domenica 24 dicembre 2006

Top 2006 secondo me: venti bottiglie indimenticabili stappate nell’anno

Angelo Peretti
Eccoci qui con la classifica. La fanno tutti, perché non dovrei io? Del resto, c’è cambio d’anno, e dunque occorre far sintesi e metter ordine alla memoria. Eppoi, l’ammetto, è piacevole andare a rivedere gli appunti di tante bottiglie stappate, assaggiate, a volte proprio bevute, godute. E raccontarle.
Certo, far graduatorie è sempre arbitrario. E difficile, ché a volte quel certo tal vino porta con sé anche ricordi, emozioni, sensazioni che vanno oltre il fatto edonistico in sé. Ed è pure ingiusto, finendo inevitabilmente per accantonare qualcosa, qualcuno, che comunque vorresti - dovresti - valorizzare. Ma tant’è: il rito va rispettato.
Dunque: venti e non di più.
Dieci di quella che amo chiamare la Regione del Garda, ossia le province di Verona, di Brescia, di Mantova e Trento. Più Verona che le altre, e mi perdonino lombardi e tridentini (m’accorgo che soprattutto a Trento e dintorni ho avuto poche occasioni d’assaggio nell’ultimo anno, e dunque mi riprometto di rimediare nel nuovo).
Dieci fuori dai paraggi, altre latitudine, altre longitudini, altra Italia, altra Europa, e per stavolta niente fuori Europa.
In ogni caso, venti vini che mi piacerebbe ribere. Che mi hanno convinto. Emozionato, anche. E sono, insieme, bianchi, rossi e rosati. Già, anche i rosati: perché, son forse minori nell’Olimpo del vino? Ce n’è un terzetto addirittura, di rosé: due gardesani, uno francese. Piacevolissimi, secondo me.
Fuori Italia, c’è tanta Francia - e non sarebbe possibile altrimenti - un pelo di Germania (ah, i Riesling del Reno!), un vino dolce - straordinario e «antico» - di Crimea. E in terra italica anche un Moscato, ch’è un vino adorabile e troppo trascurato da’ bevitori, e n’ho trovato un’espressione altissima.
M’accorgo che non ho scelto bollicine. E comunque di buone - buonissime, talvolta - n’ho bevute, ma nella classifica non hanno trovato spazio: pazienza.
Eccoli, dunque, i venti top secondo me. In ordine rigorosamente alfabetico all'interno delle due categorie.
Prosit!

Top 10 della Regione del Garda

Amarone Classico della Valpolicella 2000 Manara
Lo scorso anno nella mia top c’era il 2001. Ebbene, di meglio c’è l’annata precedente: l’Amarone 2000. Ribevuto a distanza di tempo, m’ha nuovamente impressionato, e dimostra di tener salda quella sua eleganza delicatissima eppure lung’assai, quel frutto così calibrato. Niente palestra, per questo rosso: evviva. Bevuto a novembre.

Amarone Classico della Valpolicella Sergio Zenato 2001 Zenato
Inserendo fra i preferiti del primo semestre l’Amarone basic 2001 di Zenato, avevo detto che il fratello maggiore, la Riserva assaggiata allora solo en primeur, sarebbe finita probabilmente fra i miei must di fine anno. Così è. Grande Amarone. Tanto frutto, tanta spezia, corpo potente eppur anche agile e beva lussuriosa. Bevuto a luglio.

Bardolino Chiaretto 2005 Giovanna Tantini
Ah, Giovanna, che Chiaretto! Frutto, frutto e frutto. Da riempirseme l’olfatto e il gusto. Da masticare. Da assaporare. Da far rotolare in bocca. E poi la vena speziatina ch’è tipica delle corvine gardesane. E un colore deciso, marcato, eppure anche brillante e cristallino. Bell’espressione bardolinista. New Bardolino. Bevuto in settembre.

Garda Classico Chiaretto 2005 Vedrine
D’accordo: non è un colosso, ma vivaddìo m’è piaciuta l’opera prima di Vedrine, microazienda del Garda lumbàrd, che ha fatto, nel 2005, solo e soltanto questo vino rosè (ci vuol coraggio). Atipico, atipicissimo Chiaretto rivierasco. Più vegetale che fruttato, anche se la fragolina s’avanza impertinente. Avanti così. Bevuto in agosto.

Quaiare 2003 Le Fraghe
L’avevo detto a maggio che questo rosso era (è) un gioiello in termini d’espressione del terroir. «E pazienza se gli altri non saranno d’accordo», scrissi. Le guide non sono state d’accordo, ma per me resta uno dei vertici assoluti nell’area gardesana, un benchmark, un vino che ha un’anima e uno stile inconfondibili. Ribevuto a luglio.

Recioto Classico della Valpolicella Capitel Monte Fontana 2000 Tedeschi
L’annata 2000 fu d’equilibrio in Valpolicella. E gli Amaroni son buoni. Però straordinarie son certe bottiglie di Recioto, soprattutto oggi che cominciano ad aver maturità. Questo dei Tedeschi è un grand’esempio: avvincente per complessità e ampiezza olfattiva, ha in bocca finezza ed eleganza e misurata dolcezza. Goduto a dicembre.

Soave Classico Cà Visco 2005 Coffele
Oh, se mi piace il Cà Visco. Già en primeur, ancora scomposto dall’imbottigliamento di pochi giorni, m’aveva intrigato. Facendosi adulto, ecco l’inconfondibile suo charme. Il frutto pulitissimo entra deciso e lascia poi spazio alla freschezza e quindi riemerge, asciutto, nel finale. Bevuto in luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre...

Soave Classico La Rocca 1993 Pieropan
È tuttora buonissimo questo Soave del ’93. In forma smagliante dopo tant’anni, e freschissimo, e giovine direi, e vibrante e nervoso e teso. Ha frutto denso e vene minerali e lunghezza sorprendente e avvincente. Un bianco italico che può reggere il confronto coi grandi di Francia e di Germania. Bevuto a fine maggio.

