sabato 29 aprile 2006

L’olio di Osvualdo e le magie della Val di Mezzane

Angelo Peretti
Vabbé, non è questo che cambi i destini del mondo e le sorti dell’umanità. Però el siór Osvualdo (già, scritto proprio così, con la u) ha segnato una tappa in qualche misura storica per il mondo dell’olio nel Veneto. Perché un suo olio ha ottenuto quest’anno le tre olive, il massimo dei riconoscimenti, dalla «Guida agli extravergini» di Slow Food. Prima volta che succede al nord Italia, fatta eccezione per la Liguria, che però, climaticamente parlando, tanto settentrionale come regione non la si può considerare. E, attenti: se qualcuno sei anni fa, quando la guida ha cominciato a muovere i suoi primi passi, avesse detto – ci avesse detto, visto che la faccio anch’io - che un olio veneto poteva essere da tre olive, be’, in pochi ci avrebbero creduto. Per questioni di clima, di storia, di cultura. Invece il Veneto ha letteralmente bruciato le tappe. Ed è soprattutto l’est della provincia veronese ad aver tirato fuori le cose più clamorose. La Val di Mezzane, in particolare, s’è imposta come terroir ad altissima vocazionalità olearia. Per una serie di motivi, che più avanti cercherò di accennare.

Intanto, parliamo ancora un attimo di lui, il mastro oleario, Osvualdo Del Fabbro. Che ha olivi, guarda caso, proprio a Mezzane. Il nome di battesimo, strano davvero, mica gliel’hanno dato i suoi. S’è trattato d’un errore di scrittura d’un ufficiale d’anagrafe d’un paesino della Carnia. Invece di Osvaldo, ha scritto Osvualdo, e la frittata era fatta. E penso quant’avrà tribolato fin qui in vita sua a compilar contratti e scartoffie, con quel nome che ogni volta ti costringe a spiegare che è Osvualdo con la u, e che è stato un ufficiale d’anagrafe eccetera eccetera. Bene, dopo una carriera in una ditta di serramenti scandinava, questo signore, quand’è arrivata l’ora della pensione, ha deciso di coronare un sogno: comprarsi un pezzo di terra per coltivarci gli olivi. E così ha messo su casa in Val di Mezzane e ci ha piantato olivi fitti fitti. Quasi fin troppo fitti. Deciso a coltivarli secondo i canoni dell’agricoltura biologica. Poi, s’è anche comprato un piccolo frantoio, per farsi davvero l’olio da sé. E ha scelto un marchio aziendale per le sue poche bottiglie: in etichetta c’è scritto Bio Azzurra. Efficienza e organizzazione.

Il suo olio l’avevo provato un paio d’anni fa su insistenza d’un amico. M’era piaciuto. Soprattutto, ci avevo trovato tante, tante potenzialità di crescita. M’aspettavo dunque grandi cose. Che sono effettivamente arrivate con la raccolta del 2005. Che, attenti, non è stata grande stagione, con tutta quella pioggia. Ma, tant’è, chi ha lavorato bene ed ha avuto rispetto della pianta e dei frutti, be’, ha fatto un bell’olio.

Del Fabbro, in fatto di rispetto delle olive, è uno che dà i numeri a tanti. Perché sta attentissimo ai tempi di raccolta e di frangitura. Ed è questo il vero segreto del suo olio. O meglio, dei suoi oli. Perché ne fa due: uno è un monocultivar della varietà locale del grignano, ed è questo l’olio che ha vinto le tre olive, e l’altro viene da tutte le altre cultivar dell’oliveto. Entrambi buonissimi, il primo con quell quid in più che lo fa unico. Ambedue ottenuti col metodo della denocciolatura. Che consiste nel frangere la sola polpa dell’oliva, scartando il nocciolo. Il che vuol dire far quasi un distillato d’oliva. Con rese in olio per quintale d’oliva evidentemente bassissime.

