tre. Poi ancora il prezzo all’ingrosso in bottiglia da 0,75 (è questo il formato giusto).

Spéciale Noël Abbaye des Rocs Al naso trovi la crosta di pane scaldato nel forno e una leggera vena di anice. La bocca è ampia, avvolgente, dolceamara: malto, liquirizia, memoria tenue di dattero, nocciola tostata. Epperò anche clorofilla, eucalipto. E castagne, anche. E castagne sotto cognac, soprattutto. E c’è lunghezza. Oggi pare ancora un po’ giovinetta e scomposta, ma, secondo me, potrebbe dar sorprese alla distanza. Fatela un po’ affinare in bottiglia. Ha 9 gradi di alcol.
Indice di piacevolezza medio: 7,067
Un faccino :-)
Prezzo all’ingrosso: 5,14 euro.

Spéciale Noël La Binchoise Naso di rhum agricolo, vene di amarena candita, buccia d'arancia essiccata, spezie dolci. E via via che passa il tempo, il bouquet si fa sempre più incredibilmente affascinante: esce gradualmente l'amaretto, il liquore agli agrumi, il rosolio. Poi vene floreali, la rosa, ancora, soprattutto, e poi un po' di ciclamino. E poi ancora, prepotente, il tè al limone, al bergamotto. Incredibile. E c’è bocca elegante, con note luppolate, ma soprattutto frutta, frutta, frutta: piccolo frutto di bosco succoso, albicocca stramatura, papaya candita, fico secco. Suadente. Intrigante. 9 gradi.
Indice di piacevolezza medio: 8,033
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Prezzo all’ingrosso: 4,89 euro

Cuvée de Noël St. Feuillien Naso da caffè e cioccolato, leggera vena di liquirizia, crosta di pane bruciata. Sentori leggeri di grafite. In bocca è potente, decisa. Malto e liquirizia: parecchio dell’uno e dell’altra. Bella lunghezza, ma non concede nulla dal lato della ruffianeria. Il finale è tutto sulla vena amara. Birra maschia. 9 gradi.
Indice di piacevolezza medio: 6,900
Un faccino :-)
Prezzo all’ingrosso 5,67 euro

N'Ice Chouffe Altra birra da far affinare ancora in bottiglia, ché questa è un classico, ma ha bisogno di farsi. Oggi al naso ha tracce evidenti di alcol denaturato, con vene però di dattero, di fico, belle e mercate. La bocca è in sintonia. Ha tensione, densità, potenza. Ricorda vagamente, nella nota dolce, l'aceto balsamico. Untuosa, quasi. Una birra decisa, molto tonica dal lato acido. 10 gradi.
Indice di piacevolezza medio 7,833
Due lieti faccini :-) :-)
Prezzo all’ingrosso 6,17 euro

Christmas Ale St. Bernardus Oh, oh, oh! Direbbe Babbo Natale. Gran birra, gran birra. Naso fascinosamente antico, da sherry oloroso, da palo cortado. Memorie di mobile antico, eppoi di crosta di pane tostato, di nocciola, di mandorla amara. La mandorla esce in prima battuta anche in bocca, subito però equilibrata da una vena dolceamara di caramello e miele di castagno. Impressionante la persistenza: emergono con gradualità seducenti e sempre più salde e ricche memorie di frutta secca e poi nocciolo di pesca. Affascinante. 10 gradi.
Indice di piacevolezza medio 8,400
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Prezzo all’ingrosso 5,96 euro.

Bush Noël Premium Brasserie Dubuisson Freres La Bush, la corazzata delle birre di Natale belghe. Impressionante al naso nelle sue note di rhum, di armagnac. E poi sherry. E poi botti di legno vecchie di anni e anni. E cenni perfino vinosi. L'alcol è evidente, ma importanti sono le note di agrumi canditi, di frutta secca, di frutti antichi di bosco sumaturi, di cachi maturissimi pur'essi. In bocca è cremosa e anche densa e melassa e avvolgente e perfino vanigliata. Caramello e zucchero di canna e miele millefiori e dattero al naturale e rhum giamaicani. Potentissima. Se ma l'avessero fatta annusare senza dirmi che è una birra, avrei detto che è un passito, nobile e invecchiato, con aristocratiche vene ossidative date dall'affinamento. 13 gradi.
Indice di piacevolezza medio 8,033
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Prezzo all’ingrosso 8,52

lunedì 10 dicembre 2007

C'era una volta il Cabernet

Angelo Peretti
Ma sì, dai: il titolo è una provocazione. Il Cabernet c’è ancora, e tanto. Altro che c’era una volta. Però l’infatuazione, quella non sarà del tutto finita, ma è un po’ sulla via del tramonto. Parlo dell’Italia, ovviamente (oh, la Francia è altra cosa: lo dice uno che adora Bordeaux). Ne restano, per carità, di buonissimi, ma l’onda lunga si sta affievolendo. O almeno mi pare.
Tutto è cominciato sul finire degli anni Ottanta, per diventare mania nel decennio successivo. Sull’onda del successo del Sassicaia, ecco nascere vini con desinenza in aia (nel nome o nello stile) un po’ ovunque.
Poi, è stato boom. E via a piantar cabernet e merlot dall’Alto Adige alla Sicilia, e a far vini, dunque, d’uvaggio bordolese, e a far pertanto surmaturazione, e concentrazione, e muscolo, e potenza, e fruttone, e tannino dolce da lunga sosta in barrique, e vaniglia da piccola botte. Con la benedizione di Mr Parker, di Wine Spectator. E della critica nostrana. Epperò anche dei frequentatori di ristoranti e wine bar, che quei vini li domandavano eccome.
Oh, per carità: dicevo della concentrazione eccetera, ma mica sempre ci si è riusciti. Ed anzi, tante, troppe volte ci si è trovati e ci si trova ad avere a che fare con cabernet & merlot scomposti e verdi e crudi e allappanti o stucchevolmente dolci. Ma, ho detto, di buoni ce n’è stati e ce n’è. Però non è più la moda a dettar legge. E quel che è buono emerge, finalmente, perchè è appunto buono. E basta.
Era moda, dicevo. E le mode cambiano. E mi domando se davvero serviva metter mano ai disciplinari nostrani per ficcarci dentro a ogni costo le vigne bordoleseggianti. E a cabernetizzare l’italico vigneto. E a cabernetizzare anzi – così come tra i bianchi chardonnayzizzare – mezzo globo terraqueo. Ma il vino è business, si sa, e se il bordolese vola, tutti via a far bordolesi. Ecché, è forse diverso l’attuale tormentone del pinot grigio in America & United Kingdom?
Ora, per cercar di farmi un quadro di quel che è stato ed è il fenomeno dei bordolesi dalle mie parti, ossia il Triveneto e l’area del Garda, ho allestito qualche sera fa un wine tasting durante il quale ne abbiamo stappati più di venti. Cercando di scegliere nomi importanti e altri meno. Mettendo insieme il Garda, il Trentino, l’Alto Adige, i Colli Euganei, il Friuli. Anni i più vari, con prevalenza però per il nuovo millennio. Bevendo anche un bel po’ di rossi tribicchierati dalla guida del Gambero & Slow Food. E qualcuno di buono buono l’abbiamo pur trovato. E adesso dei più interessanti do conto qui sotto: sono sei, quelli meglio apprezzati dai presenti. Con doppio voto: i soliti faccini, da uno a tre, e l’indice di piacevolezza medio (ai presenti alle mie degustazioni domando sempre di valutare il vino con voto decimale, usando il mezzo punto se serve, secondo il parametro della piacevolezza personale, e dunque ha 10 il vino, se ci fosse, di cui vorresti immediatamente ristappare un’altra bottiglia, e giù a scendere). L’ordine è l’indice di piacevolezza decimale.

San Leonardo 1997 Tenuta San Leonardo
Signori, giù il cappello. È gran rosso, questo qui. Nobilissimo. Giovanissimo, pur avendo raggiunto il decennio. Dal bicchiere emergono, di slancio, la spezia, l’erba officinale, il peperone, il frutto maturo. Naso da vino ancora giovinetto. E poi che vitalità in bocca! Ha eleganza, e freschezza invitante, e lunghezza appagante, avvincente. Vino di bel piacere e bella beva. Che ancora tanto tempo può sostare in bottiglia. Trentino. Cabernet sauvignon in prevalenza, e poi franc e merlot in piccola parte, se non erro.
Indice di piacevolezza: 8,962
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

Quaiare 2000 Le Fraghe Il 2000 è stato, a detta di molti, il miglior Quaiare di Matilde Poggi (ma a me è molto piaciuto, sempre, il più piccolo, e più bardolinista se vogliamo, 2003). E in effetti, questo 2000 alla distanza è rosso che tuttora stupisce e colpisce. Ha tanto frutto rosso. Maturo. Maturissimo. E spezia minuta. E pepe. E in bocca c’è sì dolcezza fruttata, ma anche nervosa vena acida, che dà spalla e ravviva. E tannino ancora giovine. Confesso: non me l’aspettavo così in gran spolvero. Veneto, lago di Garda, entroterra. Cabernet sauvignon prevalente, e poi franc.
Indice di piacevolezza: 8,115
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

Garda Cabernet Le Zalte 2003 Cascina La Pertica Oh, oh: secondo vino del mio lago! E son proprio piacevoli queste Zalte della Cascina La Pertica. Ricordo d’aver adorato, l’anno passato, questo 2003, e non lo riassaggiavo da un anno ormai, e l’ho ritrovato piacevole. Però s’è dovuto lasciar parecchio nel bicchiere, ché l’abbiamo dapprima trovato ridotto. Ma poi ecco il suo classico fruttino, e l’erbetta alpestre, e la vena acida che rinfresca, e il corpo minuto epperò anche la lunghezza invidiabile. Lago di Garda, sponda lombarda. Cabernet sauvignon e appena un filo di merlot. Biodinamico.
Indice di piacevolezza 7,808
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

Breganze Cabernet Vigneto Due Santi 2005 Zonta Guardate, io l’adoro ‘sto vino. Mi piace il suo frutto pulito e succoso e avvolgente, e la sua beva franca e immediata, eppur anche la sua lunghezza, da rosso di valore. È giovanissimo, certo, e dunque andrebbe bevuto un po’ più in là (e per questo qualcuno l’ha un po’ penalizzato nella degustazione). Ma se vi capita d’incrociarlo, provatelo. Eppoi son contento che in casa Zonta non ci si monti la testa e si tengano prezzi ragionevoli, nonostante i tre bicchieri ormai fiocchino. Bravi. Per il vino e per la moderazione.
Indice di piacevolezza 7,654
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

Südtiroler Cabernet Sanct Valentin 1999 Cantina San Michele Appiano Ebbé, mica fan buoni solo i bianchi, quelli della Cantina di Appiano. E ci scommetto che tanti lo berrebbero ben volentieri ‘sto rosso. Ha dunque naso di spezia e gran fruttone e vena minerale e nota verde. E in bocca, ecco una rinfrescante memoria di pompelmo rosa e quasi buccia d’arancia, e ancora fruttino rosso. E c’è insomma contrasto intrigante fra la verzura olfattiva e l’agrumata presenza al palato. E sarebbe perfetto se non fosse per quel pelo di dolcezza di troppo. Alto Adige, ovviamente.
Indice di piacevolezza 7,615
Due lieti faccini :-) :-)

