sabato 24 dicembre 2005

Vi supplico, chef: aridatece i piatti piatti

Angelo Peretti
«Aridatece er puzzone» si leggeva sui muri di Roma dopo la guerra. Gli scontenti del nuovo, si sa, ci son sempre: si stava meglio quando si stava peggio lo dicono in tanti a ogni svolta sociale o politica, così come a fronte della «nuova» era repubblicana qualcuno rimpiangeva il ventennio.

Ora, non vorrei che i miei dodici lettori m’affibbiassero il cliché di nostalgico, ma dopo aver girato ristoranti su ristoranti mi vien voglia di gridare «aridatece i piatti piatti». Intendo le stoviglie con l’orlo basso, che ci si possa lavorar sopra di forchetta e coltello e cucchiaio senza doversi contorcere. Ché adesso in certi posti mangiare è un’impresa ginnica. Il colmo m’è successo quest’estate: dessert servito in un calice dal gambo così lungo ch’era impossibile intingerci il cucchiaio senz’alzarsi in piedi. Bicchiere bellissimo e costoso. Dolce gradevole. Ma far fatica per metterne in bocca una cucchiaiata, questo no e poi no.

Che volete, so che rischio di far la parte del conservatore, ma attendo con terrore l’avvento di quella che Davide Paolini, food writer del Sole 24 Ore, ha definito in un recente incontro a Verona come la nuova moda montante: cibo & design. Del resto già arrivata nei ristoranti delle maggiori città italiche e forestiere. Tant’è che il Gambero Rosso gli ha dedicato uno speciale.

Sia chiaro. Amo il design. Mi piace l’architettura che s’esprime attraverso la concettualità. Credo siano le espressioni più alte dell’arte dei nostri tempi. Adoro le forme essenziali degli arredi di Philippe Stark e dei suoi emuli e colleghi. Vorrei riempir casa di bicchieri e tazze e oggetti da cucina che esprimano creatività. Metterei seggiole in policarbonato dappertutto. Son portato a buttar via soldi in cose che non userò mai, ma che m’attraggono per forma, stile, genialità. Così pure resto estasiato davanti a una pietanza ben presentata e modellata e servita in tavola. Ma, vivaddio, voglio comodità, praticità, essenzialità. Poter liberamente usare la posateria. Portare il cibo alla bocca senz’impicci. Trovar nel piatto solo roba da mangiare, mica orpelli messi lì perché qualcuno li ritiene belli da vedere. Santoddio, il piatto, in tavola, serve per posarci dentro la roba che si mangia, mica per far da ripostiglio o da fioriera. Niente ninnoli, niente fiorellini, niente roba non commestibile, niente cespi inutili d’erbette officinali: niente che non riguardi la ricetta nel mio piatto, please.

Quando sto pranzando-cenando pretendo di poterlo fare senza dover leggere prima il libretto delle istruzioni. Non accetto che i cuochi (pardon, chef) ci prendano per una manica di zotici campagnoli (sospetto che talvolta se la ridano sotto i baffi) se non riusciamo a capire come cavolo si debbano tagliare, spezzare, sorbire le loro pietanze. Porca miseria: al ristorante ci vado prima di tutto per i sapori. Se poi è contento anche l’occhio evviva evviva e applausi. Ma mica sono lì per ammirare una scultura. Vogliono far gli artisti delle forme plastiche? S’aprano bottega d’arte, espongano in galleria, ma non pretendano che li veneriamo al ristorante. In fin dei conti, da loro ci andiamo soprattutto per commetter peccati di gola.

Poi, abbiano il buon gusto, i novelli creativi della tavola, di lasciarci mangiare per davvero quel che ci propongono. Penso a certi fondi, talvolta sublimi, che accompagnano ravioli o carni o pesci. Ci penso con rimpianto, ché non sono riuscito a papparmeli. Perché - vi siete accorti? - mai che mettano sulla tovaglia un cucchiaio da salse. Così quelle delizie di sughetti m’è puntualmente toccato di lasciarle lì, nel fondo d’una ceramica dalla sagoma di zuppiera, d’una ciotola troppo profonda. Ecché, a casa loro mangiano i sughi con forchetta e coltello? Così ti tocca rinunciare. O cercare di far la scarpetta col pane. Che però non è facile. Primo, perché t’attireresti il dispregio dei commensali, facendo la figura del cafone. Secondo, perché il pane in tavola non c’è: al suo posto, quadretti di pasta croccante, filiformi grissini di strane farine, roba buona (caspita, s’è buona), ma inutile per far zuppetta.
Vi prego, vi supplico cuochi amici&nemici: datemi anche un cucchiaio, la volta prossima che mi vedete, ch’io possa gustare i vostri intingoli. E visto che ormai sono in ginocchio avanti a voi, ripeto implorante: rivoglio il piatto piatto. Giuro: non lo dirò a nessuno che me l’avete posato sul desco. Ma lasciatemi mangiare in pace, con piacere. Vi bacerò. Sulla guancia. Ovvio.