Soave Classico Monte Fiorentine 2005 Cà Rugate
Che gran bianco che è il Monte Fiorentine. A mio avviso, uno dei bianchi più buoni e appaganti che sia dato di trovare sull’italico suolo. Gioiosamente bevibile, giocosamente succoso di frutto, festosamente vestito di fiori. Un vino che riesce a mettere insieme nobiltà e spensieratezza. Bevuto in luglio e in ottobre e in dicembre.

Valpolicella Classico Superiore Il Taso 2003 Villabellini
L’annata della svolta. Cecilia Trucchi col 2003 ha deciso di trarre uno e un solo vino dalle uve del suo brolo di Castelrotto, rinunciando (incredibile) perfino all’Amarone. Che vino che ne è venuto! Personalissimo, succoso di frutto, pregno di spezia, bevibilissimo e possente insieme. Gran bel rosso valpolicellese. Ribevuto a luglio.

Top 10 d’altre terre

Ai-Danil Tokay 1938 Massandra
Sul Mar Nero, in Crimea, esiste la più imponente collezione mondiale di vini invecchiati. In genere dolci o fortificati. È la Massandra Collection. Ho avuto la fortuna di poter bere il Tokay del ‘38 fatto ad Ai-Danil, vicino a Yalta. Poesia. Dattero, fico secco, arancia candita, melata, cognac, nocino, mandorla... Grandissimo. A dicembre.

Alsace Riesling Grand Crû Hengst 1997 Domaine Josmeyer
Quando lo comprai, in Alsazia, in cantina a Wintzenheim, ero convinto d’aver fatto un bell’acquisto. A distanza di mesi e mesi, questo Riesling s’è mostrato anche sopra le attese. La vena minerale e quella fruttata s’intersecano, si fondono in quello che ho già definito un amplesso lunghissimo e passionale. Bevuto a febbraio.

Côte Rôtie 2003 Benjamin et David Duclaux
Se non sbaglio, Parker, a questo syrah della Cote Rotie ha dato 93 centesimi di valutazione. Be’, li vale tutti. Il prezzo è sui 30 euro, pochi per un rosso di questa denominazione. Ancora giovane, ma già sul frutto s’innestano sentori d’erbe officinali, di timo. Elegantissimo oggi, chissà cosa potrà diventare. Bevuto in dicembre.

Côtes de Provence Château Sainte-Marguerite 2005 J. P. Fayard
Che la Provenza sia terra di bei rosati è noto. Quest’era bellissimo già dal colore, abbastanza tenue invero. Fragranze fruttate d’avvincente finezza: il piccolo frutto rosso di sottobosco, soprattutto. E poi una nota quasi balsamica, officinale, sottile, elegante. Una freschezza nervosamente sensuale. Buonissimo. Bevuto in agosto.

Côtes du Rhône Parallèle 45 2001 Paul Jaboulet Ainè
D’accordo, d’accordo: questo è «solo» il rosso di base di Jaboulet, ma porca miseria che base! Succoso di piccolo frutto, di mirtillo e d’amarena. Di lunga persistenza. Giovane dopo un quinquennio. Eppoi accettabile nel prezzo. Ve lo dico io: sarà anche un vino di base, ma rimpiango fosse l’ultima boccia. Bevuto a Pasqua, coll’agnello.

Erbacher Hohenrain Riesling Spätlese 1990 Schloss Reinhartshausen
Per me, non c’è bianco che tenga, di fronte a un gran Riesling. Tedesco magari, e invecchiato. Fra i Riesling - parecchi - bevuti nel 2006, questo l’ho trovato elegantissimo e splendido per equilibrio, dopo quindici anni. Il frutto e la vena citrina perfettamente integrati. La nota minerale equilibratissima. Fascinoso. Stappato a giugno.

Fiano di Avellino Clelia Romano 2004 Colli di Lapio
Uno dei bianchi più buoni che mi ricordi d’aver bevuto in Italia. Forse il più buono. Vino di terroir, classico e modernissimo assieme. Descrive i caratteri del vitigno e della terra. Un tripudio d’erbe aromatiche e di cedro e di litchie e di pesca bianca croccante e integra. Freschezza, armonia, lunghezza infinita. Bevuto a maggio.

Menetou-Salon Morogues 2004 Domaine Henry Pellé
Adoro i Sauvignon della Loira. Ma devo ammettere che questa bottiglia - d’una denominazione che m’era sconosciuta - l’ho comprata giusto per curiosità, perché era coup de coeur della guida Hachette 2006. E meno male che ho letto l’Hachette, ché questo è bel bianco, freschissimo, floreale, denso di frutto bianco. Bevuto a marzo.

Piemonte Moscato d’Autunno 2005 Paolo Saracco
Che complessità d’agrumi e albicocce surmature e pesche gialle in piena estate e fiori primaverili e miele e perfino la speziatura fine di certi dolcetti tedeschi. E che equilibrio, con quella freschezza che dà grande slancio e rende onore alla dolcezza. Ed ha lunga persistenza e gratificante beva. Gran Moscato, gran vino. Bevuto a settembre.