Colli Euganei Rosso Gemola 2001 Vignalta Ora, non ho dubbi: se avessi davanti una tavolata e volessi trovare un rosso che contenta un po’ tutti già al primo sorso, scelgo il Gemola. Ché è vino esemplare per quello stile che dicevo in apertura: ha tutto quel che serve, ossia concentrazione, e frutto, e dolcezza, e lunghezza, e pienezza, e avvolgenza. Fatto benissimo. Per me, in un vino ci vorrei beva maggiore, ma son gusti. E comunque, sia chiaro: un bel bicchiere lo s'apprezza eccome. Veneto, Colli Euganei, Padova la provincia. Merlot in prevalenza e il resto cabernet sauvignon.
Indice di piacevolezza 7,538
Due lieti faccini :-) :-)

sabato 1 dicembre 2007

L’equilibrio e il cristallo e il vino

Angelo Peretti
Equilibrio, equilibrio, equilibrio. È quel che cerco in un un vino. Insieme con la finezza, che però ne è, a ben pensarci, conseguenza. E son proprio contento che quella parolina magica la si sia ripetuta tante e tante volte al convegno veronese promosso da Angiolino Maule - leggi produzione biodinamica a Gambellara, ossia La Biancara - con la sua associazione VinNatur. Oh, sì che son contento, ché ho massimo rispetto per le teorie steineriane, per il biologico e il naturale e quel che volete voi, ma anche - permettetelo - per chi fa con serietà agricoltura convenzionale, a condizione però che il vino che ne vien fuori, qualunque sia la pratica di fondo, sia di quelli che ti ricordi con piacere, perché t’ha donato emozione e perché qualcosa d’importante e d’unico t’ha raccontato. E quel racconto si dipana appunto, quando c’è, sull’equilibrio.
Ora, però, che l’equilibrio d’un vino lo si ricerchi non già - non solo - in cantina, ma soprattutto dal riequilibrio in primis della vigna e della terra che le è custode e forse madre, mi par cosa meritoria. Ed efficace. Dunque, ben vengano le teorizzazione e gli empirismi dei biodinamici e dei vigneron che s’autodefiniscono naturali e autentici. A condizione - ovvio - che autentici siano l’entusiasmo e l’impegno, e non ci si fermi al mettere il bio sull’etichetta, per far marketing a buon mercato, ché non è più tempo di bolla speculativa, e val la pena ricordarsi degli anni neppur tanto remoti del boom internettiano, quando bastava mettere una e davanti al nome di un’azienda - e farla diventare appunto un’e-qualcosa - perché il titolo schizzasse in borsa, salvo poi ritrovarsi con un pugno di mosche di lì a poco. Ecco: non si faccia l’errore, ché non funziona (più).
Premesso tutto questo, d’entusiasmo n’ho trovato parecchio fra i seguaci e i colleghi e i maestri d’Angiolino. E magari in qualcheduno di loro anche un pochetto di radicalismo, se non settarismo, ma son peccati di gioventù. Purtuttavia mi par d’aver capito che la fase d’infatuazione sta tramontando per lasciar posto a un positivo e sano realismo, che induce a ben sperare. E più di tutti m’è piaciuto, in questo, Christian Marcel, che pratica la cristallizzazione sensibile, e ha tenuta una relazione che dir fascinosa è poco. E il protagonista, questo Marcel, m’è parso persona rigorosa e trasparente e per nulla orientato a far commercio. Tant’è che ha ribadito che si tratta - il suo - d’uno strumento di ricerca, e non ancora d’una scienza esatta. Che evidenzia o può evidenziare, però, cose che sfuggono alle analisi convenzionali.
La sottolineatura è questa: l’approccio scientifico porta all’analisi fisico-chimica, che molto spiega, ma non tutto. L’inspiegato può interpretarsi in forma antroposofica, e la cristalizzazione sensibile è in quest’area. Ch’è magari soggettiva. Ma offre un plus che sarebbe assurdo passar sotto silenzio solo perché la scienza ufficiale non se n’è ancora occupata a fondo e dunque neancora ha emesso - o voluto emettere - il proprio parere. E insomma: non tutto è spiegato e spiegabile con la scienza ufficiale, e neppure con l’antroposofia, vivaddìo, e dunque ancora molta è la strada da percorrere, ma comunque il metodo è ormai da lungo sperimentato, e dunque affianca ed integra - per chi vuole - l’analisi scientifica.
Ora, va detto che questa cristallizzazione sensibile è metodologia nata una settantina d’anni fa sulla scorta dei suggerimenti di Rudolf Steiner, che del pensiero biodinamico è il padre. La faccenda funziona - a soldoni - così: su un disco di vetro, s’aggiunge del cloruro di rame ad un estratto di sostanza organica o minerale. L’interazione fra il rame, che è il conduttore, e la carica elettromagnetica delle molecole in soluzione fa sì che si formino, sul dischetto, figure in forma di cristalli, immagini geometriche capaci in qualche modo esprime le forze della materia. Il problema è dar corretta lettura a quei cristalli. Ma se questo riesce, ecco che se ne traggono indicazioni utili assai sulla sanità del luogo o della pianta o del vino, sui rischi di malattia della vigna, sulle dinamiche del terroir, sulla correttezza dei portainnesti, sulla felicità della cuvée, sulla capacità d’invecchiamento. Detto così può sembrar velleitario, ma prove e riscontri porterebbero a dire che funziona, andando a dar spiegazioni possibili, plausibili, laddove l’analisi convenzionale non giunge, e dunque supportandola e arricchendola. Non m’addentrerò oltre nella questione (chi volesse saperne di più vada al sito www.vinimage.com).
Ora, mi soffermo invece un momento su una frase che ha detto Pierre Paillard, che ha guidato i lavori del convegno: «Ciò che conta - ha affermato - è la realtà dei fatti. Se la teoria non è in grado di spiegare i fatti, è la teoria che va cambiata, perché i fatti rimangono». In fondo, il cammino verso la conoscenza s’è sempre basato su osservazioni di questo genere. E dunque avanti con le sperimentazioni. E con la biodinamica e il naturale. Cum granu salis, però: non credo ai millenarismi, e detesto i settarismi. E cerco di prender quel che c’è di buono da tutti.
E può figurare abritrario dir che la chimica fa morir la terra e distrugge il terroir - ed è possibile e probabilmente è anzi vero - ma nel contempo applaudire metodi che comunque il terroir lo modificano. Che altro non è, se non un modificare il terroir, il metodo illustrato al convegno - applauditissimo, appunto - che per mezzo dell’estensione interrata d’un filo di rame attorno al vigneto favorisce, incidendo sui campi elettromagnetici, il deflusso dell’acqua in eccesso? Vero è che con la procedura in questione la vigna si fa più sana ed integra e perfino più equilibrata nella vegetazione e nella fruttificazione. Vero anche però - mi pare - che la correlazione fra vigna e suolo e clima è artificiosamente modificata, e dunque dov’è il rispetto rigoroso del terroir? Così la penso, e posso aver torto, ovviamente.
Spero anch’io, comunque, che si possa essere alla vigilia d’un nuovo umanesimo, come ha osservato Pierre Paillard. E che si possa avere un rapporto rinnovato con la vita e con la natura. E che ciascuno possa metterci del suo: «Cambiare globalmente - parole di Paillard - non è possibile. Bisogna che ciascuno cambi individualmente nel proprio ambito». Condivido. Senza però pretendere che il proprio cambiamento sia per forza l’unico e sia il solo corretto.
In ogni caso, è vero: sono i fatti che restano. E i fatti mi dicono che negli ultimi anni ho bevuto vini fascinosi sia in biodinamica che in tecnica convenzionale. Ma anche che quand’incontri il biodinamico ben fatto, allora nel bicchiere hai vino da urlo. E che te n’accorgi all’assaggio, mica dall’etichetta. E questa personalità e ricchezza ed equilibrio che ci ritrovi ti fan riflettere (e gioire). E qui siam tornati, all’equilibrio. Che prima del vino va ricercato in vigna e nella terra. Epperò prima ancora che in vigna e nella terra, ritengo, nella mente e nel cuore.
Ultima cosa, per sdrammatizzare, ché m’accorgo d’esser stato serioso. Un voto al convegno: alto per la partecipazione, alto per i contenuti, alto per i relatori, bassissimo e insufficiente per il break, ché non è possibile sentir parlar di vino per due giorni e trovar solo acqua minerale e succo d’arancia in cartone. Insomma: un goccio di bio-vino l’avrei pur bevuto... Vabbé, mi son rifatto, poi, a casa.

martedì 27 novembre 2007

La collina, il lago, la pioggia e il Franciacorta

Angelo Peretti
Sarà che sono un cattivo autista, nel senso che certamente non amo l’automobile alla follia, ma quando c’è troppo traffico vado regolarmente in tensione. Mi capita di sicuro quando devo attraversare Brescia sulla Milano-Venezia: tutto quel caos di macchine e tir mi dà disagio. E forse di più me ne procura l’anarchia viabilistica che c’è subito fuori dell’autostrada, sulle tangenziali e superstrade bresciane che portano in città o nei sobborghi, tra file e file di capannoni, col via vai impazzito di gente che sembra non saper fare altro che spingere sull’acceleratore anche là dove correre non si dovrebbe (potrebbe).
Ecco dunque che mi ci sono diretto con un po’ d’ansia in Franciacorta, in una tarda mattinata novembrina che pioveva a dirotto, avendo dovuto dapprima passare il trittico infernale Brescia est-centro-ovest e poi zigzagare fra il serpentone di metallo di auto e camion di fuori dal casello di Rovato.
Gli è però che ero atteso alla mia prima vera full immersion nella bollicinosa realtà franciacortina (altre visite precedenti erano state toccate e fughe), e dunque il viaggio valeva la pena. Stavolta m’avevano organizzato una visita quelli della Sata, agenzia d’agronomi d’assalto (rintrazio in particolare Marco Tonni per avermi proposto la giornata in Franciacorta), col credo dell’equilibrio della terra e della vigna. E dunque attenti a non nutrire falsamente i suoli, che vuol dire per esempio niente chimica, e sano letame, invece, tra i filari. E poi m’aspettava Marco Zizioli, enologo giovane dalla personalità spiccata, pure lui consulente in Franciacorta, in stretta sintonia col gruppo Sata.
Vi dirò subito che, nonostante il traffico d’avvicinamento - poi lassù a due passi dal lago d’Iseo le cose son cambiate in meglio, e parecchio - e la grand’inzuppata che mi son beccato, il pezzo di Franciacorta che ho incontrato m’è piaciuto, e un bel po’. Ed anzi le vigne spoglie e la pioggia che seguitava a scrosciare formavano, insieme, un che di suggestivo. O forse è che a me, lacustre, quei cieli grigi, quell’arie malinconiche son familiari, e usuale m’è pure la collina morenica vitata, e dunque mi rispecchio in questa terra a due passi da un lago, pur piccolino. E fascinosi ho trovato alcuni scorci, come verso le torbiere, al vigneto delle Boschette (mi par si chiami così, o sbaglio?) della famiglia Bosio. E affascinantissima (si può dire?) ho trovato la collina che, a Provaglio, è stata impiantata di vigna da Chiara Ziliani. Ed è poi tutta bellissima e stretta e fitta la vigna. Sull’esempio della Champagne. E il lavoro di consulenza agronomica lo vedi, lo tocchi con mano.
Eppoi in Franciacorta si fa tutto con imprenditorialità somma, e dunque se si dice che il buon vino lo si fa soprattutto nel vigneto, be’, qui si prende l’agronomo che prepari la vigna, ché faccia scaturire dunque il frutto buono su cui poi - solo poi - dovrà impegnarsi l’enologo. E così va a finire che anche i piccoletti, che la consulenza agronomica magari non se la possono ancora permettere, imitano gli altri, e dunque è ben condotto tutto il vigneto - o quasi - franciacortino.
E questo non vuol dire standardizzazione. Ché il terroir incide, eccome, se non punti all’omologazione. E dunque ecco che le bolle di Franciacorta sembrano percorrere due diverse strade: quelle che puntano al verde e al floreale, e quelle che invece mettono in luce il fruttino e la polpa.
L’altra diversificazione è invece stilistica: c’è chi (i più) guarda alla morbidezza, e dunque mette zucchero abbastanza alto nel liqueur, ed è scelta che paga commercialmente, oggi, e chi invece ancora testardamente (evviva! Ma son pochetti) s’ostina a privilegiare la vena acida e nervosa.
Poi c’è la terza diversità, quella che ripartisce le bolle fra il brut (e qui ci metto dentro pur l’extra brut e il raramente fatto pas dosè) e il satèn, ennesima genialata di Franciacorta, nato quindici anni fa per aver più setosità dalla minor pressione, e oggi in crescita d’affermazione. Ché poi in Franciacorta il successo è quotidianità: problemi a vendere ce n’è zero, per chi sa fare il passo giusto. E il passo giusto qui sembrano tenerlo quasi tutti.
Adesso, per finire, qualche vino delle quattro aziende visitate, tutte seguite a Ziioli e dagli agronomi di Sata.