venerdì 23 dicembre 2005

Top 2005 secondo me: le migliori bottiglie bevute

Angelo Peretti
Opps! Ecco che ci sono caduto anch’io. Mi perdonino dunque i miei dodici fedeli lettori, ma dovranno stavolta sorbirsi la mia personale classifica. Il top delle bottiglie bevute nel 2005. E già, che poi è tutta colpa di Giampiero Nadali e del suo blog Aristide.biz, dov’ha lanciato l’idea: che ciascuno stili la sua graduatoria. Alla faccia delle top one hundred di Wine Spectator e di Wine Enthusiast e di wine questo e di wine quello. Provocazione rilanciata dal Ziliani Franco sul suo blog pepatissimo (è il taccuino del franco tiratore). Che volete: la sfida l’accetto a ‘sto punto anch’io. E scrivo le bottiglie che più m'hanno lasciato ricordi.
Dunque, ecco le nomination. In tripla graduatoria, giusto per semplificare, ché senno potrei finirei per stilare un elenco troppo lungo. Prima i vini rossi – cinque - di quella che chiamo la Regione del Garda, ossia il Veronese, il Bresciano, il Mantovano e il Trentino. Poi i bianchi del medesimo territorio ed in medesimo numero, ossia la cinquina. Infine il resto, ancora in cinqu'etichette in tutto.

Rossi della Regione del Garda

Amarone della Valpolicella Classico 1997 Giuseppe Quintarelli – Negrar (Verona)
Il Bepi da Negrar, grande vecchio della Valpolicella, ha colpito ancora. Il suo Amarone del ’97 è da antologia per complessità, tensione, personalità. Lui esce tardi, tardissimo co’ suoi vini, a differenza degli altri amaronisti. E tira fuori capolavori uno in fila all’altro. Nel segno della tradizione. Peccato tanta bellezza costi un mezzo mutuo...

Amarone della Valpolicella Classico 2001 Manara – San Floriano di San Pietro in Cariano (Verona)
Agli antipodi di Quintarelli in tutt’e per tutto. Nel prezzo, che è piccolino. Nella struttura, ch’è esilissima. Eppure i Manara brothers di San Floriano hanno cesellato un altro gioiellino, come già nello spettacoloso, elegante 2000. Un Amarone da berci la bottiglia e stapparne subito un altra. Una nuova strada per il vino di punta della Valpolicella.

Recioto della Valpolicella Classica 2000 Lorenzo Begali – Cengia di San Pietro in Cariano (Verona)
Non ce n’è per nessuno: il Lorenzo Begali da Cengia, volto affilato, pensiero profondo, è il re del Recioto valpolicellese. L’annata 2000 fece gridar di gioia gli appassionati del vellutato passito rosso. Alla distanza, si conferma un capolavoro d’equilibrata mistura di zuccheri, tannini e acidità. Se vi capita d’incrociarne una bottiglia residua, fatela vostra.

Nepomuceno 2001 Cantrina – Bedizzole (Brescia)
Nepomuceno, o del merlot gardesano. Brava Cristina, che ha proseguito con cocciuta passione nell’impegno d’inventare uno chateau in quei colli ondulati che non son più Garda e non ancora Chiese. Terre da scoprire. E vino corposo e ricco, eppure anche di gran beva. Fragrante di vegetale essenza. Di peperone soprattutto, intrigante.

Bardolino Poderi Oppi Pellegrini 2004 Maddalena Pellegrini – Castion di Costermano (Verona)
La prima volta ero convinto d’essermi sbagliato: impossibile, mi son detto, che ‘sto vinello ti piaccia così tanto. La seconda volta, pure. La terza mi son fatto certo. Allora eccolo in top five, a conferma che finezza ed eleganza non sempre vogliono prestanza. Undici gradi appena, profumo infinito di lampone, beva succosa e sapida e lunghissima.