St.-Émilion Gran Crû Classé 1970 Chateau Fombrauge
Miseria che slancio giovanile che ci ho trovato in questo rosso bordolese ormai più che trentacinquenne. Il naso non era magari di quelli indimenticabili, ma la bocca, ragazzi… Che succosa freschezza. Quasi vinosa. Piena di vita. Ricca di frutto. Trovarne, di vecchietti così. Bottiglia bevuta, con soddisfazione, ai primi d’aprile.

mercoledì 20 dicembre 2006

Il cioccolato, il vino, il fiume

Angelo Peretti
Mi piace il cioccolato. Ne ho quasi dipendenza. Ma adoro gustarlo in solitudine. Ergo: niente bagno di folla alle fiere cioccolataie, che si moltiplicano da qualche tempo. Una di queste kermesse, fra le più importanti, è il Cioccoshow, che s’è tenuto a Bologna. E del Cioccoshow ho tenuto da parte un comunicato stampa, ripromettendomi di tornarci su. Spiegava che in occasione della rassegna bolognese nasceva il premio «Perfetto per il Cioccolato» riservato ai vini italiani passiti, liquorosi, da meditazione e da dessert. Diceva, testuale, così: «Il premio intende individuare non solo il vino più adatto ad essere abbinato al cioccolato, ma anche il perfetto connubio tra il vino stesso e una particolare tipologia di cioccolato artigianale».
Ebbene, ci torno sopra a questo comunicato per dire che no, non sono d’accordo. Perché ritengo che non cia sia e non ci possa essere alcun vino «perfetto» per il cioccolato.
Ora, capisco: gli organizzatori han fatto bene - in quanto a strategie di comunicazione - a mettere in pista ‘sto concorso, ché d’abbinata wine & chocolate si fa un gran parlare. È un argomento di tendenza, che attrae l’attenzione del pubblico. Per esempio, sui forum on line ogni tanto la questione torna d’attualità, e i post di commento s’infittiscono. E si finisce sempre lì: il Barolo Chinato, il Banyuls, il Porto Vintage, l’Ala Amarascato. Di più: cresce il numero de’ produttori che nel descrivere i loro vini dolci spiegano d’averli trovati adatti allo sposalizio cioccolatoso. Mosse di marketing: se la gente cerca vini da cioccolata, facciamogli credere ch’esistano, e piazziamoli. Poco importa, poi, se il vino vincitore del premio al Cioccoshow è gardesano, un passito della Civielle, leggasi Cantine della Valtenesi e della Lugana, ch’è un’affidabile realtà della riva lombarda del Benaco. Poco importa perché nossignori: vino e cioccolato insieme non ci stanno. Per dirla col Manzoni, «questo matrimonio non s’ha da fare».
Ma il Barolo Chinato… E ridagli con questa storia che ti ficcano in testa nei corsi di degustazione e sui rotocalchi da parrucchiera. Sì, ammetto, il Barolo Chinato ci può anche stare, come altri vini aromatizzati. Così come i fortificati francesi. Così come il Porto. Perfino qualche Recioto della Valpolicella riesce a reggere il cioccolato. Ma il problema è proprio lì: son tutte soluzioni che «reggono» il cacao, che lo sopportano, che sopravvivono. Mica che ci si esaltano. E un buon abbinamento è invece quello in cui il vino esalta il cibo e il cibo esalta il vino. È questo e solo questo, citando Veronelli, il «matrimonio d’amore».
A proposito di Luigi (Gino) Veronelli e della sua definizione. Riprendo il mano il suo libretto dell’84 «Veronelli. Matrimoni d’amore». E rileggo: «Nessun vino sulla cioccolata, torta e pasticcini al cioccolato, e sui gelati qualsiasi il loro gusto. Provocano un improvviso e immediato sovvertimento, un vero e proprio terremoto “palatale”. Il vino, bevuto sopra, avrebbe, a sua volta, sapore del tutto bistorto». Ecco, concordo e sottoscrivo.
Il fatto è che il cioccolato è il simbolo stesso della complessità. È grasso. È tannico. Talvolta è acido. Dicono che contenga qualcosa come trecento sostanze. Un gran bazar organolettico. Che liquido vinoso volete trovare ch’abbia una simile ampiezza? Per sgrassare la bocca da una grassezza del genere servono forti dosi d’alcol e d’acidità. E come li contrasti invece quei tannini?
Certo, sì, qualche gran vino riesce - dicevo - a sopravvivere. A malapena sopravvivere, insisto. Ma in genere è, appunto, gran vino, dal costo altrettanto grandicello. Che senso ha sprecarlo in un accostamento che sta in piedi a fatica, che non amplifica il piacere della beva, dell’assaggio, della gastro-libidine? Meglio gustare il vino e poi, di lì a un po’, il cioccolato. Solitario l’uno, solitario l’altro. Ma che gioia queste solitudini.
Piuttosto, cercate altri orizzonti.
Dicevo: serve alcol. E dunque alcol sia. Distillati. Rum, soprattutto, di bell’età. E poi forse Cognac, Armagnac, Calvados, whisky. Qualche grappa. Peccato che io non beva distillati…
Oppure, acidità. Acido come certe birre artigiane - magari d’abbazia - non trovate nulla. Le grandi birre ambrate e scure del Belgio, con quel loro fondo amarognolo e quella lunghezza speziata e quel tono di liquirizia e quei vaghi ricordi di frutta rossa macerata e fors’anche candita, e di buccia d’arancia essiccata. Ho testato, col cioccolato, l’Abt 12 della St. Bernardus, da Watou, Belgio: che bell’abinamento! E buono ho trovato il biscotto di cioccolato con la McChouffe, che viene dalle Ardenne, birrifico La Chouffe (e che dire dello sposalizio con N’Ice, la birra di Natale della stessa ditta?).
Ecco: questa è la frontiera: distillato o birra belga o acqua o nulla. Ma niente vino, please, col cioccolato.
Ora, almeno un’altra dritta ve la devo dare. Se siete a Verona, andate a cercare in via Fama. Un vicoletto che si distacca da corso Portoni Borsari, a due passi da piazza Erbe. Ci potete trovare buona musica e cioccolato lussurioso. La musica è quella dei cd che vende Carlo, ai Dischi Volanti. Il cioccolato è quello del negozietto della Magioca.
Dovete sapere che, in realtà, La Magioca è un bed & breakfast in Valpolicella, a Negrar. Un posto - credetemi - di quelli che pensate esistano solo sulle riviste d’arredamento. Una casuccia antica. Un salotto in stile provenzale che neanche in Provenza lo trovate così bello. Delle stanzette che uno non gli viene proprio voglia d’uscire. E una chiesuola dove fanno i matrimoni. Un giardinetto curato fin nel dettaglio. Una quiete assoluta.
Ecco, nel cucinino della Magioca si fanno poi cose miracolose. Si fanno cioccolatini. O meglio, li fa - iperartigianalmente - la signora Marisa. E sono delizie. A volte li infiocchetta uno per uno, a mano, con un fil di raso. Provate il marrone ricoperto di cioccolato: da svenire. E il cioccolato al caffè? E l’albicocca al cioccolato? E i quadrotti di cioccolato? Insomma: ne tastate uno e vi vien voglia di mangiarli tutti, alla faccia delle calorie.
Bene, dalle colline negraresi di Moron, i cioccolatini della signora Marisa sono scesi al capoluogo, a Verona, dove La Magioca ha aperto un piccolo shop. In via Fama, appunto. Li trovate lì, se volete. Garantisco: vale la pena.
Visto che siete nella viuzza, passate anche da Carlo, ai Dischi Volanti, e compratevi l’ultimo cd di Madeleine Peyroux. S’intitola «Half the perfect world». C’è sopra un brano di Joni Mitchell, e la Peyroux lo ricanta ch’è una meraviglia. Si chiama «River», che è il fiume. Ecco, a casa mettetevi in poltrona, abbassate le luci, accendete il lettore, fate partire «River», sbocconcellate il cioccolatino e beveteci insieme un po’ di birra ambrata, mica fredda. Tornerete a credere nelle favole, come quando eravate bimbi e aspettavate che arrivasse Santa Lucia o pensavate che Babbo Natale ci fosse davvero o insomma confondevate il sogno e la realtà.
Oh, se poi avete voglia, qui sotto chiudo col testo di «River». Portate pazienza: la traduzione è mia, l’inglese originale suona meglio. Spero solo d’averne resa, un po’, la malinconia.
Buon Natale.