Franciacorta Satèn Ziliani C - Chiara Ziliani Non è millesimato, ma la vendemmia di riferimento è una sola, quella del 2004, e la sboccatura è di giugno scorso. Ha naso vanigliato e quasi, direi, burroso, ed ha briochina all’albicocca, ed eleganza e fiore. E floreale è pure il palato, ed è anche verde, vegetale, e mi piace questo slancio rinfrescante. C’è lunghezza, e distensione. S’apre gradualmente poi sul piccolo frutto asprigno. Ed ha bella lunghezza. Figlio di vigne giovanissime, che avevano tre anni soltanto all’atto della raccolta dell’uve, dice che la collina è giusta.
Due lieti faccini :-) :-)

Franciacorta Extra Brut Boschedòr 2003 - Bosio Oh, santo cielo, un millesimato del 2003! Annata della calura, che penseresti poco adatta alla bolla, e millesimata poi, e addirittura extra brut, figuriamoci! E invece il vino è interessante parecchio. Trentatrè mesi sui lieviti, è stato. E propone al naso nocciola e noce e vena minerale e, sotto, la crosta di pane appena uscito dal forno. In bocca, ecco che la bolla è cremosa, ben modulata. Ed è espressa in bella misura la freschezza. E c’è frutto, e tanto agrume (l’arancia, la sua buccia). E una vena balsamica piacevole parecchio.
Due lieti faccini :-) :-)

Franciacorta Satèn - Riva di Franciacorta La prima vendemmia dell’azienda, neonata, è stata quella del 2005, ed è dunque questo (insieme al brut) il primo vino prodotto, ed è stato sui lieviti brevemente pertanto, 19 mesi o giù di lì. Ed è stato sboccato appena un paio di mesi fa. Eppure le premesse son buone. Il naso ha piacevoli note citrine e la bocca è sullo stesso piano epperò anche innervata d’eleganti memorie di fiore bianco. La struttura non è di quelle imponenti, però c’è eleganza.
Due lieti faccini :-) :-)

Franciacorta Satèn - Valle Far bolicina in un agriturismo. Buona la bolla, bello l’agritur (e tutt’intorno il vigneto, in una conca), di sostanza la cucina. Cucina e Franciacorta vanno a braccetto, e col burro e l’agliatura dei piatti ci sta anche quel pelo di morbidezza in più che ha il vino. E va giù un calice dietro l’altro, nonostante gli zuccheri spintarelli, questo satèn. Il naso ha tanta nocciola, un po’ tostata perfino. E ricompare l’aroma al palato. E c’è crosta di pane. E bel fruttino di bosco. E c’è lunghezza interessante. E c’è cremosità e polpa. Non è millesimato, ma è tutto comunque della vendemmia 2002, con sboccatura a fine gennaio del 2006.
Due lieti faccini :-) :-)

lunedì 19 novembre 2007

Quei sapori che tornano dal passato

Angelo Peretti
Lo si è letto in questi giorni: a Palermo sono stati condannati per estorsione aggravata i tre imputati che erano accusati di aver chiesto il pizzo alla storica focacceria San Francesco, in pieno centro della città. Li aveva denunciati il titolare.
Alla focacceria ci sono stato di recente. Di fronte ci stazionava una macchina dei carabinieri. Era strapieno di gente. Soprattutto giovani. Ci ho mangiato il pani ca’ meusa, il panino con la milza. Per di più maritato, e cioè arricchito col formaggio - credo sia caciocavallo: dicono così su Osterie d’Italia - tagliato a listarelle, che si fonde col calore delle frattaglie. Com’era? Straordinariamente gustoso. Un sapore antico. Unico. Se torno da quelle parti, è certo che me ne sbafo un altro.
A Firenze non ho resistito al fascino della bancarella di Orazio Nencioni, accanto alla Loggia del Porcellino stracolma di chioschetti di vestiario e pellame. Avevo appena pranzato. Ma quando mi sono imbattuto nel furgoncino che serviva i panini con il lampredotto, be’, come facevo a passar oltre? E cosa sia il lampredotto è presto detto: trippa. «Un caso di resistenza gastronomica» dice Osterie, a proposito dei trippai fiorentini. La lessano e la tengono in caldo, per affettarla davanti a te. Poi splàf, nel panino riscaldato sulla piastra. Pesantuccia, ma irrinunciabile.
Li chiamano, adesso, street food, questi panini schiettamente popolari. Cibo di strada. Appartengono alla tradizione. Da salvare. Da assaporare. Alla faccia delle continue restrizioni igienico-sanitarie. A volte francamente incomprensibili.
Direte: ma come, tu, veronese, ami il panino quando il sindaco di Verona, appunto, ne vieta il consumo nelle piazze? Intanto, Tosi ha proibito d’accamparsi sui monumenti, e comunque decideranno gli elettori scaligeri se è cosa buona o no. Però mi verrebbe da dire che ha fatto bene, considerati i panini che si vendono in centro: con tutte le materie prime di pregio che si fanno in provincia, che senso ha che i turisti s’ingozzino di plasticume?
E comunque, non è di panini che voglio riflettere in queste righe. Piuttosto di tradizione. Di cibo della tradizione. E dico evviva, perfino, alle sagre, se vi si fa da mangiare coi sacri crismi. Senza asservirsi al precotto, al preconfezionato, alle buste industriali. A Pizzighettone, nel Cremonese, sono capitato casualmente, qualche giorno fa, alla festa del fasulìn de l’öc cun le cùdeghe, e il titolo un po’ m’inquietava. Ma che saporita quella zuppa (servita in scodelle di coccio) di fagiolini dell’occhio, ormai quasi introvabili, e cotiche di maiale (tante) cotte lunghissimamente. Si può far qualità perfino nelle piazze, se si rispetta per davvero la tradizione. Se la si ha a cuore. Mica asservendola, snaturandola, plagiandola per farci soldi facili e magari esentasse.
Ecco: la tradizione gastronomica. È questa che va d’attualità. E non solo per faccende di strada o di piazza. Non solo, ovvio, quando ci son di mezzo le frattaglie (che mangio volentieri, lo si è capito). Vedo, più in generale. un ritorno - finalmente - alla cucina tradizionale. Italica. È questa la ristorazione che funziona, oggi. Il resto vive da tempo aria di crisi. Purché non sia solo moda, passeggera.
In realtà, credo che il mondo della ristorazione (quella qualitativamente valida, intendo, ché c’è troppa gente che ammanisce schifezze) lo si possa dividere in due. Le trattorie (le osterie) e i ristoranti tout court.
Le prime, le trattorie, per me sono quelle che debbon fare, appunto, tradizione. Con prodotti di territorio, con tipicità del luogo, con sapienza antica. Ma attenzione: il prodotto dev’esser buono, ché altrimenti si è alla farsa, e nel nome del tradizionale si portano in tavola nefandezze. Prima il valore della materia prima, in ogni caso. E, insieme, il rispetto della storia alimentare. Magari alleggerendola, certo: mica c’è bisogno, adesso, di dar troppa sostanza, di far sentire lo stomaco pieno. E dunque meno condimento, meno unto, e magari, se possibile, cotture più moderate e brevi, che non portino a sfibrare la pietanza. Ma è questa, ripeto, la mission della trattoria: preservare la tradizione. E può esser anche cucina borghese ottocentesca: vitello tonnato, ad esempio. Ma niente tagliata con la rucola, please.
Alla ristorazione spetta un altro ruolo. Che è quello d’applicare ingegno alle materie prime di qualità, che siano del luogo (lo preferisco) oppure no. E ci dev’essere servizio adeguatissimo. Ché questa non è più solo esperienza di gola, ma dev’essere invece festa dei sensi a tutto tondo. È il posto dove non si va a mangiare, ma a far serata. E dunque giusto piatto, giusto bicchiere, giusta tovaglia, giusta location, giusta ambientazione, giusti tempi, giuste temperature. Insomma: attenzione anche al dettaglio, alla sfumatura. E questo costa fatica e impegno, certo. E si traduce magari in prezzi non bassi. Ma giustificati, o almeno giustificabili. E poco importa se in cucina la spinta creativa la si applichi alla reinterpretazione delle tradizioni o alla creatività a tutto tondo. Qui paghi la genialità complessiva. Qui vince la testa, il pensiero.
In comune, la mia trattoria del cuore e il mio ristorante della testa, hanno un elemento: la ricerca del prodotto. Hanno il cuoco, o il patron, che la mattina presto va al mercato a cercar di che far cucina. Che non s’accontenta di far l’ordine al telefono e aspettare il furgone. Ed hanno anzi in comune anche un altro, parimenti importante, fattore: il senso dell’ospitalità, dell’accoglienza, del rispetto del cliente, ché altrimenti chi te lo fa fare di tribolar tanto al mercato, in sala, fra le pignatte?
In mezzo c’è di tutto. I posti dove ti nutri in qualche maniera. Con materie prime tutte uguali, prese da quei soliti tre o quattro fornitori che ti portano in casa di tutto e di più. E qui ti sbattono sul tavola la roba da mangiare e ti considerano appena un numero: «Caffè al 16!» senti gridare, e tu non sei più una persona, ma sei ridotto, appunto, a numero, quello che c’è scritto sul tavolo, su quei meschini, untuosi segnaposto. E poi magari, al momento del conto, paghi ugualmente i tuoi trenta, quaranta euro, che non son piccolo prezzo.

domenica 11 novembre 2007

Ah, la gioia che può dare un Moscato col prosciutto crudo!

Angelo Peretti
Confesso di non sapere quasi nulla del Moscato d’Asti. Del Moscato piemontese in genere, ché c’è anche la doc, appunto, del Piemonte Moscato. Non sono mai stato in zona, a veder vigne e cantine, a camminare i luoghi. Solo qualche passaggio di sfuggita. In macchina. Niente.
Confesso un’altra cosa: che mi piace, e molto. E che lo reputo un vino di riferimento. Che gli altri italici produttori bianchisti dovrebbe assaggiare, provare, testare, valutare, studiare con attenzione. Mica per far vini uguali, no. Ma per capire i limiti. Per comprendere, intendo, dove sia il confine, che pare labile (e forse labile in effetti è), tra eleganza e grossolanità, tra armonia e stridore. Ché oggi è qui che si gioca la partita. E il Moscato non ammette errori: dolce, aromatico, effervescente, di poco corpo, o impronti il vino sulla finezza, o non c’è nulla da fare, e avrai stucchevolezza.
Ecco: è qui il limite, è qui la sfida vera. Nei tempi (al tramonto, spero, di quei tempi) della concentrazione, del muscolo, della potenza, della struttura portata agli eccessi, del legno prevaricante, del tannino angosciante, c’è nell’Astigiano chi insegna che invece si può agire sulla levità, sulla leggerezza, sulla nuance. Che diventa fascinazione. Che intriga. Che avvince, perfino.
Eppoi, piantiamola, vivaddìo, di considerarlo vin da dessert, il Moscato. Ci sta, certo, con le torte di mele e di pere, con le creme. Ma è vino. E a me piace pensarlo coi formaggi cremosi, magari, o coi salumi, in primis col prosciutto crudo, quello più dolce, giovane. Provatelo, Moscato e prosciutto: abbinamento da favole, accostamento che pare, sì, azzardato & trasgressivo, e invece è sognante connubio, con la dolcezza tattile del grasso di maiale che s’associa per similitudine con la morbidezza fruttata del vino, con la salagione che si fone con la lieve speziatura liquida, col pizzicore della vivacità minuta che pulisce il palato e prepara al nuovo boccone e al nuovo sorso, e la bocca è un’ondata di saliva. L’acquolina in bocca, s’usa dire.
Che dite: vaneggio? Credo la pensassero così anche alcuni di coloro che son venuti alla deustazione di Moscato d’Asti che ho organizzato qualche tempo fa alla Taverna Kus, a San Zeno di Montagna, il covo dei miei wine tastings. Invece tutti sorpresi. Perfetto col prosciutto, sì, del Veneto. Ma anche col prosciutto d’anatra - artigianale - che ha portato Mario Bruno Guerra (I Rasoli è il suo agriturismo, sul Baldo), e con la sua pancetta steccata e fumé. Ammaliante con la crescenza. Perfino col Gorgonzola dolce. E s’è visto, dunque, ch’è vino vino per davvero. Vino da bere, intendo, anche a tavola. Ohibò.
E adesso ecco qui che di seguito illustro qualcheduno dei Moscati che abbiamo tastato: riporto i migliori, e sono otto sui sedici messi nel bicchiere. Con un’avvertenza, e cioè che, ahinoi, parecchie ossidazioni abbiam trovato. Per colpa, ritengo, di cattive conservazioni nei magazzini dei distributori e dei rivenditori (ché da loro li abbiamo presi i più tanti). E per questo son finite fuori gioco, per esempio, le bocce della Caudrina di Romano Dogliotti, che in passato ricordo da sogno, e invece stavolta... Peccato. E il Moscato ha in fondo anche questo d’anomalo: richiede cura nel conservarlo, nel tenerlo. Ché non ti perdona niente, e uno sbalzo di temperatura gli può esser fatale. Ma possibile che chi lo vende non sappia queste cose? Possibile non gli si voglia bene, a un gioiellino del genere, e lo si tratti male assai, lo si deturpi?
Oh, mi viene alla mente un’altra avvertenza: vedrete ben tre etichette di Paolo Saracco. Non stupitevi: è un genio, in fatto di Moscato. Almeno, io la penso così.
Ecco i vini, col doppio punteggio: centesimi e faccini.