Bianchi della Regione del Garda

Lugana Riserva del Lupo 2003 Cà Lojera – Rovizza di Sirmione (Brescia)
Ebbene sì, l’ho già scritto e lo ripeto: uno dei migliori Lugana mai bevuti. E a ogni riassaggio ne sono più convinto. Un fuoriclasse, con le sue intense suggestioni di clorofilla sopra una struttura imponente, una freschezza nervosa, una mineralità che racconta le argille luganiste. Darà ancora soddisfazioni per anni e anni e anni.

Lugana I Frati 2004 Cà dei Frati – Sirmione (Brescia)
Chapeau, Igino (Dal cero, of course): buono buono buono ‘sto Lugana 2004. Per freschezza, agilità, pulizia, finezza, profondità dei toni di fiore bianco, di vegetalità, di frutto. Per lunghezza dell’appagante beva. Un Lugana da bere più e più volte, come ho puntualmente fatto durante l’estate. Da aspettare, anche, nel tempo.

Soave Classico Monte Grande 2003 Prà – Monteforte d’Alpone (Verona)
Ullallà che buono che resta ‘sto Soave del 2003. La garganega qui fa cantare il bicchiere con le sue vene di frutto croccante e una mineralità che racconta delle terre vulcaniche dei colli montefortiani. Graziano Prà me n’ha fatto bere dalla magnum, e il consiglio è quanto mai giusto: grande bianco da mettere in cantina in doppia bottiglia.

Soave Classico 2004 Leonildo Pieropan – Soave (Verona)
Già già già, mica il magico Calvarino, mica la possente Rocca – che pure entrambi sono spettacolari - metto in top five fra i bianchi soavisti di maestro Nino Pieropan. No: promuovo a voti pieni e applausi e baci il base, accessibile di prezzo, mostruoso per eleganza e fragranza e bellezza: gran classe, signori, a prezzo buono.

Müller Thurgau Quaron 2004 Borgo dei Posseri – Ala (Trento)
Che volete che vi dica: a me il Müller di Borgo de’ Posseri continua a intrigarmi ogni anno, e sono tre che l’assaggio, dal 2002. L’azienda è poco nota, quasi sconosciuta. Piccoletta. In quota: montagna affacciata sulla Vallagarina. Be’: mi ricorda nello stile, ‘sto vino, l’Alsazia, con quella sua aromaticità che s’intride di note di roccia e sasso.

Vini d'altre terre

Coteaux du Layon Saint Lambert Cuvée Prestige 2000 Domaine Ogereau – Saint Lambert du Lattay (Francia)
Come tirar fuori un capolavoro da un’uva semisconosciuta. Sia chiaro: vitigno ritenuto minore fin qualch’anno fa, lo chenin blanc, ché da qualche tempo a oggi è diventato star, sull’onda, anche del culto biodinamico. Bene: questo 2000 è appagante e ricco e intenso e nobile e sinuoso e insomma peccato averne ancora una bottiglia sola.

Sauvignon Blanc Marlborough 2001 Cloudy Bay – Marlborough (Nuova Zelanda)
Devo a Leandro Luppi, patron del Vecchia Malcesine, ristorante stellato, l’aver conosciuto questa meraviglia di sauvignon. Che non ha le puzze vegetali di quegl’italici ma le fragranze di fiore bianco de’ francesi di Loira. E aggiunge minerale venatura e iodata mistura. Grandissimo bianco di quattr’anni, e ancora giovanile.

Pinot Grigio Alto Adige Valle d’Isarco 2003 Köfererhof – Varna (Bolzano)
Comprateli, i bianchi di quest’aziendina sulla curva dove finisce il muraglione dell’abbazia di Novacella, Südtirol. Se lo trovate ancora in qualche ristorante, bevete il Pinot Grigio del 2003, ch’é grandissimo. Io l’ho goduto all’Oste Scuro, Bressanone, dopo - pensate - un Pinot Nero famoso: ha vinto, stravinto il confronto. Grand’anche il Kerner.

Moulis en Médoc 1999 Chateau Poujeaux – Moulis en Médoc (Francia)
Dicano quel che vogliono, ma il bordolese è terra fantastica per i rossi: niente ecceso d’alcol, niente marmellatose consistente, niente masticazioni legnose. Finezza ed eleganza ci si trovano. E longeva grazia. Che non mancano ai rossi di questo Chateau del mio cuore, che m’ha sin qui dato varie annate di grazia a prezzi buoni.

