mercoledì 25 aprile 2007

Quei bordolesi in terra padovana: i rossi dei Colli Euganei

Angelo Peretti
I monti che somigliano a monti, i colli che somigliano a colli. Era così che mia figlia, allora piccolotta, definiva i Colli Euganei quando cominciammo a bazzicarci a provar ristoranti: erano i tempi in cui collaboravo con la guida dell’Espresso, allora diretta da Edoardo Raspelli, e a mandarmi in missione mangereccia in lungo e in largo per il Veneto era Giovanni Bravi, gran bella forchetta. E ricordiamo ancora con piacere, in famiglia, l’incontro col pollo fritto del Sasso, a Teolo.
Somigliano a monti, i Colli Euganei, perché davvero sembrano i colli come li disegnano i bambini: appuntiti, come delle V rovesciate. Memoria delle loro primordiali origini vulcaniche. Ed è terra vulcanica effettivamente, questa, ed è anche zona termale. Ed è verde, tutelata a parco. E per me, che ne son ghiotto, c’è anche il ricordo di tutte le giuggiole che maturano ad Arquà Petrarca. E forse con questo riferimento poco aulico offenderò la memoria del sommo erudito che riesiedeva in quella cittadella che ne ha preso il nome, ma che volete: quando son mature al punto giusto, son poesia pur’esse, le buone giuggiole.
Ci sono tornato più volte negli ultimi anni sui Colli Euganei per via dell’olio, che pure si fa su quelle terre. E quest’è un sintomo del clima che dir mite è forse poco, perché d’estate qui fa caldo davvero, e sembra talvolta d’essere non già su degli alti sbuffi di terra e lava che s’alzano dalla pianura a due passi dalla fascia alpina, ma ben più giù lungo la penisola.
Ed ora ecco che mi son trovato invece a dedicare una serata intiera al vino. Ché è proprio il vino l’orgoglio attuale di quei colli.
Me ne son procurato una decina. Per tentare di farmi un’opinione d’assieme. Tutti rossi di stampo bordolese: cabernet e merlot a dominare. E l’impressione è che la zona sia cresciuta bene assai e ci sia tanta mano in vigna e in cantina. Insomma: si lavora alla grande. E si fan vini di vitigno e di tecnica come pochi altri nella macroregione nordestina. Che poi siano anche vini di terroir non lo so dire: conosco troppo poco la zona, il contesto, l’insieme. Unico tratto in comune che ci ho per ora trovato è l’esser vini del caldo, e questo non solo nella torrida annata del 2003 (che qualche problema mi sembra cominci proprio qui e là a darlo alle bottiglie che ne son figlie), ma anche in quella tribolata del 2002 delle piogge e della grandine e in quella più umana del 2004.
Dieci ne ho aperte di bottiglie, e le descrivo qui di seguito nell’ordine esatto d’assaggio, e dunque non in graduatoria di personale merito.
Propongo di ciascun vino tre valutazioni, per farsi una miglior idea. La prima graduatoria è quella del classico voto centesimale, che esprime un’opinione - la mia, personalissima - sul valore del vino in sé, come materia e frutto e tannino eccetera. La seconda è l’indice di piacevolezza, in decimi, che esprime appunto il piacere complessivo offerto dalla bottiglia (10 significa che ne apriresti immediatamente un'altra, 5 che non lo versereste neanche per far dispetto): aggiungo che è frutto della media del mio voto e di quello d’altri otto compagni di bevuta (esperti) che han tastato con me. La terza è la consueta scala dei miei pur’essi personalissimi faccini, che dicono quanto a me e a me soltanto quel vino abbia intrigato nella beva, a prescinder da tutto.
Aggiungo: bottiglie provate alla cieca.
Ordunque, si cominci.
Colli Euganei Cabernet Sauvignon Costa 04 Borin Il naso ha il piccolo frutto un po' acidulo e un pelo di vegetalità (poi uscirà il peperone verde) che contrasta col frutto. Ma c'è pure qualche vena pepata e un leggero tono fumé. La bocca è calda, sul frutto e sulla spezia pepata anch'essa. Cenni di vinosità e ricordi di visciola. Non ha grande lunghezza, ma non è male. Peccato finisca un po' amaro.
75/100
Indice di piacevolezza: 7,667
Un faccino :-)
Colli Euganei Rosso Rusta 04 Fattoria Monte Fasolo Chiuso all’olfatto, sembra però avere sotto tanta di quella materia fruttata (fruttone maturo) che prima o poi uscirà. E una vena minerale e leggero il cenno di peperone. E anche una venatura balsamica. Gran bella bocca, poi, densa e materica, con un tannino ben composto e integrato col frutto. E venature di tabacco. Manca forse un pelo nella lunghezza, ma è decisamente interessante con quella sua densità.