Piemonte Moscato d'Autunno 2006 Paolo Saracco Il commento generale dei partecipanti alla degustazione? Che sembra un bianco della Loira, floreale e fruttato di frutto bianco ed erbaceo di salvia e d’ortica, d’erba limoncella perfino. Come un bellissimo Sauvignon francese, ma con l’effervescenza in aggiunta, su un corpo minuto ma fascinoso. Un cameo. Seducente, intrigante, sensuale. Gioioso. Lo bevi, lo ribevi, non te ne stanchi mai. Elegantissimo. Lo reputo uno dei più grandi bianchi d’Italia, e non vi sembri un azzardo.
91/100 - tre lieti faccini :-) :-) :-)

Moscato d'Asti 2007 Paolo Saracco La nuova annata. Qualcheduno l’ha preferito al 2006 (che leggete qui sotto) per la vena verde rinfrescante, dissetante. Giovanissimo, ancora non del tutto espresso. Eppure è lì che avanza, col suo classico stile, la sua tensione. Grintosissimo.
85/100 - due lieti faccini :-) :-)

Moscato d'Asti 2006 Paolo Saracco Oplà, altra bella bottiglia! Bellissimo naso, fruttato, floreale, speziato. Leggero tono di noce. E bella bocca, soda. Frutto ben espresso. Distensione, armonia. Piacevolissimo, per nulla stucchevole.
84/100 - due lieti faccini :-) :-)

Moscato d'Asti 2006 Cascina Fonda Naso dapprima un po' ritroso a concedersi. Poi s’apre con gradualità su toni floreali e di pesca bianca e di pera Kaiser. Varietale. Bocca delicata, direi di bell’eleganza. Dolcezza non invasiva. E c’è anche una bella lunghezza. Piacevole parecchio.
84/100 - due lieti faccini :-) :-)

Moscato d'Asti Biancospino 2006 La Spinetta Fragranze finissime, floreali. Fiori bianchi. Pera kaiser un po' acerba. Bocca piacevole, ancora su toni di fiore bianco, con leggero fondo di nocciola e di mandorla. Parecchio dolce, però.
83/100 - due lieti faccini :-) :-)

Moscato d'Asti 2006 G.D. Vajra Che strano vino! All’olfatto è quasi minerale. Molto personale. Fatica a concedersi. Non ha quelle note varietali che t’aspetti. C'è qualche cenno di lavanda secca, vene resinose, coccola di cipresso. Leggera speziatura, memorie balsamiche. In bocca è tesissimo, nervoso, scattante. Piuttosto lungo. Ripeto: strano, stranissimo vino.
80/100 - un lieto faccino e quasi due :-) :-)

Asti 2006 Cascina Fonda Abbiamo stappato anche qualche Asti. Spumante, intendo. Questo è quello che c’è piaciuto di più, nella serata. Bel naso, floreale, fine, pulito. Bocca sullo stesso piano. Freschezza, slancio. Leggera nota di nocciola.
80/100 - un lieto faccino :-)

Moscato d'Asti 2006 Cà Bianca Tecnicamente è fatto gran bene. Un pelo di personalità in più, un po’ di slancio, e affascinerebbe. Ha vena pulita di fiore e una leggera nota aromatica varietale. Pesca bianca quasi acerba. Bocca non particolarmente zuccherosa. Spezia sottile, di noce moscata.
78/100 - un lieto faccino :-)

martedì 6 novembre 2007

Quelle duecentomila bollicine di montagna

Angelo Peretti
Oh, sì sì: non fanno mica solo bianchi aromatici e rossi nerboruti e schiave scattanti, dalle parti del Südtirol. Fanno anche le bollicine. D’alta quota: le vigne sopra i seicento metri d’altitudine, sennò niente spumantizzazione. Poche bottiglie: duecentomila l’anno, appena, quando va bene. E vi dirò di più: son buone. Certo, mica tutte della stessa bontà, ed è naturale che ci sia scala di valori, sennò sarebbe preoccupante standardizzazione. Ma ce n’è qualcuna che merita alla grande, e comunque nessuna è indegna del primo e del secondo calice magari. E quasi tutte han prezzi abbordabili.
Fors’è proprio per questa faccenda dell’altura che mi son piaciute: intendo che così, in quota, l’uva può maturare a lungo, rispetto all’altre zone spumantiste, senza però perdere di freschezza. E insomma si raccoglie mica verde. Quanto alle varietà, son le solite: chardonnay, pinot nero, pinot bianco.
Ho avuto modo d’avvicinarle, le bolle di montagna, fuori sede (loro), a Verona, dove l’associazione dei sei spumantisti (sei in tutto) altoatesini si sono presentati, «perché – ha detto Josef Reiterer, leggi Arunda Vivaldi, che fa metodo classico a 1200 metri d’altitudine, opperbacco, e ha look da professore pazzerello di Ritorno al futuro – vogliamo far promozione dei nostri vini, ma anche fare gli ambasciatori della nostra zona». E dei sei che fan bollicine, erano presenti in cinque, ché il sesto, Von Braunbach, non ne ha neanche abbastanza per sé, figurarsi portarle in giro. E dunque c’erano, oltre al Reiterer - che da solo fa grosso modo il cinquanta per cento delle bottiglie champenois style complessive - anche Haderburg, Lorenz Martini, la Cantina Produttori San Paolo, che ha acquisito la Kössler, e Kettmeir.
Ora, ecco produttori e vini, quelli che ho assaggiato. E se per caso avete in mente di fare una gita in Alto Adige, be’, magari prendetevene nota.

Alto Adige Extra Brut Arunda Vivaldi Ha bel naso elegante tra il fiore e il frutto bianco. E in bocca è bello secco. Eppure anche cremoso. E denso. Ed ha insomma struttura. E lunghezza sulle note di fruttino. E vena sottile, sotto, di fieno secco. Gran bella mano, credete: vino intrigante.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

Alto Adige Cuvèe Marianna Arunda Vivaldi Il vino Josef Reiterer l’ha dedicato alla moglie Marianna. Ed è un bell’omaggio. Ché quest’è bolla elegantissima e aristocratica, direi. Che s’avvia classicamente con la crosta di pane e poi vira sul piccolo frutto, su finissime venature tropicali. E in bocca fonde tensione e snellezza, profondità e caratterino nervoso. E c’è frutto, tanto, nel lungo finale. Ed è da bere e ribere. Chardonnay in legno, pinot nero in acciaio.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

Alto Adige Brut Haderburg Nata nel ‘77 ai Pochi di Salorno, l'azienda diretta da Alois Ochsenreiter s’è votata da qualche anno all’assoluto credo della biodinamica. E fa bolle d’un cert’impegno. Come questo brut che è potentissimo e fruttato assai e denso e ha finale perfino balsamico-officinale. Ha bella persistenza. E insomma lo riberrei, anche questo qui, proprio volentieri. Chardonnay per l’85%, il resto pinot nero.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

Alto Adige Pas Dosé 2002 Haderburg Ecco, quando dicevo che Haderburg ha vini d’impegno, mi riferivo soprattutto a questo qui, il millesimato. Che certo non è mica di facile approccio, ma pretende quasi impegno, e devi aspettare un po’ che s’apra, e allora ecco che gusti i frutti antichi del bosco, la nespola magari, stramatura. E c’è nocciola. Ed è teso, affilato come una lama. E ha tanta personalità; da mettere su piatti impegnativi.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

Alto Adige Comitissa Brut Riserva 2002 Lorenz Martini Altro bel vino. Altra prima scelta, se così posso dire. Metà chardonnay, metà pinot nero, quaranta mesi sui lieviti. Secco. D’una florealità estiva, di montagna, appunto. Bocca perfino balsamica, resinosa. Carbonica minuta. Cremosità. E alla lunga il frutto bianco si fa considerevole. Buonissimo.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

Alto Adige Praeclarus Noblesse Riserva 2000 Kössler Se non ho mal capito, la Cantina Produttori San Paolo ha acquisito due anni fa l’azienda vitivinicola Kössler (1878 la nascita), lasciando però integri il marchio e l’esperienza spumantistica, che verrà magari riorientata. Si sappia che ora ha bolle easy to drink, che giocano sulla morbidezza, e quest’è infatti morbido parecchio e floreale.
Un lieto faccino e quasi due :-)

Alto Adige Brut Kettmeir Sulle colline di Caldaro. Da lì vengono il pinot bianco (metà della cuvée) e chardonnay e pinot nero, tutti in acciaio. Ha frutto giallo in bell’evidenza. E quasi rusticheggia. E in bocca - ha consistenza - ecco emergere qualche vena verde, che t’invita magari a stappare altre bottiglie dopo ulteriore affinamento. Epperò è un buon aperitivo.
Un lieto faccino e quasi due :-)

domenica 28 ottobre 2007

Dieci Groppelli per me, ma non posson bastare

Angelo Peretti
Sì, lo capisco, il titolo è proprio una ciofèca, stavolta. Ma, vedete, mi sono appena comprato tutta la discografia del Battisti Lucio, e me l’ascolto in macchina (sarà che mi son fatto nostalgico, che volete). E insomma, questa m’è venuta in mente, di canzoni: «Dieci ragazze per me, posson bastare». E siccome qui di seguito recensisco una diecina di Groppello di Valtènesi, come avevo promesso (promesso?) la settimana passata, ecco che il dieci ha fatto da catalizzatore. E poi c’è che questi che andrò a illustrare sono sì vini che per me - ora - vanno bene, e che ho bevuto volentieri dalla prima estate a qui, ma che non posson bastare. Nel senso che anche questi hanno ancora spazio per migliorare e puntare con decisione più in alto. E che comunque m’attendo un’ulteriore crescita di tutta la zona, ché altre aziende hanno blasone e storia e vigna. E insomma, coraggio: l’ora è quella giusta: l’ho detto e lo ripeto che mi pare si stia per spiccare il volo, sulla riva lombarda del Garda.
A proposito del Battisti. Quella lì delle dieci ragazze, non è certo una delle sue più belle. Quella che ho proprio ficcata in testa, di suo (un tormentone, per me, che va avanti da un paio d’anni, e ne ho comprato anche le versione incise da altri: molto bella quella dei La Crus) è «E penso a te». E ce n’è molte altre che mi danno i brividi. Per esempio «Io vorrei... Non vorrei... Ma se vuoi» (avete sentito come la canta anche l’Antonella Ruggiero?). E «Il nostro caro Angelo?». Mi ci riconosco in quel «ma schiavo non sarà mai». Vabbé: divagazioni.
Torno al Groppello. Qui sotto racconto dunque dei dieci che ho scelto, che però non esauriscono il panorama rossista della Valtènesi. Ché lì il groppello (uva) va anche a finire in uvaggio (ahimé: tecnica obsoleta) o cuvée (evviva: qui sì che ci siamo) con altre varietà (barbera, marzemino, sangiovese) per il Garda Classico Rosso (o Riviera del Garda Bresciano o Garda Bresciano, ché di denominazioni se ne sono stratificate troppe). Eppoi finisce anche in vinificazioni che direi sperimentali, col rebo, per esempio, ed altro, in table wines o in igt del Benaco Bresciano. Ma ho scelto di raccontare stavolta solo di bottiglie che in etichetta riportano la dizione monocultivar: Groppello. D’altri rossi, magari, parlerò più in là (a proposito: col groppello si fa anche il Chiaretto, rosato)
Ora, i vini, finalmente. Metto il doppio punteggio, centesimale e in faccini. Centesimale per dire del vino in quanto a materia, contenuto. Faccini per dire della piacevolezza mia personale di bevuta.
L’ordine è alfabetico, per produttore.

Garda Classico Groppello Colombaio 2006 Cascina La Pertica Groppello beverino, sì, epperò con un bel po’ di personalità. Ed è bell’azienda, questa Cascina La Pertica: la portaerei di casa è il rosso Le Zalte, ripetutamente tribicchierato. Ha, questo Colombaio, naso intrigantissimo: frutta matura, noce moscata, canfora. Bocca su toni fruttati evoluti, maturi, morbidi. Con la spezia in grande rilievo. E il tannino marcato ma non aggressivo. E sotto, costante e invitante, il frutto macerato.
86/100 - tre lieti faccini :-) :-) :-)

Riviera del Garda Bresciano Gropèl 2004 Comincioli Il Gropèl di Gianfranco Comincoli è una sorta di work in progess, di vino in continua evoluzione di stile, contrassegnando come nessun altro la ricerca continua del sindaco-vignaiolo di Puegnago. Ha naso un po’ chiuso, ma sotto c'è frutto macerato. Bocca calda, tannica, ampia, possente. E ancora molto frutto (ed anche ciliegia sotto spirito). C'è speziatura. E buona lunghezza.
85/100 - due lieti faccini :-) :-)

Riviera del Garda Bresciano Sulèr 2003 Comincioli Comincioli quando fa vino ed olio non sta lì a guardar le mezze misure. Dire che è estremo è poco, e quest’è il suo pregio, ma anche - me lo si perdoni - il limite. Ché a volte è la finezza ad andarci di mezzo, e dunque occorrerà meglio focalizzare, ma so che Gianfranco ci sta molto lavorando. Detto questo, ecco il Sulèr, Groppello d’appassimento lungo, da sempre. Il naso è un po’ compresso, ma sotto c’è tanto, tanto frutto maturissimo. La bocca è grassa, concentrata, potente, fruttatissima, tannicissima.
86/100 - due lieti faccini :-) :-)

Garda Classico Groppello Castelline 2006 Costaripa Il Groppello più piccolo, se così si può dire, di Costaripa. E m’ha lasciato in pensiero, ché non sembrava quasi neppure Groppello dell’ultima annata, con quella sua pacatezza di già quasi aristocratica. Naso da fragolona matura e prugna. Leggera speziatura. In bocca, bel tessuto tannico, vellulato. Ed è ancora sul frutto, maturo assai. Ed ha spezia e lunghezza.
84/100 - due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

Garda Classico Groppello Maim 2004 Costaripa Così elegante un Groppello non l’avevo mai trovato prima. Màim è acronimo: sta per Mattia e Imer. Di cognome fanno Vezzola. Il primo è il general manager di Bellavista, in Franciacorta. Enologo dell’anno per la mia guida, Gambero & Slow. Costaripa è la vigna gardesana, di famiglia. Il vino ha naso da frutto rosso appassito e surmaturo. C’è fragolona e confettura di mirtillo. Spezia. La bocca conferma il frutto macerato, ma ha slancio e beva e succosità. E c’è tannino bene esposto, ma senz’aggressività. Austero e vibrante insieme.
88/100 - tre lieti faccini :-) :-) :-)