Marcilly Premiére 1962 P. de Marcilly Frères – Beaune (Francia)
Gli uomini no: noi invecchiamo male. I vini di classe, e anche le donne, invece, col passar d’anni acquistano grazia. Anche in annate balenghe, come fu il ’62: sin qui, non avevo bevuto una bottiglia decente. Eppure, ecco, inatteso, il fremito: un pinot nero che se n’infischia dei quaranta e pass'anni. Ancora fragrante di frutto, nobile di grafite. Vero: beati i vini, certi vini (e le donne).

sabato 10 dicembre 2005

Dolcezze in bottiglia e santi bicchieri da parroco

Angelo Peretti
Fortunati i parroci del Trentino. In questi giorni riceveranno una bottiglia. Piccola, da 0,375. Ma con dentro un bel vino. Fuori commercio. Unico. Irripetibile. Un vino per la Messa di Natale. L’hanno fatto i produttori – son solo sei – dell’associazione dei Vignaioli del Vino Santo. Sono Pisoni, Gino Pedrotti, Francesco Poli, Giovanni Poli, Pravis, la Cantina di Toblino. Dirò: tutt’e sei intriganti, i loro vini. Da comprare e bere a botta sicura. Dolcemente. Ma per fare un Vino Santo ancor più pregno di santità, ciascuno n’ha messo a disposizione un quantitativo del suo. Se n’è tratta una cuvée. Riservata alle parrocchie tridentine. Con poche eccezioni. Una bottiglia a papa Ratzinger, e scusate se è poco. Qualche pezzo ai giornalisti del vino. Una è toccata a me: si sa, a Natale sono tutti più buoni, e i Vignaioli del Vino Santo, mercé l’intercessione dell’amico Nereo Pederzolli, narratore di cibi e di vini e di tradizione della terra di Trento, m’han ritenuto degno di tanta grazia. Fortunato anch’io. Come i parroci.
Ora, della bottiglia che m’è toccata in sorte (la numero 357 sulle 400 realizzate, per esser pignoli), so che ai miei dodici lettori non importa granché. Piuttosto, potrà esser loro d’interesse aver notizia di qualcheduno dei vini «dolci» che si son potuti provare a Dulcenda, la manifestazione che s’è svolta in una freddo sabato decembrino a Castel Toblino, lo stesso luogo dove s’è presentato l’originale Vino Santo per il Natale del 2005. Ora, di passiti e affini ce n’erano in degustazione un centinaio. Farne selezione non è facile. Ma, ahinoi, occorre far sintesi, e quindi cercherò di descriverne qualcheduno. Il numero dei prescelti? Sei, appena, ma non per demerito degli altri. Forse perché son pigro a scrivere. O forse perché non voglio ubriacare i miei lettori, che com’è noto son dodici appena: mezza boccia a testa gli basta e avanza, e dunque sei bottiglie. Sapendo di far torto a molti espositori di Dulcenda. Pazienza: farò di più quand’anche i lettori saranno aumentati.
La prima citazione va al Vino Santo Trentino. Ma mica per l’omaggio che m’han dato. Perché invece è monumento della cultura enoica in Valle dei Laghi. Perché è il passato che si fa presente. Perché è sintesi alta di sapere vinicolo. Lo fanno con le uve di nosiola. Fatte appassire lungamente esposte all’Òra, vento che spira fin là dal Garda, incuneandosi fra le montagne. Pigiate poi, le uve passe, verso Pasqua. Il vino riposa per lungo, lungo tempo - cinque anni e più - nel legno prima della bottiglia. Se proprio uno e uno solo ne dovessi scegliere, be’, m’orienterei allora su quello del Gino Pedrotti, uomo dei silenzi dei boschi, orso delle solitudini dei monti. È Vino Santo della vendemmia del ’95. Dieci anni d’ombroso riposo nella cantina. Vince ai punti – è mia opinione – per complessità, austerità, finezza.
Alto Adige, adesso. Scelgo il Terminum, vendemmia tardiva di gewürztraminer. Maestoso e complesso. Gli accenti floreali inseguono le note spiccatissime d’agrume. L’erba aromatica, alpestre, avvince il naso e il palato. La freschezza smussa la presenza dolce. Un mostro d’equilibrio. Lo fa la Cantina Produttori di Termeno. La vendemmia è del 2003. Ha solo un difetto: è pressoché introvabile.