Ad aver quasi dell’incredibile è poi il fatto che il super olio di Bio Azzurra è ottenuto dal grignano. Che qualche testo d’olivicoltura considera tuttora varietà di scarso valore. E che qualcuno in zona pensava fosse il caso addirittura d’eliminare. Figlio d’una cultivar minore, insomma, quest’extravergine triolivato da Slow Food. Invece, olio grandissimo, così come s’è mostrata grandissima la varietà del grignano, che semmai era incompresa. Ci voleva chi ci si dedicasse con passione priva di preconcetto.

Il problema del grignano è abbastanza semplice: è un olivo che resiste bene al freddo, dà tanto frutto, ma offre una bassa resa in olio. E quando la resa era tutto e si guardava solo alla quantità, be’, questa era considerata una disgrazia. In più, è un’oliva bastarda. Nel senso che fai fatica a capire quand’è il momento di raccogliere. Spiego meglio. Per far grande olio, bisogna che le olive siano raccolte nel momento dell’invaiatura superficiale. Quando cioè cominciano appena a cambiar colore. E in genere questo cambio di livrea dell’oliva dura per qualche giorno, il che ti dà modo d’organizzarti e d’agire. Nel grignano invece no, il passaggio dal verde al nero è rapido, repentino. Ed è un’altra bella rogna. In cambio, però, il grignano appena invaiato, be’, ti dà degli oli che sono unici per carattere aromatico. Perché s’esprimono in una fresca, affascinante, intrigante, elegantissima sensazione d’agrumi. Di limone, di cedro. O meglio, di foglia e di scorza d’agrume. Uno splendore. Intenso, lungo, persistente. Questo ha capito Osvualdo Del Fabbro, e come lui altri lo stanno capendo a nordest di Verona. Il che è bella, bellissima evidenza.

Dicevo, bravo Del Fabbro a fare un olio così col grignano, ma del tutto vocata anche la Val di Mezzane, che non cessa di stupire. Ché già dà vini strepitosi: quanti tre bicchieri! A Mezzane ci sono Corte Sant’Alda, Roccolo Grassi, Tenuta Sant’Antonio, giusto per dire, e chi ama il vino – e l’Amarone in particolare - sa cosa intendo facendo nomi del genere. E se volete farvi fascinare da un frutto, provate la ciliegia o l’albicocca maturata lì: un concentrato d’aromi. Insomma, è un posto che tu pianti un albero e ne tiri fuori qualcosa di speciale. Per via d’una complessità di terre e d’un microclima che han pochi paragoni nel Veronese e direi in tante parti del nord.

Eppoi c’è un altro fattore. Che è umano. La questione è che lì, nell’est scaligero, l’olivo è sì di casa da anni ed anni, da secoli, ma i nuovi produttori del posto non portano con sé i fardelli pesantissimi della tradizione, ancora tanto in auge altrove. Non subiscono condizionamenti, intendo, d’ataviche, arcaiche pratiche. Agiscono con maggior libertà. E tirano fuori delle piccole meraviglie. Perché il caso di Bio Azzurra non è isolato in Val di Mezzane. Ci sono altri piccoli produttori d’olio che fanno bottiglie di valore. Stefano Pizzighella, per esempio, col marchio Sisure. Oppure Mirko Sella, che imbottiglia come San Cassiano. Tutt’e due fanno grande olio, credetemi. E il Mirko sta coinvolgendo altri giovani del posto, che quest’anno sono usciti col loro bel monocultivar di grignano. E quando dico bel monocultivar, intendo olio di notevole finezza e piacevolezza.

Insomma, per far sintesi: c’è un nuovo Eldorado dell’olio, ad est della città di Giulietta. Piccole produzioni, ma d’alto valore. La rivoluzione, è tutta nel nome del grignano. Modernamente interpretato.

venerdì 21 aprile 2006

Oplà, l’Oltrepò da comprar subito

Angelo Peretti
Che mondo complicato quello delle cantine sociali. Perché sono molteplici e a volte quasi contrastanti le vie intraprese di sviluppo e di crescita o solo di conservazione, di mantenimento della specie. Eppoi perché intricatissimi e di difficile comprensione appaiono così sovente i rapporti interni, fra soci e amministratori. Gineprai. Sabbie mobili. Da mal di testa. Con la politica che fa inevitabilmente capolino fra le bottiglie.

