sabato 7 agosto 2004

Se i luoghi hanno memoria

Angelo Peretti
Torno sul tema del terroir dopo aver letto un libro che lascia il segno: è "L'anima dei luoghi" (Rizzoli), che raccoglie un intervento di James Hillmann e un dialogo-intervista di Carlo Truppi con questo filosofo e psicanalista contemporaneo.
Il testo non c'entra niente col vino. Anzi. Muove le mosse da temi d'urbanistica, d'architettura. In realtà interpreta il rapporto fra uomini e terre. Illustra in maniera solare il "genius loci", la genialità dei luoghi e degli uomini che con essi sanno dialogare.
Dice Hillmann: "I luoghi hanno ricordi". Ed è una folgorazione. Aggiunge: "Ripensiamo a ciò che la psicologia ci ripete da tanti anni: la memoria è all'interno della testa. Il mondo dei ricordi sarebbe interamente nelle nostre teste. È un'idea incredibilmente strampalata che ci impedisce di accorgerci che la memoria è inscritta nel mondo".
Eccola qui la chiave di volta: le cose ricordano. L'ho sentito dire qualche anno fa a Luigi Veronelli: la terra ricorda perfino il sangue di chi ci ha combattuto, e il vino che si ricava da quelle vigne non può che trasmettere, a suo modo, quei ricordi.
Il concetto vero di terroir muove da qui: non è la tecnica a fare il vero vino, ma è la memoria inscritta nelle cose. L'uomo quella memoria la deve ascoltare, leggere, interpretare, trasfondere nel proprio lavoro. Dialogando con la terra, cercandone ispirazione attraverso la fantasia, l'immaginazione, il genio. Scrive ancora il filosofo: "L'intima qualità del luogo è dovuta sia alla percezione del clima e della geografia, sia all'immaginazione: per questo è necessario stare a lungo in un luogo perché l'immaginazione possa rispondere". La tecnologia fine a se stessa potrà dare risultati appunto tecnicamente perfetti, ma muti, senz'anima. Il problema è un altro. È interpretare il territorio. "La questione - scrive Hillman - è cosa vuole il luogo ora. Come lo interpretiamo. Può questa interiorità di un luogo essere la legge del luogo? La rappresentano di più gli abitanti, i daimones, lo spirito del luogo. Può essere il silenzio la legge del luogo, piuttosto che la voce. La voce può essere il silenzio". Quello stesso silenzio che segna le ore del paziente operare del vignaiolo sulla "sua" terra. Per distillarne l'anima in una bottiglia.