River
di Joni Mitchell
Ecco, arriva Natale
Tagliano gli alberi
Appendono decorazioni
E cantano canzoni di gioia e pace
Oh, vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Ma qui non nevica
Qui resta tutto d’un verde così bello
Sento che farò un sacco di soldi
E poi la pianterò con questa pazzia
Oh, vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Vorrei avere un fiume così lungo
Da insegnare ai miei piedi a volare
Oh, vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Ho fatto piangere il mio uomo
Lui ci ha provato ad aiutarmi
Sai, m’ha fatta sentir bene
E l’ha amata così tanto questa birbante
Da farmi cedere le ginocchia
Come vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Sono così difficile da trattare
Sono egoista e triste
Ora me ne sono andata e ho perso l’uomo migliore
Che avessi mai avuto
Come vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Vorrei avere un fiume così lungo
Da insegnare ai miei piedi a volare
Oh, come vorrei avere un fiume
Al mio uomo gli ho fatto dire addio
Ecco che arriva Natale
Tagliano gli alberi
Appendono decorazioni
E cantano canzoni di gioia e pace
Oh, vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare.

sabato 16 dicembre 2006

Dell’appassimento breve: sarà New Valpolicella?

Angelo Peretti
L’Italia del vino di qualità si muove da sempre - che vuol dire da quindici-vent’anni, da dopo l’affaire metanolo - essenzialmente lungo due direttrici: il vitigno e la tecnica. Entrambi son al contempo, a mio pensare, punti di forza e di debolezza. Di forza, certo, ché da qui è scoccata la ripresa ed è scaturito il successo. Di debolezza, anche, ché non sono elementi unici e irripetibili. Il vitigno lo puoi ri-piantare altrove (il sangiovese - è un esempio - si coltiva anche in California o in Australia, adesso) quando non viene addirittura d’altri luoghi (leggi cabernet, chardonnay e dintorni). La tecnica è di per sé ri-producibile ovunque: uso del legno, riduzioni, appassimenti, ripassi, metteteci quel che volete.
La Francia del vino di qualità ruota da sempre - che vuol dire almeno da un secolo e mezzo, dalle prime classificazioni bordolesi - attorno a due perni: il marchio e il terroir. Il marchio è quello dei grandi (in dimensione e valore) negociant, oppure degli stessi château storici del Médoc (Latour, Margaux & Co.). Il terroir è affermato da chiunque voglia esprimere, appunto, l’idea di qualità, e alla regola non sfuggono gli stessi negociant. Giusto a titolo d’esempio, La Turque è sì un grande (grandissimo) rosso targato Guigal, ma è prima di tutto un crû e un’espressione del terroir straordinario della Côte Brune, nella vallata del Rodano, e in più porta bene in evidenza, in etichetta, la denominazione d’origine Côte Rôtie. Ecco, è vino di terroir, e l’espressione ingloba vitigno e tecnica e ne fa elementi d’un insieme virtuoso.
La premessa, lunga, è per dire che m’è capitato di partecipare all’ingresso in società d’un «nuovo» rosso di «scuola italiana» ch’avrebbe i crismi per diventare un vino di «pensiero francese». Per saltare l’ostacolo e guardare al domani.
Il vino è un Valpolicella Superiore dell’area classica: il Verjago della Cantina Valpolicella di Negrar. Sì, la cantina sociale negrarese, ch’è di quelle che lavorano bene, e bene tanto.
Ora, questo Verjago, alla sua prima uscita oggi coll’annata 2004, è un vino che potrei dir progettuale. Daniele Accordini, che della Cantina è direttore tecnico, ne ha illustrata l’origine, la concezione. Che provo qui di seguito a riassumere in tre fasi.
Fase uno: l’espressione di volontà. «Verjago - spiega Accordini - nasce con l’intento di restituire attenzione al vino simbolo della Valpolicella, al Valpolicella appunto. In un momento in cui l’Amarone sembra offuscare ogni luce proveniente da altri vini grazie alla sua potenza, alla sua concentrazione e al suo gusto internazionale, abbiamo sentito l’esigenza di riportare al centro della scena un prodotto legato anche con il nome al suo territorio di appartenenza, per secoli riferimento economico dell’intera regione». In sintesi: oggi che l’Amarone «tira», è ora di ridare smalto al Valpolicella. Applaudo.
Fase due: per mirar l’obiettivo, l’attenzione s’è focalizzata - correttamente - sull’indagine territoriale. «In collaborazione con l’Università di Verona - mi si dice - abbiamo analizzato per diversi anni le potenzialità viticole ed enologiche di numerosi vigneti situati nella fascia collinare della vallata di Negrar. Il lavoro ha richiesto lunghe indagini, tuttora in corso, portando alla luce l’essenza qualitativa di alcuni siti produttivi, prima conosciuti solo parzialmente, facendo emergere le espressioni più nascoste di alcuni territori e la maggiore adattabilità di determinati vitigni a particolari ambienti». Bene: è indagine sulle potenzialità del terroir negrarese e su alcuni suoi possibili crû.