84/100
Indice di piacevolezza: 7,667
Due faccini sulla fiducia :-) :-)
Colli Euganei Cabernet Sauvignon Ireneo 04 Giordano Emo Capodilista Gran bel naso di frutta sotto spirito e sciroppo di amarene e visciola e spezia fine (cannella soprattutto) e fiori macerati e freschi e geranio appassito e frutto appassito pur’esso e noce. Bocca altrettanta intrigante e complessa. Ha frutto succoso perfettamente integrato col tannino, che è ben espresso, modulato, avvolgente. Vino fascinoso ed elegante e ricco di corpo e di bella lunghezza, davvero bella. Ed ha sul finale una vena di cacao. Buono, buono.
90/100
Indice di piacevolezza: 8,667
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Colli Euganei Cabernet Podere le Tavole 04 Fattoria Monte Fasolo Naso crudo e vegetale, tanto vegetale. Pepe. Chiuso: stenta a concedersi. In bocca aggredisce quasi col suo tannino. Vino giovanissimo, ancora tutto da esprimere. Frutto concentrato, compresso sotto la trama tannica. Ma c'è spezia e materia. Chissà quando si darà in pienezza.
80/100
Indice di piacevolezza: 8,056
Niente faccini, per ora: troppo presto
Colli Euganei Rosso Calaone 04 Cà Orologio Colorone ancora più denso degli altri, che già sono pieni di colore. Naso ridotto, che si ostina a non concedere il frutto, epperò vena di mineralità intrigante. La bocca ha tanta, tanta, tanta materia. Denso, densissimo. Gran frutto, polposo e grasso e potentissimo e masticabile. Trama tannica fittissima, che rinnova l'idea d’estrema giovinezza. Certo, non è esattamente il mio stile, ma ragazzi che gran lavoro che c'è dietro a questo vino! E si fa dunque apprezzare.
87/100
Indice di piacevolezza: 7,833
Due lieti faccini :-) :-)
Colli Euganei Merlot Sassonero Villa Alessi 03 Cà Lustra Oh, che peccato che la bottiglia sapesse di tappo! Perché, nonostante il difetto, c’è tanto frutto che è lì che vuol uscir fuori dal bicchiere. Se lo trovate in giro, potrebb’essere un gran bel bere. Davvero.
Colli Euganei Rosso Passacaglia 03 Vignale di Cecilia Bel frutto e bella mineralità al naso. Note di liquirizia e di fiore appassito. Toni lievemente vanigliati. Ha vene però direi ossidative: può essere che la bottiglia non sia tra le più felici. Frutto stramaturo: il caldo del 2003 si sente. In bocca è denso, fruttatissimo. Un po' dolce magari, d’una dolcezza decadente, e questo lo penalizza. Per taluni del gruppo in maniera drastica, per altri assai meno.
80/100
Indice di piacevolezza: 7,056
Comunque rischio i due faccini :-) :-)
Colli Euganei Rosso Gemola 03 Vignalta Naso ancora molto vegetale, però sotto c'è il frutto (parecchio) che quasi gioca a nascondino e quindi prima o poi verrà fuori e ti stupirà. Ritrosia pura. Ma la bocca è buona, da merlot ben fatto. Ha frutto e vegetalità e bel tannino morbido e grazia ed eleganza. Ed ha bevibilità, anche, nonostante l'annata. Un gioiellino in divenire. Da bere più avanti, e credo con soddisfazione.
85/100
Indice di piacevolezza: 8,167
Già adesso due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Colli Euganei Cabernet Girapoggio Villa Alessi 02 Cà Lustra Naso chiuso, ridotto. Ed anche la bocca è ostica, e ostica assai. Ma c'è frutto denso e polposo e beva lunga e spezia. Ah, se si aprisse, che cosa potrebbe essere!
85/100
Indice di piacevolezza: 7,556
Niente faccini, per ora: troppo presto
Colli Euganei Rosso Riserva Vigna Cecilia di Baone 02 Il Filò delle Vigne Naso ancora chiuso, ma è sul frutto. E il frutto è lì sotto che avanza e uscirà. E poi la bocca è densa e polposa ed ha tannino ancora verde ed ha lunghezza ed ha materia tanta, tanta davvero. Non è il mio stile, ma chi ama i rossi che giocano le carte della densità, ci troverà soddisfazione futura.
85/100
Indice di piacevolezza: 7,833
Niente faccini anche qui: è presto.

venerdì 20 aprile 2007

Giudicare il vino con vista, gusto e olfatto? C’è la propriocezione

Angelo Peretti
Sembra una parolaccia. Ed è difficile da pronunciare: propriocezione. Però sta andando di moda: dovremo farci l’abitudine. E si parla anche di propriocettività, di capacità propriocettiva. Provate a fare una ricerca su Google: vedrete quante citazioni. L’usano soprattutto nel mondo della medicina, questa terminologia. Ma anche dello sport. «La capacità propriocettiva – si legge per esempio sul sito www.sportmedicina.com - è una particolare sensibilità, grazie alla quale l'organismo ha la percezione di sé in rapporto al mondo esterno. Infatti, non sono solo la vista, l'udito o il tatto a informare come si posiziona il corpo nella realtà, ma la sensibilità propriocettiva che permette di sentire il movimento di un braccio o di una gamba anche quando gli occhi sono chiusi e consente al corpo di muoversi al meglio».