giovedì 22 luglio 2004

Autoctono, autoctono

Angelo Peretti
Adesso c'è la moda dell'autoctono. Ne parlano tutti. Dicono sia la strada della riscossa del vino italiano. Magari erano gli stessi che sin qui predicavano il verbo della vaniglia della barrique e del frutto concentrato del Cabernet.
Sarà, ma alla moda dell'autoctono non ci credo.
Intanto, capiamoci. Si dovrebbe esser tutti d'accordo sul fatto che quando si dice "autoctono" si tratti di vini nati da varietà di vigne storicamente caratteristiche di un determinato territorio: Nero d'Avola in Sicilia, Corvina in Valpolicella, Nebbiolo nelle Langhe. Ma poi salta fuori che il vocabolo è astruso. In ottobre a Vinum Loci, fiera di Gorizia, venne presentata una ricerca dagli esiti preoccupanti. Il 68% degli oltre mille intervistati in Italia non conosceva il significato del termine autoctono. Il 44% dichiarava che significa genuino (ed è già meglio di niente). Ma il 36% riconosceva come autoctono il Tavernello (quello venduto in brik) e il 30% non ne attribuiva la qualifica al Prosecco (30%).
Poi c'è il problema vero: basta il vitigno, oppure è il rapporto vigna-territorio che rende davvero autoctono il vino? O è, come credo, qualcosa di più ancora: vitigno, territorio, suolo, clima, cultura, storia?
Sia chiaro: ho difeso e difenderò le biodiversità, le tipicità. Credo d'aver dato qualcosina alla rinascita almeno d'un vitigno, il foja tonda della Valdadige. Ma se l'autoctono (vitigno, vino) serve solo a sostenere le esigenze commerciali del momento, non ci siamo. Così come non ci siamo con le assolutizzazioni modaiole: prima o barrique o morte, o Cabernet o nulla, adesso largo all'autoctono e bando al vitigno internazionale. Come dire che il Merlot impiantato e coltivato da decenni e decenni nell'Alto Mantovano ha qualcosa a che vedere con quello di Bordeaux o di Napa Valley. Il clima, il suolo, l'uomo, il fluire del tempo, modificano ogni cosa. Anche il vitigno.
Se il vino lo deve davvero fare il terroir, come predicano tutti e pochi invece fanno, il vitigno è sì importante, ma mai da solo, bensì in correlazione con tutti gli altri elementi di quello specifico terroir, un insieme di clima, suolo, vigna, lavoro, saperi, idee, umane vicende.
Il terroir, poi, se davvero è l'insieme di elementi in stretta e vitale correlazione, rifiuterà il vitigno cattivo come accoglierà quello che meglio si adatta, che sia autoctono o no. Rifiuterà le marmellate del Cabernet quando nulla avranno a che vedere con quello specifico contesto, l'accoglierà bonariamente se vi si saprà adattare con discrezione, imbevendosi di sapori, di umori, di odori di quel clima, quel suolo, quelle arie.
L'esempio? La Francia dello Chateauneuf du Pape. Il disciplinare è estensivo: per fare il rosso sono ammessi ben tredici vitigni. Eppure, cambia l'uvaggio, cambiano le tipologie di vitigno, ma il vino continua ad essere riconoscibile, a raccontare la propria origine. In bottiglia non c'è il vitigno, c'è Chateauneuf, con le sue pietre, il suo cielo, la sua gente. Ecco il vino che mi piace: quello che mette in bottiglia un po' della sua terra.
E il vitigno autoctono, dunque? Se il vino deve parlare del proprio terroir, come volete non prevalga quella vigna che in quel particolare contesto ambientale s'è andata ambientando per secoli, superando estati torride, inverni gelidi, venti insidiosi, grandinate furibonde, attacchi di parassiti, umani ripensamenti? Se il vino racconta la propria terra, a farsi trama, tessuto della narrazione sarà l'autoctono. Fuori dalle effimere tentazioni delle mode.

martedì 11 maggio 2004

Ciao, Gianantonio

Angelo Peretti
E così se n'è andato anche Gianantonio Martinelli. Uomo di legge, uomo del vino. Soprattutto uomo di buon senso. Uomo del Soave, del quale ha guidato la rinascita prima e ha gestito poi i nuovi trionfi. Ma il suo cuore non ce l'ha fatta, in questo inizio di maggio.
Quando lo fecero presidente del consorzio, nel dicembre dell'84, non è che il bianco soavese brillasse di gran luce. Era vino d'antico ma decaduto lignaggio. Poi, pian piano, con pazienza cocciuta, la ripresa e il successo: l'avvocato sempre lì, sul ponte di comando, ma con discrezione. Così oggi accanto allo storico blasone del Nino Pieropan, altri soavisti celebrati sono star del mondo enoico: i Gini, i Pra, le sorelle Tessari di Suavia, giusto per dirne qualcuno (ma anche Anselmi, che pure ha abbandonato la denominazione).
D'accordo, le celebrazioni postume lasciano l'amaro in bocca. Ma una parola di saluto a Gianantonio gliela si deve. Magari informalmente ricordandone il lato meno noto, quello del poeta d'occasione. Pronto a tirar fuori il suo bravo foglio da declamare. Per carità, mica da lasciare il segno nella storia della poesia scaligera. Solo ricordi messi in sonetto, "buttati giù rapidamente, come sotto dettatura", per sua stessa ammissione. Simpatici, però. Capaci di destare il sorriso, che è poi il viatico per superare pastoie burocratiche e beghette da sagrestia. Prendete il ritratto di Olinto Gini, dicembre del '99: "No gh'è gnete lì de finto / come vole 'l bravo Olinto, / ch'el te ofre vin e pan / portà su co le so man / grande come on tamburelo, / tuto messo in on sestèlo / col saór del Salvarenza / che l'è na... concupiscenza". Nel novembre del 2000 ecco Bruno Sartori (Roccolo Grassi, per capirci, a Mezzane): il figlio Marco stava spiccando il volo verso l'olimpo vitivinicolo: "Ma mi so che da Sartori / tuti i vini i è dotori / e on Recioto eccessionale / bianco vin da Quirinale". A maggio del 2001 il "prof. Coffele", in centro a Soave: "El so vin l'è come l'alba / tra l'azuro e 'l pajarin / spalancà su na gran porta / che la varda verso 'l ciel". Rime semplici, vedete. Di quella semplicità che sembra non appartenere più a questi nostri giorni votati al business, alla competizione globale, all'apparire a tutti i costi. Era la marcia in più di Gianantonio Martinelli, un amico. Non è retorico dire che mi mancherà.