Fase tre: il ritorno all’abitudine enologica italiana. «Nell’ideazione di questo vino - racconta il direttore - abbiamo quindi coniugato le varietà risultate più idonee con la tecnica tradizionale e antichissima dell’appassimento, prefiggendoci di ottenere un Valpolicella che potesse esprimere caratteristiche di eleganza e potenza unite ad autenticità e originalità». Ecco: vitigno più appassimento. Il Verjago è dunque figlio d’uve appassite, uve autoctone di Valpolicella. Come l’Amarone, pur d’appassimento più breve, molto più breve: la metà circa e fors’anche meno di quanto si usa per il potente rosso amaronista. Comunque vino «tecnico», ché mette in luce, soprattutto, la tecnica d’appassir l’uve, che trova nella Valpolicella la massima espressione. Ergo: il terroir, che pure era stato centrale nella progettazione, è in disparte. Ma mica gli faccio una colpa, alla Cantina, ché quest’è, appunto, l’impostazione italica, la scuola del pensiero nostrano.
Ma sarebbe ora di una svolta. E il progetto Verjago potrebbe essere un’occasione di quelle giuste. Così adesso cerco di spiegare perché.
Riparto dalla fase due: la ricerca sui terroir. I vigneti su cui la Cantina ha condotto l’indagine insieme coll’Università son tutti a Negrar e in collina. Anzi, in collina alta. Talvolta terre ch’erano quasi abbandonate, ritenute com’erano in passato meno interessanti in fatto di resa, quando la viticoltura era orientata a dar più quantità che qualità. Ma credo invece che quelli siano potenzialmente i pezzi di terra da seguire con più attenzione. Quelli da cui proviene la memoria storica dell’appassire. Ché ho una convinzione. Questa: l’appassimento, padre del Recioto e del figliolo suo Amarone, nasce da un’esigenza empirica, che è far fronte alla fame e alla carestia.
Era questa l’esigenza prima delle genti del passato: mettere da parte riserve d’alimenti per i giorni di vacche magre, così frequenti, ché i raccolti eran soggetti alle bizze del tempo. Nasce da qui l’industriosa creatività di tutti gl’insaccati e de’ salumi e delle conserve e delle marmellate e dei sott’aceti e dei sott’oli e dell’affumicato e dell’essiccato. Per il vino, era importante averne. Ma per chi tirava avanti vigna in collina alta c’era guaio in più: l’uva non maturava, e dava dunque vinelli aspri e subito acetici e per nulla capaci di durare. Ed ecco l’ingegno: se l’uva non matura in vigna, la si può far maturare in casa. Di qui l’appassimento, che concentra zuccheri. Se ne traeva dunque vino poco, ma alcolico e ricco di zucchero, nutritivo molto, e dunque passibile d’essere allungato coll’acqua per farne quantità maggiore. Per la romanità e per il tempo medievale e per l’età rinascimentale e insomma fin quasi ai giorni moderni, allungare il vino con l’acqua è stato normalità, per averne più quantità, più alimento.
Se quest’è vero, è forse la collina la terra madre dell’appassimento valpolicellese. Dunque, se si vuol fare Valpolicella da uve appassite, è corretto andare a cercarle lassù. Come ha fatto la Cantina di Negrar. Il problema è spostar la focalizzazione: non è per fare appassimento che si deve andare a trovar uve ne’ vigneti in quota, ma è per valorizzare il carattere - il genius loci - del terroir d’alta collina che si può utilizzare «anche» l’appassimento. E il Verjago questo passaggio culturale lo potrebb’affrontare, ché i presupposti ci sono - mi pare, e son convinto - tutti. E dunque potrebb’essere questo il New Valpolicella, il domani, il rosso valpolicellista di terroir. Che sia figlio d’appassimento, è meno importante.
Intanto, prendiamolo com’è, e ringraziamo la Cantina di Negrar che il coraggio, in questo progetto, l’ha mess’in campo per davvero.
Prima uscita, ho detto, è quella della vendemmia del 2004. Che ha fatto quaranta giorni d’appassimento e due anni di botte grande e nuova. Mi spiegano che l’uva messa ad asciugare fino a due settimane perde acqua nel graspo e solo poi concentra il frutto, che resta integro nelle fragranze sue fin verso i quaranta giorni e poi comincia la modifica aromatica che troveremo piuttosto nel bouquet dell’Amarone. Dunque, per conservar fruttato originario, occorre agire entro il mese e mezzo. Bene: questa è tecnica e va tenuta a mente: pre-requisito.
Adesso, qui di seguito, la scheda.
Valpolicella Classico Superiore Verjago Domini Veneti 2004
Alla sua prima uscita il Verjago è vino che sa il fatto suo. Ha oggettivamente all’olfatto frutto tanto e integro, fascinoso e piacevole, pur virando un po’ verso l’accento amaronista. La bocca apre ampia, ancora sul frutto. A mio dire, esce un poco il legno (ma ad altri non dà noia), e penso che forse due anni di botte son tanti. Vorrei un pelo in più di spinta acida, che dia slancio, lunghezza. In ogni caso, piacerà. Commercialmente sarà un successo, non dubito.
Per me, ora, vale un lieto faccino e quasi due, da rivedere, probabilmente, al rialzo col passar del tempo :-)
Verjago 2006 (dalla vasca)
Ho avuto occasione di provar la vasca del 2006 che sta nascendo. Prima della malolattica. Prima del legno, ovviamente. E be’, se il buon giorno si vede dal mattino… Ci ho trovato frutto bellissimo, che d’uva appassita non aveva neppure memoria. Ecco: queste fragranze van conservate.
Restasse questo slancio giovanile unito alla struttura ch’è di tutto rispetto, i faccini sarebbero di certo, domani, tre :-) :-) :-)
Ci va aggiunto, adesso, al Verjago, il carattere della terra sua, la capacità di narrarla, questa terra valpolicellese e i suoi crû e le sue vigne. E va modificato - penso - quanto dichiara l’etichetta: appassimento, legno - vabbé - ma mi dica qualcosa anche delle vigne, di dove sono e perché son quelle, proprio quelle. Sia vino terroirista della Valpolicella alta: trovi il coraggio. E gli sia lunga e lieta la vita.