Ma mica sempre le cose son così ostiche, ammetto. Perché capita invece d’avere esempi – fortunatamente son sempre di più – di cooperazione moderna, dinamica, capace di star da leader sul mercato. Leader in termini di volumi, in qualche caso, e in altri anche in materia di qualità. Tant’è che da qualch’anno non ci si stupisce per niente se i massimi verdetti delle guide – e gli acquisiti degli appassionati – premiano etichette cooperativistiche. E invero sarebbe dura – e dura assai - dire che non sian grandi vini, che so, certi crû dei Produttori del Barbaresco o il Gewürztraminer Nussbaumer della Cantina Produttori di Termeno o l’acclamato Sauvignon St. Valentin di San Michele Appiano. Ma questi sono big.

Un bell’esempio di cantina sociale che ha intrapreso con determinazione la via della qualità l’ho trovato in Oltrepò Pavese. O meglio, a Vinitaly, al piano della Lombardia, ché in Oltrepò non ci sono ancora stato a cercar vigne e cantine, ed è mancanza che dovrò presto colmare. Dico della Cantina di Casteggio, sorpresa bella. E bella molto.

Se non ricordo male, credo me n’avesse già parlato mesi e mesi fa Marco Sabellico, del Gambero Rosso. Ma me n’ero poi scordato.
L’incontro veronese è stato quasi fortuito. Sommerso dalle mail dell’ufficio stampa della regione lombarda, ho capitolato, iscrivendomi al wine tasting dell’Onav sugli spumanti rosè dell’Oltrepò. Degustazione ben condotta (bravi gli onavisti del padiglione lumbàrd), con cinque bollicine cinque, che è poi tutta l’attuale produzione ultrapadana. Delle cinque, una sola m’ha bene impressionato, non tanto per chissà quale potenza espressiva, bensì per la pulizia, la composta, piacevolissima semplicità. Era il Postumio Rosè della Cantina di Casteggio. Ma il suggerimento di Sabellico ancora non mi sovveniva, a quell’assaggio.

Un par di giorni dopo, con un amico ristoratore, mi son messo in caccia di qualche pinot nero vinificato in bianco con le bollicine. Ed ecco che ancora a piacermi, pur esile, l’altro Postumio. Al che la visita allo stand era d’obbligo, per capire come diavolo facesse a far vino così accattivante questa Cantina di Casteggio. Cantina che ha un secolo di vita, suppergiù: mica nata ieri. Anche se di ieri – ieri l’altro al massimo – è la svolta. E quand’ho visto le altre etichette, m’è finalmente venuto in testa quanto m’era stato in passato suggerito. Quanto di buono intendo. E quanto buono in effetti è.

Attenti: buono per la gola e buono anche per il portafoglio, ché i prezzi sono – spesso - di quelli che ti vien voglia di comprare. E buono anche per il progetto, ché qui ci mette mano gente che sa il fatto suo. Ché il rilancio recentissimo – e direi la rinascita – del marchio è passato attraverso un progetto preciso. Che ha il nome un po’ usurato e francamente poco originale di «Vite Ambiente Qualità». E che s’avvale del supporto tecnico d’una firma di grido come quella di Riccardo Cotarella. Pproprio lui, Mister Merlot, l’uomo che ha «inventato» il Montevetrano, il Montiano, il Patrimo e tant’altri rossi di successo. Una garanzia. Discutibile fin che si vuole, ché tutti gli stili son discutibili. Ma una garanzia comunque, per chi quello stile lo ama.

Ora, torno ai vini. E ricomincio dai due spumanti. Che hanno il pregio del buon prezzo: sei euro e venti sullo scaffale della cantina sociale. Roba che vale il viaggio. Entrambi metodo classico, quello della rifermentazione in bottiglia: i francesi lo chiamano champenois, com’è noto. Il Rosè è tutto pinot nero. In etichetta dice: Oltrepò Pavese Pinot Nero Rosè Brut Postumio, nome un po’ lunghino, ma le doc italiane son fatte così. È in bottiglia trasparente, il che la dice lunga (ossiderebbe: la luce è letale) sul fatto che nasce per esser bevuto subito. Ha colore pastello che sfuma appena nel violaceo. Naso quasi burroso, di croissant appena sfornato, e bocca in corrispondenza. Aggiunge, al palato, della fragolina, piacevole piacevole. Non lo dovete paragonare con certi Champagne rosè che costano un occhio della testa, ma è buono. E semplice e buono è anche l’altro Postumio: leggasi Oltrepò Pavese Pinot Nero Brut. Naso floreale su una delicata base fruttata. Palato coerente.