venerdì 30 aprile 2004

Se l'Amarone lo fanno in Australia

Angelo Peretti
Premesso che comunque è e resta un pasticciaccio (termine grazioso, per non usarne altri meno, molto meno politically correct). Ripremesso che comunque l'ho firmata anch'io la petizione valpolicellese che invita le autorità europee a far marcia indietro (firma del resto simbolica: figurarsi cosa gliene frega ai legulei di Bruxelles). Ribadito, sottolineato, rimarcato tutto questo, chiedo: ma siamo proprio sicuri che 'sta storia delle denominazioni italiane usabili all'estero è la causa vera della crisi del vino italiano?
Mi riferisco alla decisione con cui l'Unione europea ha modificato di recente un proprio regolamento, liberando di fatto l'utilizzo di alcune "denominazioni storiche" dei nostri vini. Insomma, teoricamente, in Sud Africa o in Nuova Zelanda potranno scrivere in etichetta Amarone, Recioto, Vin Santo, Torcolato, Brunello e alcune altre dizioni in uso in Italia. Un'assurdità.
Ci sono, è vero, delle limitazioni per quest'utilizzo (per esempio il fatto che quel certo vino con quel certo nome in quella certa nazione lo si faccia da un bel po' di anni), ma Santa Burocrazia troverà modo - c'è da star sicuri - di fare il miracolo, consentendo di aggirarle.
Parlare di scandalo è dunque giusto. Ma da qui ad affermare - come ho sentito fra gli stand di Vinitaly - che questa sarebbe la fonte delle attuali difficoltà di mercato, be', ce ne vuole. Non foss'altro perché il caso è esploso solo adesso e comunque farà vedere i propri (eventuali) effetti solo fra qualche tempo.
E poi capiamoci: un conto è che su una bottiglia ci sia scritto Amarone (magari made in Chile) e un altro che l'indicazione sia Amarone della Valpolicella. Una cosa è il Recioto di Soave, un'altra il Recioto (indiano? argentino? messicano?) e basta. Perché quelle originali mica sono bottigliette da quattro soldi: uno ci pensa prima di comprare un succedaneo nato chissà dove. Nessuno, ma proprio nessuno può essere seriamente convinto di acquistare una borsa di Prada dall'extracomunitario che stende per strada le sue cianfrusaglie. Magari la borsa non è neppure fatta così male, ma la qualità è tangibilmente differente.
Ecco: per il vino è la stessa cosa. Magari l'ipotetico Amarone sudamericano potrà anche non esser vino disprezzabile, ma mai e poi mai potrà sostituirsi al vero Amarone della Valpolicella. A meno che...
A meno che non ci si voglia far male con le proprie mani, producendo a tutto spiano anche nelle annate meno propizie, mettendo sul mercato sempre più bottiglie, pensando più alla quantità che alla qualità, concentrandosi più sul conto in banca che sul consumatore.
Questo sì che sarebbe fare il gioco dei taroccatori: cedere sul fronte della qualità, riducendo a poco o nulla il divario fra i vini d'antico lignaggio e quelli d'imitazione. Se si disperde la memoria dei luoghi d'origine, se si smarrisce il filo della storia d'un vitigno costruita su un preciso territorio da generazioni di vignaioli, se si cerca sempre e solo di seguire le mode e il mercato, allora la differenza percepita dal consumatore scende vicino allo zero. Allora a far da spartiacque resta solo il prezzo, e a parità di qualità, vince il più basso. Che non è (ed oggettivamente non può essere) quello della bottiglia italiana.
Sui prezzi, poi, ci sarebbe da discutere a lungo. Lo farò magari un'altra volta. Intanto, solo una riflessione: sicuri che era giusta la politica dei continui aumenti di listino? sicuri che c'è davvero correlazione fra costo e valore intrinseco del prodotto?
L'impressione è che il mercato del vino almeno in parte fosse (e ancora sia) drogato: una bolla speculativa come quella che avvolse pochi anni fa i titoli della new economy. La bolla fece boom, e c'è chi ancora si lecca le ferite. Dice la saggezza contadina delle mie parti che "a usèl 'ngórdo che crèpa 'l gòso", all'uccello ingordo gli scoppia la gola.
Preoccuparsi per le insulsaggini degli azzeccagarbugli europei è giusto e doveroso, ma altrettanto salutare è ripassare i proverbi dei propri vecchi.