Si comincia a dissertare di propriocezione perfino sulle riviste di moda e di costume: ho letto un servizio qualche settimana fa su D, il settimanale della Repubblica.
Orbene, potreste obiettare, questo che c’entra col wine & food? Che ci azzecca la propriocezione con InternetGourmet?
C’entra, perché più se ne discute, e più vien fuori che non abbiamo solo cinque sensi. E non è questione d’ammettere che ci sia quel «sesto senso» di cui ogni tanto si vocifera. Non è questione di doti paranormali. No, semplicemente i nostri sensi potrebbero essere di più di quelli del canonico quintetto vista-olfatto-gusto-tatto-udito. Parecchi di più. Forse una quarantina addirittura. Ohibò.
Se questo fosse vero, e non son certo preparato dal lato scientifico per dire se sia vero o no, allora potrei cercare di spiegarmi quello che sin qui non sono mai riuscito a spiegarmi. E mi riferisco al vino (e al cibo) e al piacere che se ne ricava. Non mi son mai capacitato, cioè, di come sia possibile misurarne la piacevolezza sulla base di riscontri oggettivi. Con i consueti parametri oggettivi, intendo, del gusto, della vista, dell’olfatto. È qualcosa che mi sfugge. E che ogni volta mi mette in imbarazzo.
Quando s’assaggia un vino per darne un giudizio, s’utilizzano in genere parametri predeterminati. Possono esser l’intensità del colore, l’integrità del profumo, la finezza, l’armonia, la franchezza eccetera eccetera. Sta di fatto che, sulla base dei canoni prescelti, vien fuori una valutazione, un punteggio di ciascun vino assaggiato. In genere, la tendenza in vigore è quella americana, parkeriana, coi punteggi centesimali. E dunque se un certo vino ha ottenuto, che so, 94/100, vuol dire che è un gran vino e che comunque val di più d’un altro vino che di centesimi ne ha avuti 80. Altri usano scale in ventesimi. Ma è irrilevante che s’usi un’altra parametrazione, un’altra numerazione: il risultato finale è sempre lo stesso, e il vino che ha più potenza e ricchezza è quello che prevale.
Ebbene, faccio così anch’io. E - dicevo - m’imbarazzo. Perché troppo spesso m’accade di dar punteggioni a vini che poi non riesco a bere, che non mi regalano piacere. Alloro riprovo a fare i conteggi, e non c’è verso: il risultato è quello, il vino merita il voto d’eccellenza, epperrò quello stesso vino poi mi resta nel bicchiere, imbevuto.
Invece, mi succede a volte il contrario. E cioè che qualche vino che resta più basso nella scala di valutazione, mi piaccia da impazzire a tavola. E che ne beva volentieri uno, due bicchieri di fila, trovando piacere nella succosità del frutto, nella sapidità salina, nella lunghezza aromatica non invasiva, nel tannino composto. Tutte doti che amo, ma che non essendo ipertrofiche non possono avere grande punteggio.
Dicevo: la cosa mi mette spesso in crisi. E nelle degustazioni m’impegno a esser rigoroso, a seguire il metodo, ad astrarmi il più possibile dalla soggettività. Credo anche d’esserne abbastanza capace. Ma è appunto questo che - forse - non va: il metodo.
E se il metodo non andasse semplicemente perché l’errore sta alla base? Se tutto dipendesse dal fatto che giudichiamo tenendo conto esclusivamente dei cinque sensi (o meglio, in genere appena di tre) che ci hanno insegnato a scuola? Se dovessimo superare lo strapotere della vista, dell’olfatto, del gusto? Se davvero ci fossero altri sensi? Se si dovessero mettere in gioco le valenze della propriocettività? Se dentro di noi ci fossero altre vie con cui ci relazioniamo con l’esterno? Altre corde che vibrano quando assaggiamo un vino?
Come spiegare altrimenti il fatto che io possa trovare ugualmente piacevoli - ripeto: ugualmente piacevoli, non uguali come struttura, intensità, corpo eccetera - un elegante Barolo, uno Champagne dalle bollicine cremose, un vecchio Riesling tedesco ricco di mineralità, un austero rosso del Médoc con mezzo secolo alle spalle, ma anche un Bardolino fragrante di piccolo frutto, un Prosecco floreale, un Moscato che sprizza aromaticità? Qual è il parametro che me li rende tutti appaganti (vietate le esclamazioni indignate), nonostante la loro estrema, assoluta diversità?