Poi, un bianco imbottigliato da pochi dì. Un Riesling Italico dell’Oltrepò: 2005 l’annata, cinqu’euro e mezzo il prezzo. Ha vena aromatica intensa e per nulla sfacciata. E bella bocca, tesa e nervosa. Manca magari un po’ di lunghezza, ma – ripeto – l’ho provato ch’era appena appena mess’in bottiglia. Bel bianco, comunque.

Adess’i rossi. E comincio coll’Autari, re longobardo o di qualch’altro regno medievale. Barbera in purezza. Annata il 2004. Vino che m’è piaciuto tanto. Pienotto eppur bevibile e giocoso. Naso ricco di frutto. Fine davvero. Cenni di fiore che si sommano – di poi - al frutto. E bocca bella ed ampia e d’integro smalto, slanciata e fiera d’una giovanile baldanza. È infatti quasi vinoso, perfino. Da comprare, da bere e ribere, anche perché il prezzo è piccolino per un rosso del genere: cinque euro e cinquanta. Ho letto poi – dopo l’assaggio, a casa – ch’è stato finalista per i tre bicchieri. Wow! Meritato.

In finale per i tre bicchieri è andato anche l’altro rosso, il Console Marcello. Altra barbera, altro gioiello. E in finale ce l’avrei mandato anch’io, dritto filato. L’etichetta recita: Oltrepò Pavese Barbera Console Marcello. L’anno è il 2003. Il nome - mi si dice - è quello dell’eroe d’una battaglia romana dalle parti di Casteggio. Il vino è fatto con un’ulteriore selezione delle già selezionate uve che danno vita all’Autari. Olfattivamente è giocato sull’intensità del piccolo frutto surmaturo, sul pepe. Ha poi bocca avvolgente, ampia, persistente. Quasi ancor troppo giovane: un vinone. A sett’euro: segnatevelo in agenda anche questo.

Infine, il Longobardo. Un igt della Provincia di Pavia. Quaranta per cento di barbera, altrettanta croatina, un dieci ciascuno di pinot nero e di cabernet. Le masse s’affinano separate per un anno e poi s’assemblano. Questo costa decisamente di più – diciott’euro, mica poco – ma è rosso di livello alto. Ho bevuto (mica sputato: bevuto) il 2001, il vino della svolta in cantina sociale. Aristocratico, direi, e personale. Complesso. Con ricordi che vanno dal vegetale al fruttato, dalla spezia minuta al fernèt, alla china. Ha sì struttura possente, ma anche ottima beva, ed ero alla fine - sera - dell’ultima giornata del Vinitaly, provato, fiacco, stanco morto. Ho chiuso in bellezza.

Un salto a Casteggio, prima o poi, tocca farlo.

sabato 15 aprile 2006

Quei tre jolly, o forse quattro, che maturano a Montecchia

Angelo Peretti
Michele Tessari ritiene d’avere in cantina, quest’anno, tre jolly. Me l’ha detto al Vinitaly. Con orgoglio. Ma credo si sbagli. In realtà, i suoi jolly potrebbero esser quattro. Addirittura. Due bianchi e due rossi.