giovedì 15 aprile 2004

Parlando di Lugana e Groppello

Angelo Peretti
Ma i vini del Garda potranno mai essere davvero "grandi"?
Gli organizzatori d'un recente convegno svoltosi a Moniga del Garda, sulla sponda bresciana del benacense laco, presso l'enoteca Garda&Vino per il venticinquennale di Civielle (l'acronimo sta per Cantine della Valtenesi e della Lugana) sembrano non avere dubbi, dato che come titolo hanno scelto questo: "I grandi vini del Garda". E visto il contesto, per Garda s'intende quello di riva lombarda. Epperò, un po' meno trionfalisticamente, io preferisco metterci il punto di domanda, come in effetti ho fatto in apertura.

Detto questo, chiarisco che purtroppo all'incontro non ci sono potuto andare. Ma ugualmente vorrei dire la mia nel dibattito che s'è aperto, dopo aver letto il "verbale" del meeting e l'ampio articolo che Riccardo Modesti - che non ho la fortuna di conoscere - ci ha dedicato su WineReport (http://www.winereport.com/).
Soprattutto su due passaggi vorrei soffermarmi, e non me ne abbiamo a male gli altri relatori (tra cui Mauro Remondino del Corriere della Sera, l'amico Costantino Gabardi, onnipresente affabulatore in materia enoica e gli appassionati presidenti dei consorzi del Lugana e del Garda Classico, Paolo Fabiani e Paolo Turina).
Primo flash: quello di Sante Bonomo, presidente di Civielle. Ha ipotizzato che la frammentazione di tipologie di vino e di numero d'aziende dell'area gardesana possa costituire un elemento di debolezza, soprattutto in termini di marketing.
Secondo: Mattia Vezzola, grande wine maker sul Garda (Costaripa) e in Franciacorta (Bellavista). Ha centrato - mi pare - il nodo del problema, ricordando concetti che possono sembrare elementari, ma che così evidentemente non sono se c'è bisogno di ribadirli in un pubblico consesso. E cioè che sul Garda ci sono due aree potenzialmente importanti, completamente diverse per terreno, vitigni e microclima: la Valtenesi e la Lugana. Nella prima è signore il Groppello (inteso come vitigno), nell'altra il Lugana (leggi Trebbiano). Il problema è ritrovare l'identità di queste due aree: così sarà possibile comunicarla. E dunque occorre tornare a studiare il territorio.
Ora tocca a me.
La frammentazione produttiva gardesana è davvero un problema. Non tanto per la dimensione delle aziende, che anzi può e deve costituire un plusvalore (un esempio? provate ad assaggiare che Lugana comincia a venir fuori dai due ettari scarsi di Cascina Maddalena). Il dramma è che qui non ci si capisce più, tante sono le doc in circolazione. Il Lugana c'è in quattro tipologie (il base, il Superiore, lo spumante Charmat e quello metodo classico). Il Garda Classico ha il Groppello, il Chiaretto, il Rosso e il Bianco. La doc Garda ha decine di sottodenominazioni. Qui e là resiste qualche sostenitore della vecchia doc Riviera del Garda Bresciano. C'è anche il san Martino della Battaglia, dimenticato da Dio e dagli uomini, col bianco e il liquoroso. Insomma: una Babele, un indefinibile marasma che non aiuta certo a mettere in luce l'effettiva esistenza d'una piena sintonia uomo-vitigno-territorio: s'è spinto verso doc ipertrofiche, nel tentativo di non scontentare nessuno e finendo per scontentare tutti.