Oh, quanti interrogativi! E certamente non sono io quello in grado d’offrire risposte. So solo che se giudicassi i vini che ho sopra elencato coi valori «oggettivi» delle scale in uso, ne darei valutazioni diversissime. E invece, nel mio livello di soddisfazione personale, possono essere pressoché identici.
Bene. Chi mi legge sa che ho rinunciato, nella valutazione dei vini che presento su InternetGourmet, alle scale classiche di degustazione. E dò pareri in faccini, in ordine di piacevolezza. Coi tre lieti faccini a far da valutazione massima, di massimo piacere, intendo. E il piacere credo provenga da fattori quali l’armonia, l’eleganza, la finezza, la bevibilità.
Ecco, i faccini li ho scelti proprio per quanto ho detto sopra: non necessariamente un vino cui darei 90 e più centesimi poi finisce per piacermi, non necessariamente un vino da 82 centesimi non mi dà, nel genere suo, piacevolezza molta.
Lo so, il sistema è gracile, fragile, non ha fondamento scientifico. Lo so bene. Ma non m’importa. E da quando mi sono imbattuto nelle teorie della propriocezione comincio a pensare che forse lì c’è la riposta, in certi nostri sensi ancora incogniti che però superano (integrano?) vista, olfatto, gusto, tatto, udito. E che coinvolgono pieghe segrete del nostro essere.
Ecco, se davvero ci fossero, gli altri sensi, quelli oltre i cinque, si dovrebbe per forza ripensare ai parametri coi quali giudichiamo il vino (e il cibo). Perché non provarci?
Da tre anni organizzo wine tasting pressoché settimanali. E ai presenti chiedo alla fine di dare un voto ai vini tenendo solo conto della piacevolezza personale. Del piacere, cioè, che quel vino ti ha dato e della voglia che hai di riberlo. E dunque 10 va al vino di cui, se fosse possibile, apriresti immediatamente un’altra bottiglia, 9 a una bottiglia che riassaggeresti volentieri fra una settimana, 6 ad una che stapperesti solo se non ci fosse di meglio per vincere l’arsura. I vini vengono serviti a tavola, contemporaneamente. Prima si assaggiano senza cibo. Poi si serve un primo piatto e si continua l’assaggio. Poi arriva un secondo piatto, e si seguita con gli stessi vini. Il vino più appagante è quello che meglio regge l’arco temporale d’una cena. Be’, il sistema mi pare funzioni, e a volte capita di dar punteggioni a vini che con altri metodi si fermerebbero più sotto. Certo, è solo empirismo. O forse no.

sabato 14 aprile 2007

Archeo Montepulciano con sorpresa

Angelo Peretti
Forse è il caso di prenderlo più seriamente in considerazione. Senza forse. È proprio il caso. Almeno per quanto mi riguarda.
Mi riferisco al Montepulciano d’Abruzzo, rosso che, certo, si fa a cisterne e cisterne, e che si stravende al supermercato (13 milioni di bottiglie l’anno sugli scaffali, primo doc in assoluto nelle scelte dei clienti italiani della gdo, la grande distribuzione organizzata). E che magari, diciamocelo, proprio per questo viene (troppo spesso) snobbato da chi cerca vini d’emozione. Con sufficienza, con pregiudizio.
Invece è meglio riconsiderarlo, questo vino, ché in certi casi sa essere davvero grande. E longevo. Credetemi.
Una prova me l’ha data, al Vinitaly, un’intrigante piccola verticale guidata dal collega Massimo Di Cintio. S’intitolava «Lunga vita al Montepulciano d’Abruzzo» e ci hanno aperto bottiglie che andavano dal 1975 al 2000. Di produttori diversi. Mica tutte a posto, certo, com’è abbastanza normale che possa accadere in simili archeo-wine-tasting. Ma qualcheduna da togliersi il cappello e applaudire. Una, in particolare, quella del ’95 di Gianni Masciarelli: peccato non averne da parte.
«Quand’è vinificato bene - scrive, a proposito del Montepulciano abruzzese, Cesare Pillon sull’Enciclopedia del Vino edita da Boroli - è un rosso maestoso e possente, di tale pienezza da ammorbidire gli abbondanti tannini, e soprattutto capace di sfidare come pochi le insidie del tempo». E riporto proprio queste parole, delle tante citazioni che potrei fare, perché credo siano realmente ben scritte, e condivisibili appieno. «Quando riesce a esprimere al meglio le sue qualità - gli fa eco Hugh Johnson sul suo Libro dei Vini -, dà uno dei rossi italiani più sapidi, ricco di aroma e di calore». Ed ha ragione. Il problema vero è proprio in quelle premesse ch’entrambi fanno: quand’è vinificato ammodo, quando riesce a espimersi al meglio... Ché il troppo spesso stroppia, e di Montepulciano il giro ce n’è davvero tanto tanto. Dunque, ci si ha d’armar di pazienza e cercare. Ma è ricerca che val la pena fare, ché si può bere bene, e bene assai.