La Tessari family è quella di Cà Rugate, gente che fa vino – e vino buono, gran buono – a Montecchia di Crosara, in Val d’Alpone, est della provincia di Verona. Quest’anno ha avuto i tre bicchieri da Vini d’Italia – Slow Food & Gambero Rosso – per il Soave Classico Monte Fiorentine del 2004. Riprovato di recente, m’è sembrato di nuovo degnissimo del successo (chi volesse rileggerne le note di degustazione può cliccare qui). Ergo, in fiera non ho resistito alla tentazione di testare il 2005, da poco in bottiglia. Ed è buono assai anche questo. Epperò non c’è solo il Monte Fiorentine. Ha ragione Michele. Che è convinto che siano di valore alto anche il Bucciato, altro bianco, e il Valpolicella Superiore. E ha torto, ché a mio vedere c’è pure un gran bell’Amarone. E santiddìo non me l’aspettavo quest’exploit rossista in un’azienda (e una terra) che per me resta a vocazione prevalentemente bianchista.

Ora, in ordine d’assaggio. Cominciando – ovvio – dal Monte Fiorentine. È in bottiglia da metà febbraio, dal 16 per la precisione: lo so, e lo potete sapere anche voi, perché i Tessari han preso la saggia abitudine di scrivere in contro-etichetta la data d’imbottigliamento. Non serve chiedere: basta leggere. E che dire del vino, se non che è lui, è il Monte Fiorentine che t’aspetti? Il naso è quello: un’esplosione di fiori e di frutto bianco, con l’aggiunta però di quella vena minerale che fa nervosi e tesi i migliori Soave. In bocca è scattante e fresco e ricco insieme di materia e vibrante di note agrumate. Ha un equilibrio che fa invidia, lunghezza avvincente. Gran bianco, di nuovo. E visto che ci sono, un’anticipazione: sappiate che in cantina hanno fatto la scelta d’imbottigliare millecinquecento magnum. Secondo me, da comprare prima che se n’accorgano tutti (e il prezzo non è impegnativo). Da mettere via, al buio della càneva, ché quest’è bianco capace di dare ancora di più con l’affinarsi. Insomma: il primo jolly è bell’e pescato.

Seconda carta buona: il Bucciato 2004. Anch’esso da uve di garganega, ma fuori della doc soavese. È in bottiglia dal 24 di gennaio. Atipico, scontroso, con quella nota quasi scorbutica che trae dalla sosta – breve, in verità – sulle bucce dell’uva madre. Vino difficile, eppure bianco che m’intriga sempre. Forse mai negli ultimi anni buono come in quest’edizione. Vestito d’intense, penetranti sensazioni di fiori di camomilla, venato quasi di miele d’acacia. Grasso. Con la frutta secca – la noce matura – che t’ammalia nel finale. E mineralità indomita. Vino strano, convengo, ma personale, molto. Inusuale è anche l’imbottigliamento: mezzo litro, magnum e doppio magnum, saltando a pie’ pari la solita boccia da sette e cinquanta.

Adesso i rossi, di cui m’ostino a sorprendermi, ché Cà Rugate – l’ho detto - nel mio immaginario resta azienda vocata al bianco, e invece dovrei mettermelo in zucca che coll’ultima vendemmia i Tessari sono arrivati al quint’anno d’esperienza in campo rossista-valpolicellese. Bruciando le tappe. Con Michele pronto a scommettere sul Valpolicella Superiore Campo Lavei del 2004. Che in effetti è gran Valpolicella. E troverà consensi fra degustatori & bevitori, son sicuro, così com’è stato, del resto, per il 2003. Ché non può davvero passare inosservato col suo rubino denso e quasi impenetrabile e certamente di bell’eleganza. Propone all’olfatto il frutto rosso. È la ciliegia che domina e s’impone a spallate, quasi. Quella ciliegia mora che ha in Val d’Alpone patria d’elezione. E c’è anche cenno di fiore macerato. Poi la bocca, possente e tannica e magari ancora un po’ scomposta, ovvio, visto che il vino è nella bottiglia solo dal 9 di marzo. Ma fa già presagire una stoffa di gran lusso. Tanta, tanta materia. Ed eleganza, anche, ché non ha le magagne di certi ripassi, ed anzi il ripasso sulle vinacce dell’Amarone non lo fa neppure, ché i Tessari preferiscono la freschezza di frutto (s’usa, invece, un quaranta per cento d’uve appassite). Un vinone, che piacerà a chi ama i rossi opulenti (anche se io continuo a preferire altre scuole, e la concentrazione la ricerco in tensione di beva più che in pienezza: Bordeaux docet). Ed è, comunque, il terzo jolly, non c’è dubbio.