E dunque che fare per ridare visibilità alla zona, che pure - e lo vado predicando da anni - di potenzialità ne ha davvero?
Secondo me, bisogna avere il coraggio di scegliere. Di investire su un numero inferiore di vini. Di valorizzare i due vitigni davvero importanti: Trebbiano di Lugana e Groppello della Valtenesi, appunto.
Col primo, ci si deve fare "il" Lugana. Uno solo, mica quattro. Magari docg. A costo di eliminare le bollicine, che tanto, in termini di profilo qualitativo, difficilmente potranno andare oltre decorose espressioni da aperitivo. Perché il Lugana deve finalmente mostrarsi per quello che davvero può essere: un grande bianco, capace d'esprimersi bene da giovane, ma in grado anche di tirar fuori muscoli, polpa e velluto col trascorrere degli anni. E per far questo, niente legni invadenti (la botte, grande o piccola che sia, la si usi per quello che è: un contenitore, mica un insaporitore artificioso), basta stucchevoli residui di zuccheri, più attenzione all'equilibrio complessivo.
Col Groppello ci si deve fare il Rosso della Valtenesi. Che l'attuale Garda Classico Rosso debba per forza esser fatto con il quartetto di Groppello, Marzemino, Barbera e Sangiovese ha poco senso. Soprattutto perché non è credibile che tutt'e quattro le uve diano sempre e comunque il meglio di sé in qualunque angolo di Riviera e in qualsiasi stagione. Groppello almeno all'80% e poi qualunque altro vitigno a bacca rossa venga coltivato in zona: questa è la formula che mi sento di suggerire. Non s'abbia timore a sperimentare sul Groppello. Non s'abbia titubanza di fronte all'appassimento - che vorrei però breve, leggero. Non si scarti il rigoverno con le uve fresche. Sono pratiche usate da decenni. Ho avuto la fortuna di stappare pochi mesi orsono un Groppello da uve appassite che aveva passato da lungi i trent'anni in bottiglia: sontuosamente bevibile (era purtroppo la penultima bottiglia conservata da Battista Comincioli). E per l'eventuale parte restante delle uve, ci si metta quel che matura bene sulla riviera. Marzemino, Barbera, se si vuole. Ma se il qualcos'altro è - come in effetti davvero già ora è - il Rebo, Rebo sia, senza paure, complessi, tentennamenti. In riviera occidentale questa vigna trentina inventata da Rebo Rigotti all'Istituto di San Michele all'Adige sembra dare il meglio di sé: esaltiamola, allora. Chi avesse i dubbi, cerchi qualche bottiglia di Brunetto di Montecorno (oggi ce l'ha Avanzi), fatta sul cocuzzolo d'una collina affacciata su Desenzano: dopo dieci anni è rusticamente, quasi aggressivamente polposo.
Terzo vino sia il Chiaretto. Questo sì da un uvaggio o da una cuvée. Perché la leggerezza e l'eleganza ne siano padroni. Lo chiamano il vino di una notte, perché quest'è il tempo massimo in cui il mosto resta a contatto con le bucce. Ma è anche il vino di una stagione, perché ad agosto non ne trovate più neanche un litro. Lo si produca sfacciatamente esaltandone fruttuosità, florealità, asprigna vegetalità. Ricordando che un vino è "grande" davvero solo quando nella bottiglia stappata non ne resta neanche un goccio. Se è buono, lo si beve tutto, sorso dopo sorso.