Qui sotto i miei appunti di degustazione della verticale di Verona. In ordine d’apparizione. Ringraziando Massimo per avermi tenuto il posto.
Montepulciano d’Abruzzo 1975 Emidio Pepe Ahimé, la mia bottiglia era ossidata. Peccato. Il produttore dice che l’annata era stata ottima, «perché caratterizzata da un grande equilibrio vegetativo». Eppoi mi sarebbe piaciuto testare questo vino fatto da un uomo che, da sempre, lo matura in vasche di cemento.
Montepulciano d’Abruzzo Vecchio 1979 Dino Illuminati Sorpresa. Un rosso abruzzese del ’79 che sa essere ancora (relativamente) beverino. Oh, capiamoci: mica un fuoriclasse. Ma incredibile per come abbia saputo tenere tutti questi anni pure non essendo stato concepito in origine come vino da invecchiare. Colore rubino scarico. Naso, pur non intenso, ancora sul frutto. Fruttato anche al palato. Perfino acidulo. Non gli avrei dato proprio per niente i suoi ventott’anni. Peccato sia un po’ corto, ma se il Montepulciano ha queste doti di tenuta, chissà come potranno evolvere le nuove annate, figlie d’una viticoltura e d’una enologia d’altro pianeta rispetto a quella del ’79. La stagione, dice la nota del produttore, aveva consentito una maturazione lunga, fino a ottenere i parametri necessari a far sì che il vino potesse durare. Bingo!
Un lieto faccino e quasi due :-)
Montepulciano d’Abruzzo 1983 Italo Pietrantonj Peccato: ossidato. Curiosità: il vino, all’epoca, veniva pastorizzato.
Montepulciano d’Abruzzo 1984 Nestore Bosco Terzo vino ossidato, porca miseria! Nelle postazioni più avanti mi sembrava che il colore fosse integro: beati i colleghi che hanno avuto l’altra bottiglia. Anche perché mi si dice che l’84 fu, in Abruzzo, annata memorabile.
Montepulciano d’Abruzzo 1988 Edoardo Valentini Oh, oh! Qui ci siamo. La mano di Valentini c’è tutta in questo gran rosso d’Abruzzo. Colore carico, giovanissimo nei guizzi di luce. Bouquet altrettanto in giovinezza. Addirittura chiuso, riottoso. C’è bisogno di tempo nel bicchiere perché si conceda. E sotto però senti che c’è frutto, materico. La bocca è splendida, tesa, col frutto e note terziarie di cuoio e poi di caffè. Ed ha eleganza. E tannino. E potenza. E ancora tanto tempo ha questo vino davanti a sé. Vi fu (lo ricordate?) agosto caldissimo, e molta umidità, poi spazzata dai venti. Qualche pioggia e poi di nuovo vento. Vendemmia iniziata a metà ottobre.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Montepulciano d’Abruzzo Tonì 1990 Cataldi Madonna Color porpora. E grande, giovanilissimo profumo fruttato. E frutto succoso coglie anche la bocca. E s’innestano note di buccia d’arancia candita e di rabarbaro e di cannella. E ci son tracce di vanigliatura. Ed è fresco. Ma preferisco l’olfatto rispetto a un palato, che trovo meno avvolgente. In ogni caso, un ’90 riuscito: son diciassett’anni, mica pochi. Solo 5mila bottiglie. Malolattica in acciaio e legno piccolo per dieci mesi. E annata, mi si dice, tra le più interessanti, dalle parti di Ofena, L’Aquila.
Due lieti faccini :-) :-)
Montepulciano d’Abruzzo Villa Gemma 1995 Gianni Masciarelli Ecco, un vino così vorrei averlo in casa, in cantina. Che riposi là all’umido e al buio. Per poterlo aprire quando casualmente lo ritrovi sotto una catasta d’altre bottiglie. Ché quest’è vino splendido, che regge il tempo con nonchalance. Fu vino dell’anno della guida del Gambero Rosso & Slow Food, e la scelta d’allora si rivela azzeccatissima. Ha colore brilantissimo: rubino puro, pietra che riluce. Ampiezza di profumi, e potenza di frutto e di spezia e di vene di pellame. Bocca bellissima, succosamente fruttata, avvolgente, slanciata, elegante, giovanissima. Ultradecenne, ma ancora giovane, giovane, giovane. Fu annata perfetta dal punto di vista climatico, con vendemmia tarda, tra fine ottobre e i primi di novembre. Come consuetudine aziendale. Si sente. Capolavoro.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Montepulciano d’Abruzzo Cagiolo 2000 Cantina Tollo Un 2000 che quando uscì mi si dice fece successo. In azienda dicono che è stata la meglio riuscita delle ultime venti, mica scherzi. Oggi m’è sembrato un po’ scomposto, ché c’era soprattutto il tannino, slegato dal frutto macerato, ma forse (direi quasi sicuramente) c’era anche di mezzo una bottiglia un po’ infelice, con qualche problema di tenuta del tappo.