Garda Bresciano Groppello Mogrì 2006 Sergio Delai Quando Sergio avrà vinto le ultime sue titubanze e si sarà reso conto davvero di quel che vale, be’, aspettatevi cose notevoli. Il suo Fronsàga è di già bel rosso. Questo Groppello gli sta a ruota. Naso di canfora e frutto macerato e vena speziata. Bocca ampia sul frutto, magari per ora un po' chiuso dalla nota tannica. Ha, di più, buona e speziatura. Anche qui, valurazione fiduciosa.
80/100 - due lieti faccini :-) :-)

Garda Bresciano Groppello 2005 Leali di Monteacuto L’Antonio è una gigante buono. A vedergli le mani ti fa paura, grandi come una vanga. Ma è uomo mite, quasi timido. E fa vino in garage, ché ha casa piccola e ormai non ci sta più (ma la cantina nuova è nell’aria). Fa vini che hanno carattere. E questo Groppello lo conferma. Naso fruttato di frutta rosso molto matura. Bocca tannica, potente, calda, speziata, pepata. Buona lunghezza. Potenza ma anche freschezza. Da provare, da bere. Se poi in futuro aumenterà l’eleganza...
85/100 - due lieti faccini :-) :-)

Garda Classico Groppello 2005 Le Chiusure Oh, che Alessandro Luzzago faccia dei bei rossi a Portìs (leggi Portese, comune di San felice del Benaco) l’ho già detto parlando qualche tempo fa del suo Malborghetto (rebo, merlot e poca barbera). Ma ci ha anche un piacevole Groppello. Naso sul frutto. Bocca idem, con note di pepe e tannino magari ancora abbastanza verde, il che mi fa dire che durerà, questo rosso. Vino un po' rustico, dunque, ma fresco e bevibile. Lo promuovo sulla fiducia.
80/100 - due lieti faccini :-) :-)

Garda Classico Groppello Riserva Arzane 2003 Pasini San Giovanni In attesa di (ri)provare il 2004, bevuto in versione provvisora, ho ritastato il 2003 dell’Arzane. E confermo quanto scrissi tempo fa, recensendolo. Una sorta di prototipo del Groppello che mira all’opulenza di frutto. Figlio del 2003, ha fruttone surmaturo, ma non cotto: ciliegia, marasca, fragolona. E sotto una sottile vena erbacea alpestre.
84/100 - due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

Garda Classico Groppello Balosse 2003 Zuliani Balòsse in bresciano vuol dir fuori di testa, pazzerello. Se non peggio. Ma le terre Balòsse sono anche un lembo di Valtènesi. Una scie di torbiera dove c’è canneto ed orchidea ed olivo e vigna insieme. Stranissima zona. Ci cavano, gli Zuliani, un crû di Groppello. Che ha naso intrigante, su toni decadenti di frutto e sottobosco (fungo secco, muschio perfino). La bocca ha frutto piacevole e rotondo. Buona beva, eppure anche tannino ben definito. Continua questa nota di frutta evoluta, accompagnata da sentori boschivi. Bella lunghezza e tannicità.
84/100 - due lieti faccini :-) :-)

martedì 23 ottobre 2007

Ma la Valtènesi è lì che spicca il volo

Angelo Peretti
Scrivevo nell’agosto di due anni fa: "Fate largo al nuovo Groppello".
Ora, il Groppello in questione è vino di Valtènesi, riva lombarda del Garda. Valtènesi la scrivo con l’accento, dato che non pretendo che tutti conoscano questa plaga gardesana e che sappiano dove ne cada l’accentazione, come si pronunzi il nome, insomma. E a distanza di tempo, son proprio contento di vedere che sono stato buon profeta. Il nuovo Groppello non dico ch’è cresciuto e che s’è fatto adulto, ma certamente è nato. Credetemi: c’è bella vitalità in terra di Valtènesi, e ribadisco l’accento.
Di Groppelli bevuti con gran piacere n’avrei da raccontare. E lo farò la settimana che viene: un poco di pazienza. Stavolta voglio dire qualcosa sull’uva e sulla sua gestione attuale e futura.
L’uva, dunque: groppello sta per autoctono, ed è un bene. Ed è anzi un valore. Ma francamente che nell’italica concezione del vino stia montando la moda dell’autoctonia ampelografica mi fa accapponare un po’ la pelle, ché non sopporto le tendenze modaiole che periodicamente affiorano nel mondo delle bottiglie. Non me ne frega proprio niente che il vitigno possieda pedigrée indigeno, se poi con quell’uva si fanno vini d’ignobil beva. E forse ancor meno m’intriga che se ne traggan vini correttamente fatti - enologicamente composti, compitini d’enologo, pur bravo - se poi non mi sanno descrivere la terra e l’uomo, se non mi sanno raccontare del loro terroir, insomma. Se poi quel tal vino descrive invece bene il suo terroir, e per di più è figlio d’uva autoctona, allora sono oltremodo lieto, gongolo. Ma non è il vitigno, ricordiamolo bene, l’unica componente da considerare importante, ché altrimenti si giustificano come tipici gli errori di vigna e di cantina.
Ora, il groppello è vitigno certamente degno d’interesse. Ma non è un fuoriclasse. Nel senso che per farci vino di costrutto ci si deve molto impegnare. Non ha colore, quest’uva. Dà sovente tannino rustichello. Non è spargola (il nome, groppello, viene del resto da groppo, da uve con gli acini serrati l’uno all’altro) e quindi è facile che l’attacchino i funghi, le muffe. E forse poi (ma direi senza forse) ha bisogno di spalla, forse vuol compagnia: e dunque metterci insieme un po’ d’altre uve non guasta, anzi. Di contro, mi piace assai quel suo tono di fragolona, che assieme alla faccenda del colore chiaro m’ha fatto dire altre volte – e non lo si prenda per affronto – che mi ricorda il pinot nero borgognone, e che quello potrebb’essere dunque il riferimento per chi voglia far vino in Valtènesi.
Badate: ne stanno prendendo consapevolezza, i vignaiuoli del luogo. E stanno tirando fuori bottiglie sempre più buone. Affrettatevi in zona, se ancora non la frequentate.
Il salto di qualità definitivo mi par lì che arriva. Debbo pur dire che quattro passaggi l’aiuterebbero molto. E cerco di parlarne qui sotto.
Il primo: meglio conoscer l’uva principale. So bene che s’è attivato un progetto groppello da parte del Consorzio del Garda Classico. E dunque l’auspicio è che il progetto vada avanti spedito, magari affiancando qualche ricercatore d’università ai pur volenterosi tecnici del luogo.
Il secondo: meglio conoscere la terra, il territorio. Serve un progetto di zonazione, e mica in senso classico solo: non basta, cioè, che mi si dica se quell’ettaro è adatto o no a piantarci quella tal uva, ma voglio anche sapere quali caratteri aromatici l’uva ne ricaverà da quel suolo, quel clima, quell’esposizione. Informazione essenziale, se voglio progettare vini d’equilibrio ed eleganza e finezza ed armonia.
Il terzo: abbandonare l’uvaggio. Ahimé, i vigneron di Valtenesi - troppi, anche se certo non tutti - amano ancora pigiare assieme le varie uve dei loro rossi, e dunque groppello e barbera e marzemino e sangiovese, ma anche da qualche tempo sempre più rebo. Lo ritengo un errore, fare uvaggio ancora, invece che far cuvée. Impossibile, assolutamente impossibile, che tutte l’uva maturino in contemporanea. Servono vinificazioni distinte, affinamenti separati, e poi far taglio. Che varierà d’anno in anno, ché ogni annata è diversa, grazie al cielo.
Il quarto: imparare l’appassimento breve. Non nascondiamocelo: col groppello - che è uva poco adatta, essendo compatta anziché spargola - si fa sovente un po’ d’appassimento, e la ritengo cosa che può aiutare. Ma è quasi sempre appassimento empiricamente condotto: trenta giorni perché così s’è sempre fatto, per tradizione. Senza interrogarsi, invece, di come quell’uva cambi, modifichi, plasmi il proprio profilo aromatico al variare dei giorni (giorni!) d’asciugatura. Mancano riscontri scientifici, analitici, ch’aiutino il vignaiolo. Il gap va colmato da subito. Eppoi ho visto troppi locali d’appassimento del tutto impropri: esposti all’umidore, all’arie malandrine, senza regolazione alcuna.
Detto questo, comunque si son fatti passi avanti importanti, convincenti, avvincenti sul fronte de’ rossi di Valtènesi. E son sicuri - ripeto, ribadisco, confermo, sottolineo, rimarco, evidenzio - che si è pronti per spiccare il volo. Spiccare il volo, già: far grandi rossi. Sicuro. Rossi di Valtènesi. Appunto: terroir. Col plusvalore dell’autoctono.
Quali sono ‘sti vini? Pazientate - ripeto - fino alla prossima puntata.

sabato 13 ottobre 2007

E se l’appassimento cattivo scacciasse quello buono?

Angelo Peretti
In economia, e più spesso da qualche tempo nel politichese, si cita spesso la cosiddetta legge di Gresham. Quella che afferma che la moneta cattiva scaccia quella buona. A dire il vero, sulla paternità di quest’asserzione s’è fatto un gran discorrere: pare addirittura che non sia stato nemmeno sir Thomas Gresham, agente di commercio britannico del Cinquecento, a definirla per primo. Chissà. Così pure ci si è spesso accapigliati sulla sua interpretazione autentica. E siccome questo non è un web magazine che s’occupi rigorosamente di temi economici, ecco che della legge di Gresham ripropongo una delle letture più elementari (e correnti), osservando che nel tempo si è sempre stati portati a spendere, a parità di valore nominale, le monete con peggiore contenuto metallico e a conservare invece - ed anzi accumulare - quelle con un pelo più, che so, d’oro o d’argento. In fondo, facciamo così anche adesso che c’è la moneta di carta: prima diamo via quella sgualcita, preferendo tenere nel portafoglio quella messa meglio, quella fior di stampa, come direbbero i collezionisti.
Perché quest’incipit para-economico su questo giornale che parla di vino e (più raramente, l’ammetto, e dovrò rimediare) di cose mangerecce? Perché temo che la legge di Gresham, un po’ riadattata, possa finire per applicarsi al vino. E in particolare al vino di Valpolicella. A quello più quotato: l’Amarone. Figlio dell’appassimento.
Non vorrei che in futuro si dovesse dire che l’appassimento cattivo ha scacciato quello buono. E cerco di spiegarmi.
Sono un po’ preoccupato per come vedo mettersi le cose in terra valpolicellese, sissignori. E mi dispiace, perché da quelle parti ho parecchi amici. Ma una riflessione credo vada tentata. Sperando che quanto andrò dicendo si riveli sbagliato, sbagliatissimo. Che si tratti solo d’allucinazioni.
L’Amarone, si sa, va forte. L’uva da appassimento (perché - chiederanno i maligni - ce n’è anche dell’altra che non va nei fruttai, in Valpolicella?) costa un occhio della testa. La terra ha assunto quotazioni fuori da ogni previsione. Bene: i vigneron della Valpolicella han potuto mettere fieno in cascina.
Solo che il successo dell’Amarone ha scatenato la fantasia. E la bramosia. Ed ecco che l’appassimento non è più peculiarità solo del rosso amaronista (e del di lui storico padre, oggi reietto, il Recioto, che adoro), ma s’utilizza, direttamente o meno, per figliocci e figliastri. Figlioccio è il Ripasso, e anch’esso ha gran presa sul mercato. Figliastro è ogni rosso igt che s’avvalga, appunto, d’uva fatte seccar nei fruttai, e ne vien fuori di tutto e di più.
Il Ripasso consiste nel far rifermentare il Valpolicella sulle vinacce dell’Amarone. In questa maniera il vino assume afrori tipici dell’appassimento. E cresce in struttura e complessità. Il problema che ci si è fin da subito - giustamente - posti in terra valpolicellese era quanto Ripasso fosse lecito produrre a fronte dell’Amarone tirato fuori dall’uva d’origine. Si è giunti a stabilire che le vinacce che hanno prodotto un quintale d’Amarone possono essere adoperate per far rifermentare due quintali di Valpolicella. A me, onestamente, sembra un po’ troppo, ma capisco: business is business. E sia. Solo che non s’è pensato che, fatta la pentola, occorreva fare anche il coperchio. E così in Valpolicella sulle vinacce dell’Amarone è nato, appunto un business.
La faccenda è questa. Mettiamo che io sia un produttore di quelli che non vogliono fare troppo Ripasso. Diciamo che ho prodotto un quintale d’Amarone e sulle sue vinacce ho ripassato un solo quintale di Valpolicella. Mi trovo virtualmente in mano diritti di Ripasso pari a un quintale, su quelle mie vinacce. Che faccio, li spreco quei diritti ripassevoli? Macché: li vendo! E piglio soldi anche lì. Così un altro può acquistare quelle mie carte e far ripassare il suo bel quintale di Valpolicella sulle mie vinacce. E dunque il Ripasso assume numero impressionanti. Senza però badare alla qualità del Valpolicella di partenza. Ed è un guaio, ché ormai il Ripasso è visto come una sorta di piccolo Amarone: non s’usa forse diffusamente questa definizione? Col prezzo che al massimo è la metà di quello dell’Amarone, ma quasi sempre scende molto, molto più in basso, a un quarto, un quinto.
Ma non basta. Gli è che in Valpolicella a far l’appassimento delle uve son maestri. E i fruttai sono perfettamente funzionali, addirittura computerizzati. E allora perché usarli solo per appassire le uve da Amarone? Si mette ad appassire anche altra roba: che so, uve che non sono adatte, corvine che non finiranno mai nei rossi importanti, cabernet piantati in modo un po’ avventato un decennio fa sull’onda delle mode americaneggianti. E alla fine ci si ricavano rossi d’una certa struttura che riecheggiano nei toni l’originale amaronista. Magari, ci si taglia insieme anche qualche barrique del potenziale Amarone meno riuscito, che non pare idoneo per la doc del vino principe, e il gioco è fatto: è nato il super-red appassimento style. Ed escono decine e decine d’igt di fantasia (ma sono in verità centinaia, credetemi). Vagamente amaroneggianti, appunto, ancorché di qualità sovente incerta. A prezzo però quasi sempre ancora più basso del Ripasso.
Così, può succedere che la stessa azienda, dal fruttaio tragga un Amarone - butto lì prezzi a casaccio - a 25-30 euro, un Ripasso a 9-10 e un rosso igt a 6-7. E il tutto va, ovviamente, venduto. Magari spedendo l’igt ai mercati emergenti, quelli che ancora non sono capaci d’assorbire bancali d’Amarone.
Già, ma se su quei mercati imparano che un rosso valpolicellese d’appassimento costa 7 euro, come farete poi, cari vignaiuoli di Valpolicella, a spiegare che un altro rosso pur’esso d’appassimento della vostra terra costa quattro volte tanto, ancorché si chiami Amarone? E con tutto quel Ripasso che gira, poi, e che ha botte d’alcol sopra i 14 gradi, e che quindi amaroneggia vieppiù, non ci sarà il rischio d’un effetto sostituzione, per via del prezzo, su tutta quella fascia di wine drinkers che di spendere certe cifre non se lo possono (più) permettere? E non c’è forse il pericolo che l’appassimento peggiore scacci quello migliore, e che dunque il Ripasso scacci l’Amarone e l’igt scacci il Ripasso?
L’ho detto di recente a qualche valpolicellista. Uno, sull’uscio della sua ultramoderna cantina, ha allargato le braccia e, sorriso stampato in faccia, m’ha ribattuto: «Finché li vendo io li faccio, vorrai mica che butti via tutta quella roba...» Già, finché li vendi, quei rossi, prendi e porta a casa. Ché il conto in banca cresce. Poi si vedrà.
Oh, sì, forse queste cose le scrivo perché ho mangiato male, e faccio un po’ fatica a digerire. E dunque son d’umore cupo. Eppoi per me ottobre (il primo autunno) è tempo gramo, da sempre, e mi deprime. Forse, sì, le scrivo per questo, certe cose. O forse no.