Ora il Veneto. Vado nel Vicentino, a Breganze. Bevo il Torcolato di Firmino Miotti. Che poi Firmino segue la vigna, mentre a far vino è la figlia, Franca. Che sa il fatto suo. Così come lo sa il consulente che s’è scelta, il Federico Giotto, giovane dalle idee chiare e dalle realizzazioni sicure. Be’, il Torcolato 2002 è vino che mi devo decidere a comprare in cassa. Lo fanno in prevalenza con uve di vespaiolo, più piccole aggiunte di tocai «nostrano» e ancora più piccole dello sconosciuto autoctono della pedevenda, di cui non so alcunché, se non che forse prende nome da un monte di quelle parti. Il vino ha naso avvincente, secondo me il più bello dei cento di Dulcenda. Tartufo, sottobosco, frutta appassita, spezie fini, quasi accenni di chiodo di garofano, vene balsamiche. Vino da olfatto. E da gusto. Grande tensione. Freschezza nervosa. Lunghezza invidiabile. Da bere e ribere. Anche da far riposare, se si vuole, lungamente in cantina per ottenerne ancora maggiore complessità.
Ora Verona. Per me, veronese, capirete ch’è difficile scegliere: roba buona ce n’era, bianch’e rossa. M’impongo un’unica opzione. E dal taccuino di degustazione ecco che esce un nome: Le Selle dei Coffele da Soave. Che, attenzione, non è il vino più impressionante tra i passiti scaligeri provati. E allora – mi chiederà il lettore, uno dei dodici miei – perché lo privilegi? Rispondo: per la finezza, non per pienezza. A Dulcenda la Chiara Coffele – tipetto vispo, capelli un pochetto da punk – ha portato il 2001. È sauvignon appassito. Naso esilissimo, ma di nitore impeccabile. Poco alcol: undici gradi appena. Bella freschezza. Eleganza. Fosse un quadro, sarebbe un acquerello appeso fra oli e acrilici.
Adesso il Friuli. Con un capolavoro. Il Cràtis 2002. Verduzzo friulano doc. Lo fa Roberto Scubla a Ipplis di Premariacco. Ha avuto i tre bicchieri dal Gambero Rosso & Slow Food. Li merita, stramerita. Le uve le lascia in vigna più a lungo che può. Ne fa selezione e poi appassimento sotto tettoia, senza vetri o porte o finestre. All’aria, al vento. L’uva rustica e il rigore della maturazione gli rendono il carattere acceso, la personalità complessa. Che volete vi dica, per descriverlo: pensate ai frutti appassiti che vi piacciono, dalla scorza giallo-ambrata, e ce li troverete. Retorico elencarli. Sappiate però ch’è per nulla stucchevole. L’acidità gli dà slancio ed equilibrio. La quadratura del cerchio.
Uno me ne resta da scegliere. Medito e dico: Vin Santo dell’Umbria di Stefano Grilli, La Palazzola. La vigna è a Stroncone, provincia di Terni. Il vino – l’annata è il 2001 - lo si fa con il trebbiano spargolo e la malvasia. L’uva viene appassita, appesa, fino a Natale. Il mosto fermenta in carato sigillato. Be’, m’ha intrigato. Peccato non averne qui una nuova bottiglia da stappare. N’esce al naso una florealità che s’innesta su quella nota ossidativa ch’è tipica di vini del genere e ne trae slancio e lunghezza e fascinosa ricchezza. La bocca è salda, invitante, succosa di caramella alla pera, d’albicocca, per passare a memorie inusitate che direi di ginepro secco come quello che conservo in bacca nei vasetti per l’arrosto. Ma qui rischio d’esser preso per matto. O d’essermi fatto traviare dal gin tonic sorbito ad ampia coppa in compagnia di Stefano Bertoni e Leandro Luppi e Isidoro Consolini, i magnifici tre che han preparato la cena per la stampa. Il primo chef a Castel Toblino, l’altro stellato al Vecchia Malcesine, il terzo creativo patron e cuoco del Caval di Torri del Benaco. Bravissimi. Dedico loro un calice. Di passito, però, ovvio. Col gin & tonic water continuino pure loro.