sabato 7 aprile 2007

Il Soave di garage (Egidio e crû nati sul basalto)

Angelo Peretti
M’è tornato in mente all’improvviso a Vinitaly, passando dallo stand del Consorzio soavista. Mi sono ricordato che tempo fa, recensendone un vino fra le mie «bottiglie bevute», m’ero ripromesso di parlare più diffusamente della Tenuta Solar. Aziendina piccina picciò (sei ettari in tutto) a Monteforte d’Alpone, poche centinaia di metri dalla chiesa dal campanile alto alto. Ho tastato l’annata nuova alla kermesse veronese. E mi sono ripiaciuti quei loro bianchi. Così come non mi sono affatto (ri)piaciute - graficamente, intendo - le etichette appiccicate alle bottiglie, ma questa è un’altra questione. Ma alla fin fine non è mica il contenitore che conta. Dunque, visto che il vino lo reputo interessante parecchio, eccomi qui a scriverne.
Da dove cominciare? Direi dal garage.
Diconsi in gergo «vin de garage» quei vini francesi, estremi in tutto, che vengon fatti in poche, pochissime bottiglie da produttori votati al culto assoluto del terroir. E son così piccoli i numeri, che non c’è nemmeno cantina, e dunque la vinificazione si fa in spazi modesti, che sembrano (e a volte sono) dei garage. E ne vien fuori roba ricercata dagli appassionati come certe figurine che ti mancano sempre per completare l’album e sei disposto a spendere una piccola follia pur di appiccicarle sulla casella giusta.
Qui no. Qui il vino si fa in garage semplicemente perché altro spazio non c’è. Ma la filosofia è proprio quella del garagista francese. E spero resti tale.
Far vino non è l’attività primaria di Egidio Bolla, ché lui lavora in conceria, e almeno per adesso produrre bianchi è attività secondaria (epperò son convinto che se va avanti così…). Sono stato a trovarlo prima della vendemmia, e poi ho sempre rinviato il resoconto, e dunque sopperisco solo adesso, mettendo insieme l’assaggio di allora e quello nuovo di Vinitaly. E insieme a lui, che ha carattere chiuso più di certe sue bottiglie, ho incontrato l’amico suo Ennio Santi: han messo a fattor comune, i due, le rispettive vigne, tre ettari a testa, con l’ambizione di far vino buono. (Pensa che strano, aggiungo: nessuno dei due ha storia produttiva, eppure portano cognomi che riconducono a marchi storici del vino veronese, Bolla e Santi, appunto. Coi quali marchi loro non hanno nulla a che fare, ma proprio nulla. E, coincidenza anche questa, così come loro, Egidio ed Ennio, si son mess’insieme a far vino, i due marchi omonimi sono oggi sotto lo stesso tetto, quello del Gruppo Italiano Vini. Stranezze: se qualcuno sa interpretarle, potrebbe giocarle al lotto. E qui chiudo parentesi e divagazione).
Sono, le vigne di Egidio ed Annio, tutte su terre vulcaniche, basaltiche, nere. Che ti sembra d’essere quasi sull’Etna. Le ho visitate, le vigne. Dei crû veri e propri, direi. E come crû vengono fatti i vini. Alla faccia delle tendenze modaiole. Bene.
All’aziendina han messo nome, altisonante, di Tenuta Solar. In cantina (?) c’è poco o nulla. Tecnologia neanche a parlarne: tre vasche d’acciaio e niente di più, salvo la botticella dove si fa il Recioto. E a proposito del Recioto, quello lo fanno ancora legando le uve ai fili che scendono dal soffitto, nel solaio, il solàr. «Abbiamo cominciato nel 2003 – mi ha raccontato Egidio – e siamo partiti alla grande, ma poi il vino non ci è piaciuto e abbiamo deciso di cambiare stile. Il Superiore del 2004 lo riteniamo meglio di quello del 2003, e il 2005 ci sembra l’anno buono». Tutto qui. Non gli cavi mica altro dalla bocca. Ma credo sia sintesi corretta.
Ora, scrivo dei vini. Delle mie impressioni. Scrivo anche, in fondo alla scheda, la data di assaggio, perché possiate regolarvi.
Soave Classico Le Bancole 2005 Il vino base, se vogliamo definirlo così. In realtà è un crû già questo. Ed è buono, parecchio. Rusticheggiante. Antico. Teso come una corda di violino, raspante di tannicità nel finale. Mica piacione, proprio no, ma col carattere d’un vino autentico. Ed ha bel frutto. L’ho bevuto in settembre e poi in dicembre trovandolo in crescita. Costa 3,60 euro in cantina (o meglio: questo era il prezzo in settembre, e non so se ci sia stato nel frattempo ritocco di listino, ma l’ordine di grandezza è comunque quello).