sabato 9 dicembre 2006

Quei gemelli così diversi: i bianchi del monte del Toni e del Fice

Angelo Peretti
È un bene che ci siano persone intraprendenti, non c’è dubbio. Certo, il mondo va avanti grazie chi fa ogni giorno con giudizio l’opera loro: il panettiere che fa il panettiere, l’insegnante che fa l’insegnante, l’impiegato che fa l’impiegato e via discorrendo. Ma un po’ di sana intraprendenza è quella che permette il salto di qualità. Pensate se Cristoforo Colombo e Marco Polo non fossero stati intraprendenti. E se gli ex mezzadri veneti non si fossero scoperti artigiani prima e imprenditori poi, come si sarebbero potuto realizzare quello che chiamano il modello industriale dei distretti del Nord-Est?
Questo per dire che il signor Giorgio Pili, venditore per conto di un’aziendina di vini dell’area soavese, è fra gl’intraprendenti. Ché in ottobre mi scrisse: «Mi permetto di consigliarle un occhiata ai Vini d'Italia de L'Espresso a pag. 277 e pag. 302». E ce ne vuol di spirito per scrivere a uno che di guide ne fa un’altra (sono tra quelli che tastano vini per il Gambero & Slow Food) di leggersi il manuale dell’Espresso.
Ora, alle pagine citate della guida in questione si trovano: a) la scheda dell’azienda I Stefanini, a Monteforte d’Alpone e b) l’elenco dei «migliori acquisti» da farsi del Veneto, col numero uno affidato al Soave Classico Superiore Monte di Fice 2004 dei predetti Stefanini.
Gli è anche che di questa new entry del mondo soavista avevo già dato segnalazione in occasione del Soave Versus, citando il vino basic, il Soave Il Selese, dicendo che se il buon giorno si vede dal mattino...
In più, gli è pure che pochi giorni prima della mail di cui ho detto ero stato in visita alla cantina. E adesso vi racconto com’è andata. Ché ne vale la pena: quest’è una delle piccole realtà che saranno grandi, ci si potrebbe scommettere. Ovvio, se non si montano la testa, se tengono i piedi ben piantati per terra, se fan le cose per bene. Se, se, se, ma l’impressione è che ci siano la testa e il cuore e che ci si possa contare.
Ordunque, I Stefanini - coll’articolo alla veneta, ché i veneti hanno articoli strani (vedi «la» sale e non «il» sale) e in italiano sarebbe invece giusto «gli» Stefanini, e questa scelta vernacola la dice lunga, spero, sul radicamento alla terra natìa - I Stefanini, dicevo, sono in realtà a Costalunga, ch’è frazione del comune di Monteforte d’Alpone, zona classica del Soave. Zona che sembra, nell’aspetto, quasi un pezzo della Sicilia etnea, con quelle pietre laviche nere come il babào utilizzate per farci muriccioli e case, e in mezzo ci crescono perfino i capperi. Qui ci stanno i Tessari, e siccome, come spesso accade, le famiglie collo stesso nome son tante e tante, ci si conosce per soprannome, e dunque quest’è il ramo dei Tessari ch’erano e son chiamati I Stefanini, probabilmente - presumo - per via di qualche antenato che aveva nome Stefano o va a sapere perché. E insomma, hanno deciso di metterlo in etichetta questo loro appelativo quando, viticoltori da sempre, han preso coraggio e, abbandonando la cantina sociale cui conferivano l’uve, han fatto mutuo e mess’in piedi un’azienda tutta loro. Lavorandoci tutti, nella cantina nuova: tutta la famiglia, intendo. Prim’annata il 2003.
Han fatto in tutto, nel 2005 (come sia andata la vendemmia del 2006 e quali siano le previsioni non lo so) trentamila bottiglie in tutto, il che dà l’idea che le dimensioni son piccine, anche se le potenzialità ci sono. Hanno infatti, a Costalunga, una ventina d’ettari di vigna. E solo tini in acciaio: niente, ma niente legno. Bravi.
Dei vent’ettari, una parte è sui pendii d’una collina che qui chiamano il Monte Tenda. Un crû, direbbero i francesi. Era, quel monte, in ampia parte loro, dei Tessari. Poi, man mano, cogli anni, se n’è venduto un pezzo a questo e un pezzo a quello, ché non era terra granché produttiva, difficile da coltivare. Erano i tempi in cui la quantità era la ratio prima della campagna. E insomma, ne son rimasti appena due ettari, e in certe annate siccitose non ci si andava neppure a provare a tirar giù l’uva, ché in vigna n’era rimasta così poca. Giacché, anni fa, questi Tessari del ramo Stefanini decisero che anche quel paio d’ettari tanto valeva darli in gestione agli operai, che ne tirassero fuori quel poco di vino che ne veniva, giusto per il loro consumo familiare.