sabato 6 ottobre 2007

Meno male che almeno Gino... Del Lugana e dei silenzi luganisti

Angelo Peretti
È noto che la riconoscenza non è di questo mondo. E men che meno del mondo del vino. Per cui non mi sorprende quant’accade in terra di Lugana, ora che finalmente si sono assegnate le prime «stelle del Garda» nella disfida degustatoria delle «età del Lugana».
Di che cosa si tratti, lo lascio dire al comunicato stampa che ho ricevuto: «La scommessa chiamata “Le età del Lugana” lanciata alcuni anni orsono dal Consorzio voleva che una commissione di esperti giornalisti ne valutasse alcune annate confrontando le stesse e riconfermandole poi, l’anno successivo. Timidamente i produttori che si avvicinarono al primo “esperimento” furono pochi...» eccetera. Di fatto, si trattava di valutare una serie di Lugana, metter da parte quelli che sembrava avessero chance di migliorare nel tempo, riassaggiarli l’anno dopo e quello dopo ancora, e se per tre anni di fila davano esito favorevole, allora li si premiava con la stella della longevità. E i primi che han passato il test triennale son due Lugana del 2003: la Riserva del Lupo di Cà Lojera e il Molceo di Ottella. Buoni.
Ma adesso prendo l’incipit del comunicato stampa, che è questo: «Si è sempre definita “la scommessa” sulla longevità dei Lugana e, se di scommessa si trattava, ora, alla luce dell’evidenza, si può dire che la stessa sia stata vinta. Si, perché solo alcuni anni fa i Lugana tutelati dal Consorzio Tutela Lugana Doc vennero proposti ad un gruppo di giornalisti esperti del settore con la chiara intenzione di sfatare quella credenza che li voleva, essendo vini bianchi, non adatti ad un corretto e longevo affinamento. Il Lugana, si diceva e si credeva, va bevuto giovane e fresco, possibilmente d’annata. Fra i non credenti a questa volontà popolare il grande amico dei produttori di Lugana, Luigi Veronelli, incitava i produttori, sopratutto i giovani, a produrre il loro Lugana per poi dimenticarlo per qualche anno in cantina prima di commercializzarlo: “troverete grandi sorprese ed infinte soddisfazioni” diceva. Ed ancora una volta aveva ragione».
Giusto, giustissimo: Gino aveva ragione. Ma ce l’avevo certamente anch’io. Quando creai quest’occasione di confronto sulla longevità luganista, e Gino non c’entrava proprio.
Si sa, la riconoscenza non è di questo mondo, e neanche del mondo del vino. Ma visto che di come sia nata ‘sta faccenda non se ne dà cenno, voglio proprio togliermi lo sfizio (e già!) di mettere i puntini sulle i, e spiegare.
E dunque, il concorso delle «età del Lugana» venne di fatto concepito una sera a casa - e poi a cena, nel suo ristorante - di Igino Dal Cero (leggasi Cà dei Frati). L’anno prima avevo accettato la proposta di Paolo Fabiani (leggasi Tenuta Roveglia), allora presidente del Consorzio luganista - oggi c’è Francesco Montresor (leggasi Ottella) -, di rimettere in sesto il vecchio concorso della stella del Garda. Solo che agli assaggi m’annoiai parecchio, anche perché la formula con la degustazione prioritaria da parte degli enologici ci aveva tolto di mezzo qualche bel vino, giacché - pensate - l’avevan ritenuto poco «tipico» (ah, quanti misfatti lungo la strada della tipicità!). E insomma, facemmo passare meno vini di quanti ne prevedesse il regolamento. E poi spiegai le scelte, in una memorabile (per me, e per molti produttori, che ancora oggi me ne ricordano) relazione: troppo legno, troppa morbidezza, troppe ossidazioni, spiegai, un po’ rudemente magari.
La formula, dicevo, era oggettivamente vecchia, superata. E fra i meno convinti dell’operazione c’era Igino, che desiderava invece qualche cosa che fosse in grado di mettere in luce le prerogative del bianco di Lugana in termini di capacità di resistenza allo scorrere del tempo (e che belle bottiglie d’antan del Lugana I Frati ho potuto assaggiare!). E dunque, conversando, tirai fuori l’idea: che il pubblico giudicasse i vini dell’ultima annata in una sorta di concorso popolare, e che invece ai giornalisti venisse chiesto di scommettere, appunto, sulla longevità del vino, con ripetuto assaggio nel triennio. Insomma: c’è anche la mia firma su quest’operazione, vivaddìo. Ma nei comunicati non ne vedo traccia, ohibò. Ma capisco: la riconoscenza, eccetera.
Dico poi che comunque alle degustazioni del concorso delle «età del Lugana» ho partecipato solo il primo anno, per mia scelta, e dunque non ero presente né questa volta, né la precedente, e chi deve sapere il perché dell'assenza, lo sa, ma queste son faccende mie, che nulla tolgono al vino. E aggiungo che i due premiati, il Lupo e il Molceo, son davvero Lugana rappresentativi. E non avevo comunque grandi dubbi che sarebbero approdati al traguardo. Del resto, n’avevo già parlato nell’ottobre di due anni fa. E se comprensibilmente non volete rileggere il pezzo, mi limito a riportare qui sotto quant’avevo scritto allora sui due vini oggi vincenti.
In primis, la Riserva del Lupo 2003 di Cà Lojera: « Primo vini ad aver passato la selezione - dicevo - è il Lugana Riserva del Lupo 2003 di Cà Lojera. Per me, è un autentico fuoriclasse. Probabilmente uno dei migliori Lugana che mi sia mai stato dato d’assaggiare. L’ho già bevuto varie volte, e sempre mi si è confermato d’enorme carattere. Magari difficile, ora, da comprendere. Perché ancora chiuso, nervoso. Ma, a mio avviso, destinato a fascinoso futuro. È fatto in acciaio. Solo acciaio, niente legno. L’alcol, pur sostenuto, è quasi mascherato da una vivida freschezza, del tutto inusuale per la calda annata di cui è figlio. Emergono afrori d’agrumi (di limone, di pompelmo) e poi di citronella e d’erba di sfalcio. La vegetalità è a tutto tondo. La mineralità è lì che preme per uscir fuori. Il finale, lunghissimo, gioca sui toni della mandorla verde e della colorofilla. Lasciatelo riposare ancora, e vi darà soddisfazioni. Ci scommetto davvero». Scommessa vinta, dunque. E ne son lieto. E confermo: il miglior Lugana che ho bevuto fin qui (e garantisco che l’ho tastato spesso e lo tasto tuttora di frequente).
Ora, il Lugana Superiore Molceo 2003 di Ottella: «Poi - scrivevo allora -, il Lugana Molceo 2003 di Ottella. Siamo nella categoria dei vini affinati nel legno. E il Molceo si conferma ancora una gran bella espressione luganista. Denso, grasso, setoso, eppure anche citrino, rigoglioso di salvia. Il passaggio in botte quasi non l’avverti. Te ne accorgi solo per una vena vanigliata sottesa all’ampia struttura. Non dovrebbe aver proprio problemi a dipanarsi al meglio nel triennio che viene». E anche qui scommessa rivelatasi corretta. E son contento, ché i Montresor sanno il fatto loro, e lavorano bene, ed è bravo assai co’ bianchi Flavio Prà, che gli è consulente.
Ora, un altro commento. Qui sopra ho detto che entrambi i premiati, il Lupo e il Molceo, son Lugana rappresentativi. Rappresentano, intendo, le due scuole del pensiero luganista. Il primo, la Riserva del Lupo di Cà Lojera, è un vino fatto in acciaio, che nulla concede alla morbidezza, ma punta tutto su freschezza, e vegetalità, e mineralità. L’altro, il Molceo di Ottella, passa invece nel legno, e gioca sulla morbidezza polposa del frutto, su un velo di vanigliatura, sulla seduzione dolce. Riconosco, al Molceo di Ottella, gran piacevolezza. Ed è lo stile che oggi indubbiamente paga di più sul mercato. Lo stile più seguito dai produttori luganisti. Ma io - è noto - preferisco l’altra, di scuola. Quella che nulla concede alla morbidezza e alla dolcezza. Quella di Cà Lojera e del suo Lupo del 2003. Ché il Lugana è, per me - l’ho scritto più volte - rosso mascherato da bianco (mi prenderanno mica anche questa, di definizione, vero?), e guai se non tira fuori quella sua tagliente, ruvidosa anima che gli deriva dall’argille della Lugana, la terra che fu bosco e palude, prima di veder vigna. Ma siete sempre liberi di dirmi che sbaglio. O di non dire proprio niente, come fa il consorzio. Meno male che c’è almeno Gino, nelle citazioni. E certamente non ho dubbio alcuno ch’io valga non una, ma millanta volte meno di lui, e gloria alla sua memoria: ci mancherebbe.
Che dite? Che son permaloso? Sì, proprio vero: permalosissimo, l’ammetto. Ma vorrei veder voi, al posto mio, corbezzoli!
Post scriptum: l’escalamazione, corbezzoli!, non rientra propriamente nel mio bagaglio lessicale (che riconosco essere in genere più colorito e spesso figurativamente pertinente la fisiologia mascolina), ma me l’ha insegnata una certa persona, e la trovo appropriata, essendomi ripromesso di non eccedere, nello scritto.