E la quarta matta del mazzo? La quarta è l’Amarone del 2003. Che riposa ancora in botte e se n’uscirà solo a settembre-ottobre e dunque ho assaggiato – ah, il privilegio di chi scrive di vino! – en primeur. Ma per me è già buono e buonissimo. Anomalo, sicuramente, così come stramba e – spero bene – irripetibile è stata la calura di quell’anno. Eppure non ha frutto cotto dal sole. Propone invece, elegante, un bouquet di fiori secchi, ampio e avvolgente, e impreziosito da note di scorza – essiccata anch’essa – d’arancia e poi la cannella e il garofano e una vena balsamica sottile. Sembra insomma di trovarsi davanti uno di quei cestini che van di moda da qualche tempo per profumare i soggiorni di casa (o le stanze dei ristoranti). La bocca ha il frutto sotto spirito e spezia e rabarbaro e vena terrosa, di terra rossa. Bocca fascinosa, per me. E magari a tutti potrà non piacere, e taluni anzi ne saranno spiazzati. Ma è il quarto jolly: lo pescherei volentieri.

domenica 9 aprile 2006

Il gioco dell'olio

Angelo Peretti
L’ho detto e lo ripeto: m’ha inorgoglito. Il fatto che a Sorrento m’assegnino un premio giornalistico, il Sirena d’Oro, per un articolo sugli oli veronesi che ho scritto per L’Arena, be’, mi fa piacere, e molto. Anche se un brivido corre lungo la schiena: vuoi vedere che è la riprova – ennesima – del nemo propheta in patria?

Vabbé, sia come sia, ringrazio. E n’approfitto per dedicare questa mia stanza all’olio. Lo faccio, aggiungo, «a gentile richiesta», come dicevano i musicanti di piazza. Ché son parecchi ad avermi domandato di ripetere le cose che dico nei laboratori che tengo sotto l’insegna della chiocciolina di Slow Food.

Dunque sia: olio, stavolta. O meglio: il gioco dell’olio, ché vorrei parlare d’abbinamento. Di maritar l’olio con le pietanze, con gli alimenti.

Subito ribadisco tre concetti. Primo: quando dico olio, intendo l’extravergine d’oliva. Secondo: l’extravergine ha da essere di grande qualità, fatto con le olive a invaiatura superficiale, quand’appena accennano a cambiar di colore, e frante nell’immediato, poche ore (pochissime) dopo la raccolta, e dunque potente ed elegante insieme. Terzo: l’olio di qualità costa, d’accordo, ma va usato a poche gocce, ché sennò son calorie inutili e spreco, come se il balsamico - l’aceto - lo s’impiegasse a bicchierate.

N’aggiungo un altro, di concetti: quando dico olio, rifiuto la sua definizione di condimento. L’extravergine non è condimento. È piuttosto un esaltatore di sapidità. E come tale - a mio avviso - va adoperato. Per averne il meglio.

Chiarisco. Se prendete in mano il vocabolario, potrete leggere che un condimento è «una sostanza aggiunta alle vivande per renderne più gradevole il sapore». D’accordo: l’extravergine può servire anche a questo. Ma è interpretazione riduttiva. Vorrebbe dire che l’olio serve solo su piatti che di per sé non hanno gran pregio. Pietanze miserelle, che abbisognano di sapore, di brio, di slancio. Sarebbe povera e piccola cosa.

In realtà, l’olio extravergine d’oliva vale molto, molto di più, e non solo dal punto di vista salutare. Intendo che ha maggior valore in cucina. Ché il suo ruolo non è tanto quello d’aggiungere sapore a un alimento, bensì d’esaltarne le caratteristiche gustative intrinseche. Amplificandone di volta in volta l’aromaticità, la fragranza, la succulenza, la dolcezza.

Ricordiamoci che l’olio è un grasso, e fra le caratteristiche de’ grassi c’è quella d’assorbire pressoché istantaneamente gli aromi, i profumi con cui vengono a contatto. Il che può essere un problema – lo capite – se l’olio è conservato male: in presenza d’odori sgradevoli, li fa subito suoi. Però, se bene indirizzata, questa prerogativa può essere un’arma in più a disposizione di chi ami il piacere della tavola. Roba da gourmet.