Ora, i lavoranti in questione erano detti l’uno il Toni e l’altro il Fice, e gli appezzamenti dati in gestione cominciarono a esser chiamati il Monte del Toni e il Monte del Fice. Ed oggi che I Stefanini sono azienda, han capito che quei due lacerti di vigna sono dei gioiellini da valorizzare. E dunque ne han tratto due vini separati. Due Soave di rango. Della categoria Superiore, quella a docg, a denominazione controllata e garantita. Il Soave Classico Superiore Monte de Toni e il Soave Classico Superiore Monte di Fice, appunto. Diversi, i due vini. Diversissimi tra loro. Tanto diversi che – son sicuro – trovano e troveranno entrambi i loro estimatori, pronti a dividersi in fazioni opposte.
In più, oltre ai due Superiori, fanno il Selese, il Soave basic, di cui ho detto. E un Recioto, in acciaio, alla buon’ora. E qui di sotto vi dico quel che penso dei vini. E, attenti, d’entrambi i Superiori racconto due annate, ché credo ne valga la pena. E se avete pazienza, alla fine vi dico anche quanto costano ‘sti vini, e anche questa è una sorpresa interessante.
Soave Il Selese 2005
L’avevo provato a luglio. E avevo scritto che «c’è tensione e mineralità e fiore». Confermo. Aggiungo: naso tra il vegetale e il floreale, ancorché un po’ compresso. Bocca davvero tesa e nervosa, e un po’ rustica, anche. Ribadisco il giudizio d’allora: buono, davvero.
Due faccini contenti :-) :-)
Soave Classico Superiore Monte de Toni 2004
Santo cielo, che scontrosità! Ha, questo Toni del 2004, naso minerale, quasi «cattivo» nella sue espressioni basaltiche. Ed anch’in bocca non scherza, teso come una corda di violino, affilato come un rasoio. Carattere inaudito. Secco, lungo, fresco. Se vi piace un bianco che insieme al frutto e quasi sopra ad esso esprima grafite e pietra focaia, avete trovato risposta. A me piace, sissignori.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Superiore Monte de Toni 2005
Ma come: è il fratello dell’altro e gioca invece su tutt’altri registri? Qui c’è frutto e frutto e frutto. Sembra, quasi, ruffianamente fruttatino, ed è succoso, e gioioso. Dicono, i Tessari: «Era così anche l’altro, e poi, dopo l’estate, è diventato quel che è diventato. È sempre andata così coi bianchi di quel pezzo di monte». E già però s’avverte, sotto il frutto, quella vena quasi balsamica, e un po’ di nota minerale appena appena accennata. Buono oggi, cosa diventerà domani? Il giudizio lo stilo dunque sull’oggi, riservandomi futura rettifica. In crescendo, ritengo.
Per ora, due lieti faccini :-) :-)
Soave Classico Superiore Monte di Fice 2004
Ha, in effetti, bel bouquet fruttato e già memorie minerali che un po’ richiamano quelle del Toni, senza però assumerne la scorbutica possanza. E cenni poi floreali. In bocca è mela, croccante. Agile. M’aspetterei però un finale più asciutto, e invece chiude morbido, ed è un po’ un peccato, ché attendevo un’uscita più vibrante. Ed è propri questa una delle caratteristiche che cerco in un Soave: l’uscita asciutta, che metta a nudo il frutto. Ma son pareri miei, ch’è comunque signor vino, ‘sto Fice.
Un faccino gaudente e quasi due :-)
Soave Classico Superiore Monte di Fice 2005
È davvero il fratello del 2004. Con una marcia in più sulla vena minerale, ché di già ben sottesa, e quest’è un bene, ché mi compensa quel frutto così morbido, concentratissimo. Confermo: buono, ma fra i due crû continuo a preferire il Toni. Anche se so che questa morbidezza troverà molti e molti adoratori di certo.
Ride il faccino e son quasi due :-)
Recioto di Soave Togo Rosso 2004
Ora, non riesco a capacitarmi di come si possa chiamar «rosso» un Recioto bianco. Capisco: è il nome del terreno, quel tufo rossastro che qui chiamano proprio togo rosso. Ma insomma, permettetemi di rimanere perplesso, sull’intitolazione. Perplessità non ne ho invece sul vino, ch’è Recioto fatto in acciaio. Ha fragranza floreale e finezza. E in bocca la freschezza tiene in bell’equilibrio lo zucchero. Più che un passito, sembra quasi una vendemmia tardiva. E ha sentori di nocciola e noce. Finisce quasi tannico ed ha un che di rocciosa presenza: non è un caso che venga dall’uve della zona mediana del monte, vicino alle vigne che furono del Toni.
Due lieti faccini :-) :-)
Ora, avevo detto dei prezzi. Tenetevi: 2.70 per il Selese, 3.70 per il Toni, 4.50 per il Fice, 5.00 per il Recioto. Da comprare a casse.
Ah, non badate alle etichette: quelle non sono gran cosa (anzi!), ma pazienza. Conta di più il contenuto che il contenitore. E teneteli a mente, questi Stefanini da Costalunga.

martedì 5 dicembre 2006

Mi piace il panettone all’amarena (e che dire del Moscato d’Autunno?)