lunedì 1 ottobre 2007

Quaranta, e (forse) si riparte: il Bardolino alla svolta

Angelo Peretti
Stavolta cedo il passo. L’ho già fatto un paio di volte in passato, e lo rifò volentieri anche stavolta: lascio il mio spazio all’intervento d’altri. E l’altro in questione è Giorgio Tommasi, presidente della Cantina di Castelnuovo, una delle tre realtà consortili del territorio gardesano di riva orientale.
Tommasi doveva partecipare con me e con Franco Cristoforetti (Villabella) e con l’amico Nereo Pederzolli, giornalista di quelli che ammiro, al convegno che il Consorzio del Bardolino ha organizzato per la festa dell’uva: la quarantesima vendemmia della doc bardolinista, era il tema. Eravamo a Bardolino, intendo. E in effetti ha partecipato, ma io che ero il cosiddetto moderatore dell’incontro, ho preferito metterlo sulla chiacchierata, e gli ho quindi domandato di sintetizzare. Solo che, rileggendolo, quell’intervento che s’era scritto m’è piaciuto, e gli ho chiesto se me ne dava copia, e adesso trovo giusto condividerne i contenuti. Ché non è mica così cionsueto che nella mia benacense terra si faccian riflessioni così a tutto tondo.
Dico subito, e mica per fare il bastian contrario, che non tutto condivido appieno, ma è naturale che possa esser così. E il punto di non totale condivisione è quando - lo leggerete - si parla dei vitigni, ché Tommasi vorrebbe tornare a valorizzarne la complessità, com’era nelle origini del Bardolino, ed apprezzo l’intento, ché questo porterebbe a rifare il vino salino e piacevolmente beverino che era. Ed è pur vero, però, che dice: prima la zonazione. In modo da verificare quali siano davvero i vitigni vocati terra per terra. E dunque già si fa distinzione. Personalmente, però, e l’ho scritto più volte, son terroirista: ossia, credo nel terroir. Più che nel vitigno, che considero uno soltanto dei cento caratterii del terroir, appunto. E dunque il vitigno m’intriga solo in parte, perché soprattutto vorrei che nel vino trasparisse l’anima del luogo e la genialità dell’uomo che in quel luogo vive, il genius loci, come dice chi se n’intende di cose di sociologia ed affini.
Detto questo, evviva! Mi piace quel che ha scritto Tommasi. E ve ne propongo la lettura. Ché finalmente nella mia terra si torna a pensare. E la rinascenza bardolinista potrebbe essere lì per arrivare.

Produrre un Bardolino di qualità
di Giorgio Tommasi
Voglio credere che quando mi è stato proposto di esprimere la mia opinione sul come produrre un Bardolino di qualità, lo si sia fatto perché la Cantina di Castelnuovo, che presiedo, coi suoi quasi trecento soci, è il maggior produttore di Bardolino, ma anche perché per me, come per Angelo Peretti, il primo vino bevuto è stato appunto il Bardolino (anzi, qualche goccia di Recioto di Lazise, nei primi anni di vita). E perché godo della fama di essere rigoroso, forse troppo, nel pretendere il rispetto di regole che siano finalizzate ad ottenere vini di qualità.
Accingendomi tuttavia a riordinare le idee per svolgere il tema, mi sono reso conto di quanto fosse vasto rispetto alle necessità di sintesi e complesso per me che non sono propriamente un esperto.
Subito si è presentato il problema di definire cosa si intenda per un Bardolino di qualità: per me, è il vino prodotto con buone uve dei vitigni tradizionali, nella giusta miscela, coltivati nei migliori vigneti, all’interno della zona delimitata dal disciplinare.
Può sembrare una definizione lapalissiana, ma non tutti sono stati e sono d’accordo.
Vedo di seguire passo per passo la definizione proposta.
Il vino. Per me la vinificazione deve semplicemente assecondare e seguire i naturali processi di fermentazione, macerazione e maturazione, senza introdurre strani artifici (ad esempio la barrique), utilizzando al meglio quello che la tecnologia ci offre per riprodurre su larga scala e con risultati prevedibili quello che millenni di esperienza ci hanno insegnato.
Vitigni tradizionali. Qui comincia a nascere un problema che è di pochissimi vini, cioè la presenza di molte varietà di uva. Penso che sia improponibile e probabilmente inutile ritornare alle decine di varietà utilizzate cinquanta, cento o duecento anni fa. Però alcuni punti fermi sono necessari. La corvina e la rondinella vanno benissimo, ma come fare un Bardolino vero senza molinara (quasi sempre citata nelle retroetichette, ma quasi mai presente), senza sangiovese e negrara, senza un pizzico di garganega e fernanda? E poi i vitigni di più recente introduzione: sì a piccole dosi di merlot (che nelle nostre colline è di grande qualità) e di barbera, che hanno tradizione centenaria, no al cabernet che c’entra come i cavoli a merenda.
Giusta miscela. È impossibile fissare percentuali precise: ad ogni produttore la sua ricetta. Mi limiterò a registrare la tendenza ad esagerare con la corvina, probabilmente per scarsità di uve di qualità degli altri vitigni.
Nei migliori vigneti. Ci troviamo di fronte ad un altro problema particolarmente accentuato nella zona del Bardolino: la variabilità esasperata dei suoli, che provengono da substrati pedogenetici trasportati dal ghiacciaio in quattro glaciazioni (anche se solo le ultime due sono importanti). È quindi fondamentale enfatizzare l’importanza della macro e micro zonazione, che permette di individuare gli appezzamenti con diverse caratteristiche, ma comunque ottimali per la coltivazione della vite, e quelli da bandire: è questa, a mio parere, la priorità assoluta per il Bardolino! Ci avevano già pensato i nostri antenati facendo leva sull’esperienza di millenni, ed ora per molti motivi dobbiamo utilizzare strumenti moderni e scientifici come le analisi del terreno, le microvinificazioni, eccetera.
Continuando a definire i migliori vigneti, accenno alla forma di allevamento e alla densità di impianto. Per fortuna è abbastanza semplice: va benissimo il guyot, che peraltro si avvicina al filare ad archetto già utilizzato da tempo (io coltivo vigneti impostati così che hanno sessant’anni d’età) e vanno bene le densità tra quattromila e cinquemila viti per ettaro.
Per quanto riguarda portainnesti e cloni, ritorniamo alla complessità e ai problemi. Ci troviamo con vigneti degli ultimi anni del secolo con portainnesti vigorosi (come il famigerato kober), cloni troppo produttivi e forme espanse, che convivono con i nuovi impianti sicuramente indirizzati alla qualità, ma ancora giovani per darci i grappoli migliori. E sui cloni è auspicabile intensificare gli sforzi per selezionarne di nuovi dai pochi vigneti antichi rimasti, anche per non cadere nella standardizzazione delle uve.
Tralascio di parlare delle pratiche agronomiche, perché sarebbe troppo lungo. Solo un pensiero: la vite ha bisogno di soffrire un po’, e quindi solo eventuali irrigazioni di soccorso.
Seguendo lo schema proposto, ritengo che avremo ottenuto non uno, ma molti Bardolino di qualità, che potranno di volta in volta essere pronti, leggeri e da bere giovani, oppure più corposi e adatti all’invecchiamento di qualche anno, con più o meno colore, più o meno salati e così via, ma tutti inconfondibilmente Bardolino.
Per finire, un cenno al ruolo delle cantine sociali: in ogni denominazione, sono fondamentali per l’equilibrio della filiera e devono essere orientate a premiare la qualità delle uve. Già nel 1903, quando nascevano le prime cantine cooperative, il Marescalchi individuava come il principale problema la valutazione delle uve dei soci, elencando sei diversi metodi per definirne la qualità. È trascorso più di un secolo, ma il problema è sempre attuale. Con la differenza che oggi sono in fase di sperimentazione avanzata strumenti tecnologici che permettono la misurazione di fondamentali parametri qualitativi.
La scelta di come remunerare le diverse uve incide in maniera significativa sui comportamenti e sulle decisioni del socio, non solo nel breve, ma anche nel medio e lungo periodo, influenzando la viticoltura di un intero territorio.
Concludo con gli auguri di buon compleanno al Bardolino e… come si dice: la vita inizia a quarant’anni!
Giorgio Tommasi

E adesso chiudo io, da padrone di casa, e m’associo: avanti coi prossimi quaranta.

sabato 22 settembre 2007

Il bianco che quasi non c’è: San Martino della Battaglia

Angelo Peretti
Stavolta vorrei raccontarvi di un bianco che quasi non c’è. Nel senso che sì, di bottiglie ne trovi, ma sono pochine. E di fatto le puoi bere solo sulla terra d’origine. Perché quella terra è un pezzetto appena. Piccolissima. E ci fan vino con l’uva innominabile: tocai friulano impiantato al confine lombardo-veneto, ma dir tocai - lo sapete - è vietato, che sennò i legislatori europei piangono, avendo deciso che il nome è solo degli ungheresi. E così un tempo quel vino portava in etichetta il nome di Tocai di San Martino della Battaglia, e invece adesso è più semplicemente San Martino della Battaglia. E il nome è quello di una frazione di Desenzano del Garda. Ed ha minuscola vigna bianchista a margine dell’argille anch’esse bianchiste del Lugana. Basse colline d’entroterra gardesano.
È, quella di San Martino, terra che sembra quasi grondare ancora il sangue della battaglia - celebre - del Risorgimento. E mi domando se si scriva tuttora con la maiuscola, il Risorgimento. E se nelle scuole si studino anche adesso quei combattimenti. Lì a San Martino e a Solferino s’ammazzarono a migliaia, colpiti da palle di schioppo che spezzavano gli arti e da ferro affilato che squarciavano le carni. E fu sofferenza inaudita: 24 giugno 1859, tra morti e feriti furono 40mila. Fu anche, quel dolore assurdamente enorme, generatore di solidarietà, dalla gente del luogo. E da uno svizzero illuminato, Jean Henri Dunant, che in quei giorni di morte e di pianto maturò l’idea della Croce Rossa.
Ora, non so invece come sia maturata l’idea di piantarci vigna di tocai a San Martino. Da qualche parte ho letto che sarebbero stati proprio dei furlani a portarla, perché qui sostavano portando vacche in transumanza. Chissà.
So anche che, dopo un iniziale successo, il tocai sammartinese è lentamente caduto nell’oblio, e ormai non c’era quasi più nessuno che lo vinificasse, soprattutto nei tempi di rossi imperanti, gli anni Novanta. Ora, però, l’onda del bianco torna a montare. E magari c’è anche lo zampino del successo del cugino Lugana. E insomma, ecco che il San Martino è tornato ad uscir fuori dal guscio. Ed è un bianco che si fa rispettare. Lo fanno in pochi, ne fanno poco, ma merita attenzione, ché si bevono dei buoni bicchieri.
Qui sotto vi conto qualcosa dei tre che ho, appunto, bevuto quest’anno. Che non son tutta la produzione, ma ci siamo vicini, ché mi pare ce ne siano ancora due o tre e basta, e quelli, ahimé, non m’è capitato di tastarli.
Il prezzo? Non ce l’ho, ma - tranquilli - son pochi euro a bottiglia. E dunque son bocce da comprare con serenità.
L’ordine degli assaggi è alfabetico, per azienda.
San Martino della Battaglia Pergola 2006 Civielle Civielle sta per Cantine della Valtenesi e della Lugana. Il vino ha colore quasi dorato, traversato da vene erbacee. Naso di frutto giallo maturo. Bocca pure polposa, magari un po' dolcina, ecco. E poi note di camomilla (che son caratteristiche), e anche il the. E c’è buona lunghezza, e freschezza integrata. Non è il mio stile, con quella morbidezza, ma è ben fatto.
Due lieti faccini :-) :-)
San Martino della Battaglia 2006 Cobue Si concedono lentamente al naso i fiori bianchi, ed è dunque florealità ritrosa quella di questo San Martino. La bocca è rustica. Raspa come una carta vetrata. Ha freschezza in rilievo e sotto la camomilla e ricordi di fieno e poi frutto giallo non maturissimo, ma di buona densità. Vino apparentemente semplice, in realtà di bella lunghezza e materia. Da osservare.
Due lieti faccini :-) :-)
San Martino della Battaglia Campo del Soglio 2006 Colli a Lago Mi piacerebbe riprovarlo adesso il San Martino dei Formentini, ché quando l’ho bevuto, a fine giugno, era da troppo poco in bottiglia, e quindi ancora chiuso e scosso. E invece sappiate che il Campo del Soglio è sempre bel vino, appagante (buonissimo trovai il 2004). Fresco. Sapido. Ha polpa. E nitida memoria di pesca bianca.
Due lieti faccini :-) :-)

venerdì 14 settembre 2007

Chi salverà il Valpolicellino?