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Soave Classico Le Bancole 2006 La nuova annata l’ho provata nel can can di Vinitaly. Appena messa in bottiglia, esprime di già vene di mineralità. Ed ha bei fiori, sotto. Bocca piacevole e polposa e soda: tipicamente garganega. Magari un po’ più dolcino del 2005, ma tiene per freschezza e rusticità. Ed ha comunque finale asciutto.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Soave Classico La Posta 2004 Il tentativo di usare un po’ il legno: il vino era stato fatto passare nelle barrique svuotate dal Recioto. A molti è piaciuto per quella sua grassezza di frutto dolce. Ed ha carattere e tensione. Io però preferisco gli altri. Testato a settembre. In cantina viene 4,60 euro.
Un faccino :-)
Soave Classico La Posta 2006 Provato a Vinitaly. Rustico, ruvido-minerale, teso, secco. Incredibilmente fuori tendenza. Lungo, mandorlato. Tannico e asciutto. Chiuso e compresso: quando mai uscirà dal guscio? Questo lo voglio riprovare con calma più avanti: potrebbe regalare delle sorprese.
Soave Classico Superiore Le Caselle 2004 Fatto tutto e solo in acciaio. Ha bel naso fruttato & vegetale. In bocca c’è tensione coinvolgente. Potente e ricco e quasi opulente di frutto masticabile e minerale e fresco. Lunghezza e profondità: belle doti. E finale lunghissimo. Ecco, magari leggermente morbido all’uscita, ma glielo perdono. Bevuto a settembre. Costa 5,40 euro.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Superiore Le Caselle 2005 L’ho provato quando era ancora in vasca e adesso che è in bottiglia. E in entrambi i casi ne ho buttato giù un paio di bicchieri: mica sono riuscito a sputarlo, come invece di solito faccio quando assaggio. Insomma: aveva ragione Egidio, ché questo 2005 è riuscito proprio bene, meglio ancora del 2004. Solo acciaio. Ha gran bouquet fruttato e verde e minerale e floreale (di fiore appassito). Ed è in bocca avvolgente e intrigante. Ed ha vene di grafite che intersecano il frutto giallo. Con una sapidità salina che inonda il palato. E poi lunghezza, e finale asciutto, quasi ruvido. Rustico e personale: un vino che fa per me.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Ora, magari v’aspetterete che racconti del Recioto. E invece non lo faccio. Ma mica per dispetto: è solo che mi son perso gli appunti. Portate pazienza: credo però d’avervi dato di già qualche buona dritta.

lunedì 2 aprile 2007

Dell’olio che sa di rosmarino e dell’aragostina al bar

Angelo Peretti
Questa volta voglio raccontarvi dell’olio che sa di rosmarino, e poi dirvi di Imma e del Capitano Milano e delle sirene e di Peppe e delle aragostine e insomma di Sorrento.
Ci son tornato per il second’anno di fila a Sorrento, in occasione del Sirena d’Oro, concorso oleario. L’anno passato a ritirare un premio come giornalista, stavolta a far da relatore a un convegno. Fortuna.
L’olio, prima di tutto. Quello della Penisola Sorrentina. Si chiama così la denominazione d’origine protetta di Sorrento e degli oliveti che gli stanno attorno. Lo cavano dalle olive di minùcciola, varietà autoctona, una delle sessanta e più della Campania. E sa di rosmarino. E d’altre erbe officinali.
L’oliveto qui talvolta è a strati, come un tempo, ché il tempo sembra essersi fermato in certi lembi di collina dove il turista non approda. Sotto ci sono gli ortaggi, e dove non c’è ortaggio cresce la felce - l’umidità avvolge tutto di notte, prima che il sole s’alzi a rinnovare il regno mediterraneo - e il trifoglio e l’ortica e il prezzemolo selvatico che ha odore forte e fascinoso. Lo strato dopo, ecco la vigna, per averne poco vino asprigno. Più sopra ho visto il nespolo e il limone e l’arancio. Poi l’olivo che svetta e il mandorlo e il noce. E c’era odore forte di noce nell’oliveto di Imma.
Imma è un bella donna dai capelli ricci. Che guida spigliata una macchina sportiva e ama la sua terra e ti racconta di musica partenopea e del mare e di psicologia. E fa olio. Lo fa la sua famiglia, i Gargiulo. Marchio Sorrentolio. Non proprio a Sorrento, ma in collina, a Sant’Agnello. Sogna, lei, una vetrata che dal frantoio consenta al visitatore di vedere il mare e l’oliveto e i giardini d’agrumi. Spero la facciano, quella vetrata, ché varrebbe la pena veder da una parte estrarre l’olio e dall’altra il terroir suo nativo.
Ora l’olio, il dop di Sorrentolio, l’unico fatto in penisola nell’annata ultima del 2006, ché la mosca olearia s’è portata via troppo raccolto. Ma l’unico sopravvissuto è buono, credetemi. E spero di tornare ancora l’anno prossimo e provare anche gli altri.