Adesso il gioco. Nelle righe che seguono ripeto i quattro test che in genere mi piace alternare nei laboratori Slow. Tutti basati su quant’ho appena detto. Ossia sull’immediata esaltazione degli aromi.

Primo: olio e pane. La bruschetta. Ricetta semplice: pane, olio, eventualmente una strofinata d’aglio. Siamo talmente abituati a mangiarla, che non ci accorgiamo neppure più della prodigiosa escalation di sapore che avviene preparandola. Al punto che siamo soliti pensare che serva ad esaltare la bontà dell’olio. È vero esattamente il contrario: amplia il sapore del pane. La prova? Basta assaggiare il pane e l’olio prima da soli e poi uniti insieme. V’accorgerete che ad essere amplificato dall’abbinamento non è il sapore dell’olio, bensì quello del pane. Più buono è il pane, più intensa diventa la sua fragranza mettendoci sopra un po’ d’extravergine. L’olio assorbe all’istante il sapore del pane e lo esalta. Il che fa intuire il trucco di certi frantoiani: se hanno olio di scarso valore, ve lo fanno provar sul pane. E voi finite per comprarlo.

Secondo test: olio e mele. Assaggiate una fettina di mela golden. Poi prendetene un’altra e metteteci sopra un goccio d’olio: il sapore di mela s’amplifica in bocca. L’olio ha fatto suo l’aroma del frutto. Questo dice che qualche goccia d’olio riesce a trasformare una semplice macedonia di mele (ma anche d’arance, banane, ananasso) in un piatto d’appeal. Lo stesso effetto l’avete versando un goccetto dell’olio su un gelato alla mela, su una torta di mele, su uno strudel.

Terza esperienza: l’olio col formaggio. Masticando un formaggio giovane s’avverte un lieve sentore di latte. Mettete sullo stesso formaggio un goccio d’olio: mangiandolo (che la masticazione sia lunga, profonda), non sentirete quasi l’olio. Emergerà invece in tutta ricchezza una sensazione liquida di latte, materia prima del formaggio, esaltata all’istante dall’extravergine. Adesso, provate a metter sul formaggio anche una fogliolina di un’erba officinale (timo, maggiorana, santoreggia) e poi la solita goccia d’olio: niente più latte, niente più olio, bensì una strepitosa fragranza vegetale. L’olio si è unito all’aroma dell’erba e l’ha amplificato. Direte: ovvio, l’erba è prevalente d’aroma. Nient’affatto: provate lo stesso formaggio con l’erbetta ma senz’olio: da un lato del palato avvertirete il cacio, dall’altra l’erbaceo. Distinti.

Quarto: olio e cioccolato. Ogni volta che lo propongo, c’è chi mi guarda storto. E mi prende per matto. Eppure, chi ama il cioccolato, lo dovrebbe qualche volta provar coll’olio. O meglio, con gli oli. Ché se avete del cioccolato amaro dovete sposarlo con un olio carico di polifenoli, e dunque amaro e piccante. Se invece preferite la dolcezza del cioccolato al latte, l’extravergine avrà da esser più delicato. Ebbene, fatta questa distinzione, basta una goccia d’olio per amplificare il sapore del cioccolato, che diventa una bomba aromatica. Se poi volete strafare, prendete una fettina di polenta abbrustolita, caldissima e grattugiateci sopra il cioccolato: in un lampo sarà liquefatto. Adesso è il momento dell’olio: ne useremo un gocciolino appena, sopra il cioccolato divenuto liquido. Sarà un’esplosione di gusto.

Ora, lo so, chi non ci ha mai provato, non mi crederà. E aumenterà il numero, probabilmente, di chi vorrebbe propende per farmi veder dallo strizzacervelli. Dico invece: provate. Alla fin fine, è un gioco. Ma se va come credo – e ci hanno creduto, sin qui, in tanti – avrete finalmente scoperto quale tesoro venga dall’oliveto.