Angelo Peretti
Ma guarda te se ci si doveva mettere la grandine per salvare il Valpolicella d’annata. Già, perché chi ha preso la tempestata di fine agosto, almeno in (buona) parte l’uva l’ha potuta raccogliere lo stesso, ché già aveva confortanti indici di maturazione, ma mica l’ha potuta destinare all’Amarone, acciaccata com’era. E allora, credo (spero), via a produrre (anche) il tanto bistrattato Valpolicellino d’annata, che altrimenti rischiava la scomparsa. Già, perché ormai è da un paio d’anni che gira voce insistente d’un possibile abbandono quasi radicale del piccolo della doc valpolicellista, sopraffatto dall’impetuoso successo commerciale di sua maestà l’Amarone e del principe Ripasso, che amaroneggia vieppiù. E dunque tutti a destinar l’uva ai super-red valpolicellesi. Appassire, appassire, è la parola d’ordine. Tutti a far cassettine di grappoli destinati al fruttaio. Ad onta del vino giovane, per il quale si adopera magari solo l’uva dei vigneti più giovani, oppure quel che resta (se ne resta) dopo la vendemmia per l’Amarone, per il Recioto, per il Superiore, per il Ripasso.
Perché l’abbandono del piccoletto in favore dei parenti più prestanti? Perché pecunia non olet, come dicevano i latini. Tradotto e adattato in lingua locale: Schèi fa schèi. E c’è da capirli (e di schèi, in Valpolicella, ne hanno fatti, sull’onda amaronista che sembra non conoscere scoglio, il che ha davvero del sensazionale).
Piuttosto, ci sarebbe da chiedersi se nel medio-lungo periodo si dimostri davvero azzeccata la scelta di puntare tutto su due tipologie di vino prettamente tecniche (son tutt’e due figli diretti o indiretti dell’appassimento), orientando per di più la comunicazione sui soli nomi per l’appunto della tecnica, e mettendo invece in secondo piano la denominazione di terroir: chi dice più Amarone della Valpolicella o Valpolicella Ripasso? Si semplifica, si abbrevia: Amarone, Ripasso, stop. E la Valpolicella tende quasi a scomparire dalla lingua enoica. Talché in un’indagine commissionata dallo stesso Consorzio è emerso che taluni identificano l’Amarone come vino del Piemonte o d’altre terre ancora.
Detto questo, l’interrogativo che qualcheduno mi pone è: «Ma esiste ancora un buon Valpolicella d’annata?» Che si possa bere senza tanto rotear di calice, decanter et similia. Con qualche disimpegno e una fetta di soppressa e una di polenta brostolà. E io dico: nonostante tutto, sì, qualche piacevole vino fresco c’è. Di quelli franchi di beva e fruttati e succosi. E qui sotto fornisco l’indicazione d’una cinquina d’interessanti 2006 che ho assaggiato nei mesi estivi. E non sono solo questi i Valpolicellini da bere, ma mica tutto ho potuto tastare (ad esempio, non ho provato quello dei Venturini da San Floriano, che di solito mi piace).
Valpolicella Colli Neri 2006 Cantina di Montecchia Colli Neri è la linea. E il vino non ha altra pretesa se non quella, vivaddìo, di farsi bere, e bene anche. Il naso è fruttato: ciliegia in primis. Senza eccessi, ma con pulizia notevole. E c’è sotto spezia leggera. In bocca è beverino e fresco e snello. Se solo avesse un pelo di lunghezza in più, potrebb’essere un piccolo fuoriclasse...
Due lieti faccini :-) :-)
Valpolicella Classico 2006 Corte Rugolin I Coati fanno bell’Amarone, elegante. Ma anche il loro baby Valpolicella è di quelli che lasciano il segno. In direzione opposta all’Amarone, ovvio: di qui snellezza, di là concentrazione. Ma c’è bel naso tra il fruttatino e lo speziato. E bocca fresca, verde, floreale (memorie di ciclamino). E c’è, sotto, una base di ciliegia e anche discreto tannino. Beverino, piacevole.
Due lieti faccini :-) :-)
Valpolicella Classico 2006 Allegrini Be’, sì, m’era piaciuto di più in precedenti annate il Valpolicella basic degli Allegrini, ma è mica male neanche questo 2006. Fatto con mestiere. Naso di frutto e spezia. Bocca fruttata e tannica e fresca. Note intriganti di ciclamino insieme a quelle della ciliegia. Materia parecchia. Ecco, altri anni ci trovavo più beva, però resta un bel bicchiere.
Due lieti faccini :-) :-)
Valpolicella Classico Il Valpolicella 2006 Buglioni Ecco: qui la ciliegia c’è. Magari non è esattamente un’esplosione di frutto, ma è nitida, pulita. E in bocca questo valpolicellino targato Buglioni si presenta semplice sì, da tracannare con disimpegno, ma anche ben modulato. Magari un po’ verde, ecco, ma ha frutto e vena acida in bell’evidenza e qualche nota tannica ben integrata.
Un lieto faccino e quasi due :-)
Valpolicella Classico 2006 Camporeale Probabilmente c’è chi lo troverà un po’ dolcino, un po’ morbidosetto, però ha fruttino (la ciliegia, la fragola) e caramellina al lampone. Al naso e in bocca. Punta molto a un approccio morbido, confidenziale, questo piccolo rosso di Mario Lavarini. Ma ha discreta lunghezza e, insomma, un buon bicchiere con una fetta di soppressa giovane ci sta.
Un lieto faccino e quasi due :-)

sabato 8 settembre 2007

Quei dieci Soave che fanno felici i miei faccini

Angelo Peretti
A volte t’incastrano. Se scrivi sui giornali, capita che ti chiamino a fare il moderatore a convegni, dibattiti e tavole rotonde. Spesso riesci a schivare, altre volte no. E quasi sempre ti trovi a non moderare un bel niente, ma tutt’al più a fare da timer ai relatori, che mica sempre sono fedeli ai tempi che gli hanno assegnato. E insomma, ti senti una specie di soprammobile, e basta, che apre la bocca solo per dare e togliere la parola ad altri. Succede, e non è che uno ci si senta gratificato.
L’ultima volta in ordine di tempo m’è accaduto di fare il moderatore al Soave Versus, la rassegna annuale che il Consorzio di tutela del Soave dedica ai bianchi della denominazione. E devo dire che non è stato neanche così difficile, perché chi doveva intervenire l’ha fatto sostanzialmente nei tempi prefissati, e così il convegno - troppo lungo, come tutti i convegni, ma non per colpa di chi ci doveva parlare - è finito pressoché all’orario programmato: appena sei minuti di sforamento sono una specie di record, soprattutto se si pensa che si era partiti col solito quarto d’ora di ritardo.
Ora, è stato un peccato non aver potuto approfondire l’ultimo intervento, quello di Stefano Raimondi, responsabile della linea «vini alcolici e bevande» dell’Ice, l’Istituto per il commercio estero. Ché delle numerose slide che aveva preparato sul pc non ne ha presentate che un numero limitato, e dentro ci si leggevano dati che probabilmente era il caso d’approfondire. Dati di vendita e di posizionamento commerciale dei vini bianchi veneti nel mercato globale.
Cercherò di riassumere per sommi capi qualcuno dei trend illustrati, e sono grato a Raimondi d’avermi lasciato una stampata delle sue diapositive.
In primis: il divario fra export è italiano di vini rossi e bianchi si sta colmando. Ma nello stesso tempo i vini a denominazione sono da anni sostanzialmente sugli stessi volumi di vendita all’estero, mentre crescono, e parecchio, i vini da tavola. Insomma: si esporta vino che costa poco. E quest’osservazione vale tanto più per i bianchi del Veneto, ch’è la prima regione esportatrice: i prezzi medi praticati sono a quota 1,92 euro, contro un valore di 2,55 euro per la media italiana. E se proprio si vuol farsi del male con qualche altra osservazione, be’, preoccupa un pochettino vedere che quasi l’80 per cento circa dell’export vinicolo veneto è concentrato su quattro paesi: la Germania (col 41 per cento), il regno Unito (19 e passa), gli Stati Uniti (con l’8 per cento, che è dato buono, ma miserello se si pensa alla dimensione del mercato a stelle&strisce) e il canada (e lì siamo al 7 e più). Vien quinto il Giappone, che è quasi al 6 per cento. Si dirà: sì, ma son mercati floridi, e la Germania è partner commerciale ben piazzato. Certo, ma i tedeschi pagano poco poco il nostro vino, e concentrar le vendite lì non dà grande valore aggiunto. Meglio sarebbe convincere gli americani, ma a quello ci pensano di già i toscani, che hanno nell’America del Nord il loro mercato di sbocco prevalente, sul quale superano di molto per fatturato le vendite che fanno nell’intera Europa. E c’è da meditare.
E la fonte è autorevole. L'Ice s’occcupa di promozione del made in Italy sui mercati internazionali. Ed ha, nel settore del vino, lunga tradizione. L’ufficio di Raimondi supporta la presenza delle imprese del settore sui mercati internazionali: fiere, workshop, comunicazione, azioni presso i punti vendita, formazione degli operatori esteri. Eppoi monitora i mercati, attraverso l’analisi dei flussi statistici (volumi, valore, tipologia, provenienza, destinazione ecc). Mica poco davvero.
Detto questo, so che a qualcheduno fra chi legge quest’InternetGourmet gli è già venuto il mal di testa, e allora meglio darsi al vino. Nel senso di descriver qualche vin di Soave. E siccome però non ho avuto modo & tempo d’assaggiar tutto al Soave Versus (ed anzi mi son limitato a tastare qui e là, per provar cose nuove o per aver qualche conferma), faccio come l’anno passato e riprendo gli appunti di degustazione soavisti dell’ultimo paio di mesi, e adopero quelli, prendendo in considerazione anche aziende che al Versus non c’erano. In miscellanea, dunque. E sono una decina i Soave che (sin qui) mi son tanto piaciuti. Al punto che è diecina cui assegno, d’ufficio, i miei tre faccini gaudenti.
Soave Classico Monte Fiorentine 2006 Cà Rugate Et voilà, altra annata ed altro Fiorentine in grande spolvero. Un bianco che ha un marchio di fabbrica, con quel suo bel frutto giallo pulitissimo, croccante, succoso. Quella beva appagante. Quella snellezza. E quegli accenni di sottilissima mineralità. E quell’accenno di noce sul fondo.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Pressoni 2006 Cantina del Castello Il Pressoni m’è piaciuto parecchio anche in annate passate, e questo 2006 m’ha confermato, se bisogno ce ne fosse stato, la bellezza di questo crû soavista. All’olfatto ha impronta estremamente citrina. E agrumata è pure la bocca. E fresca. E vene d’ananasso e ortica e frutto bianco.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Cà Visco 2006 Coffele Be’, che dire del Cà Visco che io non abbia già detto in passato? È un gran bel vino. Con tutto quel frutto giallo al naso. E quella polpa fruttuosa densa che t’invade il palato. E quella ruvidità da carta vetrata che ti raspa sulla lingua. E quelle vene vegetali che rinfrescano. E via lunghissimo. Ed elegante.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Superiore Vecchie Vigne Contrada Salvarenza 2005 Gini C’è un prato fiorito che s’apre nel bicchiere quando annusi il Salvarenza del 2006. E floreale si porge al palato. E c’è in di più freschezza e mineralità in bel rilievo, e cenno d’erba officinale. Il finale è quello asciutto, quasi tannico, che mi piace trovare in un Soave importante.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Superiore Monte Sella 2005 Le Mandolare Non ricordo se ho mai scritto prima d’un vino della Mandolare. Eppure ricordo che il loro Monte Sella m’era piaciuto già nell’edizione 2004 e parecchio di più l’ho goduto nella versione 2005, con tutto quel suo frutto giallo maturo maturo e quella vena agrumata e quella spezia intrigante.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Montetondo 2006 Monte Tondo Frutti e fiori. Gialli. Ce n’è tanti d’entrambi, al naso e in bocca, in questo Monte Tondo del 2006. Ed ha gran polpa, tanta. Epperò anche bella freschezza che rende succosa e salina e appagante la beva. Un gran bel vino, che m’è piaciuto bevendolo un paio di volte di già da luglio a qui.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Calvarino 2005 Pieropan A Soave Versus il Nino Pieropan non espone. E vabbé, ma il Calvarino, bevuto a luglio, è memorabile anche nell’edizione 2005. Con quella sua tensione che gli è caratteriale e quella potenza e quella grassezza di frutto e quella vena d’ortica e quel ricordo di frutto tropicale e quelle nuanche di frutta secca.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Staforte 2005 Prà L’anno passato, quand’ero andato giù di testa per lo Staforte, il nuovo Soave di Graziano Prà, ci fu chi me ne disse un prógno, ed anzi ne scrisse perfino. Vabbé, adesso dite quel che volete, ma anche il 2005 mi piace, e tanto tanto. Con quel frutto bellissimo e succoso. E quella tensione di beva. E i fiori macerati.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Monte Carbonare 2006 Suavia Ora, nel club dei grandi del Soave, le sorelle Tessari un posto se lo son guadagnate da tempo, e il Carbonare ’06 è un conferma. V’è naso floreale (e il fiore secco che s’aggiunge a quello di prato) e bocca fra l’agrumato e il salino. E morbidezza che ti coccola e insieme anche tensione di beva.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Le Bine di Costìola 2006 Tamellini M’era strapiaciuto il 2004. In luglio, ho adorato il 2005. Adesso che Gaetano Tamellini m’ha fatto provare in anteprima il 2006 (da soli due mesi in bottiglia), posso dire che è uno dei bianchi più intriganti che mi sia occorso di bere negli ultimi anni (e ne ho bevuti, di bianchi). Grande e complesso.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)