Stavolta racconto questo, dunque, dei Gargiulo. E dico innanzitutto che ha limpido e brillante color giallo che sfuma tenue nel verde.
Al naso ha fruttato direi leggero e aromi officinali: il rosmarino, appunto, e poi il timo e la salvia, sottilissimi. E s’avverte anche l’alloro in foglia. E poi nuance floreali, o forse confettate. E anche, inconsueto, inusuale, un che resinoso di cipresso.
La bocca, adesso. Apre amara, con note d’erbe campestri e cardo e carciofo. C’è piccantezza fresca e quasi acidula in avvio (ricorda la rughetta colta in montagna), eppure non invadente. Vira con lentezza sulla vena dolce, tattilmente dolce, e ancora sulla foglia di salvia.
Del rosmarino ho detto, di Imma pure e del suo olio. Ora tocca al Capitano, e anch’egli ha passione olearia.
Parlo del Capitano Luigi Milano, che è stato comandante davvero, di nave mercantile, e ora segue la promozione dell’agricoltura sorrentina.
Ha baffone da comandante, stazza da comandante, parlare da comandante riflessivo eppure deciso (ma ti parla ossequioso col voi, come s’usa da queste parti). Gli manca solo la pipa e mi ricorderebbe quella canzone di Francesco de Gregori: «Il Capitano non tiene mai paura, dritto sul cassero fuma la pipa, in questa alba fresca e scura, che rassomiglia un po' alla vita». E me lo vedo, in questo ritratto.
Ama dirti della Sorrento del Grand Tour, l’itinerario romantico che facevano gl’inglesi e i mitteleuropei e che ancora adesso sostiene i flussi del turismo. E si commuove, il Capitano Milano, quando vede che altri amano l’olio delle sue terre. Delle terre di penisola sorrentina, terrazzate da lunghe fatiche di generazioni di contadini. Ha lacrima facile quando prevale il sentimento.
È lui, il Capitano, che fa da perno ed anima al concorso della Sirena d’Oro, che mette in fila gli oli dop d’Italia ed ha reputazione buona, assai, ché il panel di degustatori è valido. E ti domanda se davvero il concorso potrà far crescere l’immagine dei dop e magari dei dop sorrentini. E io rispondo che sì, continuando con la passione che ho conosciuto e perseverando nel sogno, ecco, il successo non può mancare. Avanti, Capitano, ché la strada è quella giusta.
Peppe anche lui è pieno di domande (e di dubbi, anche) sull’extravergine e sulla promozione e sulla valorizzazione. Ma io da Peppe Aversa ci ho trovato solo grandi risposte. Concrete. In tavola. Ché lui è maestro di cucina, e se vi capitasse di passare da Sorrento, non fatevi scappare l’occasione d’una sosta beata al Buco, il suo ristorante, accanto al municipio. Strameritatamente stellato dalla Michelin, credetemi.
Ci ho mangiato lo scorso anno e anche questo, e spero proprio di tornarci ancora, ché la sua è una delle cucine più buone che mi sia capitato in sorte di conoscere. Cucina di classe ed eleganza, eppure anche di semplicità. Com’è semplice il suo stile, il suo approccio. Stile che in cucina sa d’armonia, di nitore. Pulizia di profumi e sapori. Consistenza avvolgente. Gran posto, il ristorante Al Buco, gran posto. Conferma della leadership della Penisola Sorrentina nella ristorazione di qualità.
Ora, le aragostine. E mi tocca riparlar di Imma, ché è stata lei a condurmi fino a Sant’Agata sui Due Golfi, seguendo gli oliveti. Lì, m’ha accompagnato in un bar che fa pasticceria. Mica un locale di quelli eleganti: un posto da paese. Si chiama Bar Fiorentino. Dice il biglietto: «Bar - pasticceria & gelateria. Lavorazione propria. Nozze - battesimi - ricevimenti». E ci ho incontrato le aragostine, che sono uno dei dolcetti più fragranti e ghiotti che mi sia trovato a tastare (ho fatto il bis e il tris e sono arrivato - confesso - a sei pezzi, alla faccia delle calorie).
Sono di fatto, queste aragostine, un’interpretazione locale delle sfogliatelle. Scrocchiano sotto i denti. Ma poi sembrano quasi farsi evanescenti, impalpabili. E avverti la crema, che però non ha stucchevolezza zuccherina. E il tocco d’amarena. Un piccolo capolavoro d’equilibrio: passaste di lì, siete avvisati.
E insomma, ho trovato un altro gioiellino di questa penisola. Che ammalia con le sirene e gli oli che san di rosmarino e il pesce freschissimo e l’aragostina e il prezzemolo selvatico e il limone. E ci si fa un liquore famoso - lo sapete - con quel limone. E un altro col finocchietto. Ma queste sarebbero altre storie da narrare. E invece, per adesso, chiudo qui.