Angelo Peretti
Consigli per gli acquisti. Gran bell’eufemismo hanno inventato quelli della tv per sostituire la parola pubblicità. Chi è l’inventore? Chissà, forse Costanzo. Boh.
Adesso, sì, lo capisco: quando leggerete del panettone, qui di sotto, vi potrà sembrare d’essere alle prese con una specie di spot pubblicitario. E so anche che non dovrei fare ‘sta premessa, perché «excusatio non petita, accusatio manifesta». Ma che ci posso fare se son goloso? Allora prendetelo per quel che è, quest’«editoriale»: la confessione d’un golosastro.
Eppoi, ammettiamolo, in giro c’è l’aria del Natale che arriva. Quella più commercialotta, magari, con le botteghe che si riempiono di pupazzi e i supermercati di dolciumi. I babbinatale di pezza sono lì ad arrampicarsi sulle facciate delle case, ché questa sembra la decorazione imperante. E le città sono vestite di lucette, alla faccia della Finanziaria. Dunque, I wish you a Merry Xmas.
Ora, a fare i giornali - anche se sono on line come InternetGourmet - c’è un vantaggio: Babbo Natale arriva talvolta sotto forma di corriere. Magari portandoti un grosso scatolone d’una ditta dolciaria. Tu lo apri, provi i prodotti, e… caspita che roba buona: panettoni. Panettoni tradizionali, panettoni innovativi. Comunque gran panettoni.
La pasticceria che m’ha omaggiato en primeur rispetto ai giorni festaioli la conoscevo di già: Loison, da Costabissara, Vicenza. Pasticceri dal 1938. Qualcosa fra le loro produzioni dolciarie l’avevo assaggiato gli anni passati. Sapevo che lavorano bene, anche con numeri che non son più esattamente quelli del forno di paese. Ma il panettone alle amarene non l’avevo mai provato. Anzi, non sapevo neanche ch’esistesse. Adesso che l’ho finito, un po’ di rimpianto mi viene, e siccome m’è piaciuto, ve lo racconto. Ché chissà che non l’incrociate anche voi.
Dunque: il panettone all’amarena. Lo fanno, i Loison, da tre anni. Per un tardo cedimento - dicono - alle richieste d’alcuni clienti, dopo un paio di test su un ristretto team d’amici e di fans. In sintesi: nell’impasto, che è fatto con roba buona (tanto per dire: vaniglia vera, mica vaniglina chimica), c’è dell’uvetta, per giusto rispetto alla tradizione, e insieme a quella ci sono le amarene intiere, denocciolate, a sostituire i canditi. Ne vien fuori un panettone insieme polposo e delicato. E pazienza per le calorie.
A proposito: dicevo della vaniglia. Usano, i Loison, la Mananara del Madagascar, presidio di Slow Food, ed è una bella cosa che le aziende comincino per davvero a veicolare queste biodiversità che il movimento della chiocciolina ha messo sotto i riflettori. Come in Sicilia, nel Palermitano, dove nasce il mandarino tardivo di Ciaculli, altro presidio Slow, altro prodotto scelto dai Loison. E forse, ecco, se dovessi ritoccare qualcosa, metterei mano a una ricalibratura proprio del panettone al mandarino - altro prodotto del medesimo forno -, in cui l’agrume mi pare un po’ coprente sull’impasto. Insomma, condivido il parere dubbiosetto espresso dal Gambero Rosso nel numero ch’è in edicola ora, in dicembre: «Certo, con le materie prime utilizzate speravamo in un risultato finale di maggior rilievo al palato…» Ma ammette anche, il Gambero, che qui c’è un buon rapporto qualità-prezzo. E dunque sia.
Eppoi, ho detto, c’è il panettone all’amarena, che rimangerei subito, di botta. Ed è di nuovo opulente il panettone classico, il 1476, il top di famiglia.
In più, le confezioni, fatte a mano tutte, son molto belle, e quasi (quasi, suvvia) ti dispiace un po’ a scartarle, a togliere i fiocchetti, a rompere le belle carte. Così si fa. E nelle linee di punta aggiungono un fascicoletto che ti guida all’assaggio e t’invita a compilare la scheda tecnica di degustazione, con tanto di spazio per le sensazioni visive, tattili, olfattive e gustative. Direte: è marketing. Può essere, ma per esempio io non ci avevo mai posto attenzione prima a tutta una serie di parametri come il colore esterno, quello interno, la struttura, la ricchezza, la freschezza, la reazione al taglio, la consistenza, la morbidezza, la fragranza, la complessità, la burrosità, la sensazione del lievito naturale, quella della frutta candita, la persistenza aromatica, l’intensità del gusto, la sua complessità, la dolcezza, il sentore d’uova, di burro, di cedro, ‘d’arancio, d’uvetta, il retrogusto, la piacevolezza complessiva, la soddisfazione personale, la tentazione, l’eleganza. Tutti elementi cui dare un voto: non sufficiente, normale, buono, ottimo, eccellente, secondo la scala di valori individuata. Sarà anche marketing, ma così si fa cultura del cibo.
Buon Natale, gente dei dolci: leverò un calice anche per voi. A proposito: che berci insieme coi panettoni, con che brindare?
Per quello all’amarena, direi nulla, ché è intensissimo e un vino non ce lo vedo insieme. Semmai, dopo, un po’ dopo d’averlo assaporato, andrei a cercar di riprendere il gusto d’amarena in un passito o in un fortificato: un bicchiere di Recioto di Valpolicella ad esempio (magari il tribicchierato, avvolgente Recioto di Bussola) o un Rivesaltes rouge (e qui l’opzione è per quello che fa Chapoutier, annata ’98).
Per il panetùn classico, la scelta è univoca: Moscato. L’effervescenza aromatica d’un Moscato. Quello, straordinariamente buono, di Paolo Saracco: il Moscato d’Autunno, doc Piemonte, annata 2005.
L’ho bevuto a Milano, in un wine tasting, il Moscato d’Autunno. Dico: bevuto. Di solito, in queste occasioni, annuso, assaggio e sputo, ché non puoi mica mandar giù tutto, soprattutto se i vini in prova son decine e decine. Ma questo no, l’ho proprio bevuto. Come facevo a sputarlo, da buono che è? E confesso che son passato due volte al tavolo, per berlo di nuovo. Che complessità d’agrumi e albicocce surmature e pesche gialle in piena estate e fiori primaverili e miele e perfino la speziatura fine di certi dolcetti tedeschi. Che equilibrio, con quella freschezza che dà grande slancio e rende onore alla dolcezza. Ed ha lunga persistenza e gratificante beva. Cercatelo ‘sto vino, suvvia, e godetelo col panettone.
E buon Natale in anticipo anche a voi che leggete. Alla fin fine, manca poco alla festa del Bimbo divino.