lunedì 12 aprile 2004

Lunga vita all'Agnella

Angelo Peretti
Una cena di quelle che non avevo ricordi. L'ho fatta all'Agnella, trattoria di Valgatara, in parte alla strada che sale verso Marano, terra di Valpolicella. Andateci in tanti: posti così sono da tutelare meglio che il panda. Ultimi reperti delle osterie d'una volta. Di quando a mangiar fuori ci si andava per il battesimo e la cresima.
Mi ci ha portato Paolo Galvani, amico tipografo, a inizio aprile. Serata di poca gente, di partita (l'Inter che va a perdere in Francia). Sera da tuffo nel passato.
Sia detto forte e chiaro: il posto è brutto, il servizio fin troppo spartano. Il vino è meglio se te lo porti da casa (almeno quello capitato in tavola a me), i contorni sono da evitare. Ma il resto è da memoria viva. Ci torno: state certi.
Si entra e davanti c'è il bancone del bar: pochi liquori d'antan. Sulla destra, lo spaccio delle sigarette: le Celestine, soprattutto. Sulla sinistra la sala: dall'odore di fumo che ristagna, si direbbe che siano da poco finite le mescite di gòti e le partite a briscola. Il pavimento lo vorresti a casa tua: piastrelle di cemento colorato, anni Trenta-Quaranta. Di là, una salettina nuova, col marmo freddo in terra e affronti all'arte appesi alle pareti. Tovaglie bianche. Qui la cicca è vietata.
Luciano Castellani, sessantenne oste-cuoco-cameriere-patron, ti chiede cosa vuoi da mangiare. L'agnello, ovviamente: ci son venuto apposta. Qui lo si fa alla brace o in teglia. Scelgo la griglia. Intanto, l'antipasto: otto fette di salame contadino tagliate larghe un dito. Commoventi, con quel poco d'aglio che dà aroma senza farti puzzare il fiato. Poi le tagliatelle. Pasta fresca, grossa, rugosa, fatta apposta per trattenere un ragù che sa di domeniche in famiglia. Divorate. Finalmente l'agnello: da applauso. Più che costine, braciole. Larghe, tenere, succulenti. Dolce: una pastafrolla industriale (però più che accettabile), servita - vabbé - nella sua confezione di plastica.
Conto: 19 euro a testa, da pizzeria. Roba da stampare un bacio sulla fronte sudata del Luciano, che a star dietro ai fornelli l'ha imparato anni fa dalla mamma invalida.
L'augurio è che resista. Che l'Agnella abbia lunga, lunghissima vita.
Le coordinate. Trattoria Agnella, Località Agnella, Frazione Valgatara, Marano di Valpolicella. Telefono 045 7701794. Chiuso il mercoledì. Aperto dalle 8 del mattino fino a quando c'è gente. Coperti: trentacinque (prenotare se si va il fine settimana). Carte di credito: che cosa sono?

sabato 14 febbraio 2004

Si fa presto a dire terroir

Angelo Peretti
Si dice: il vino deve esprimere il proprio terroir. Vero, verissimo: siamo un po' tutti stufi di bottiglie identiche dalla Nuova Zelanda alla Francia, dalla Toscana al Cile, dal Sudafrica al Trentino. Ma bisogna intendersi su che cosa sia questo benedetto terroir.
Primo: il terroir non è il terreno. Il suolo, la sua composizione, è solo una delle componenti. Necessaria, ma non sufficiente. È vero che un certo profilo geologico incide sul vigneto e quindi poi sul vino. Ma questo non spiega perché in una medesima area nascano gioielli e anonime etichette. Secondo: il terroir non è il territorio, non solo. Certo, un Valpolicella è buono se ne esprime le arie, gli umori, la storia. Ma ancora non basta.
Terzo: il terroir non è nemmeno, come correbbe farci intendere una scuola di pensiero, la combinazione di suolo, clima e vitigno. Perché se si trattasse semplicemente del mix di questi ingredienti nulla ci salverebbe dall'omologazione.
C'è un elemento in più tra quelli che fanno il terroir d'un grande vino. È l'uomo, con la propria storia, il sapere acquisito con fatica, l'istinto e il sentimento. Perfino l'orgoglio: quello di fare un vino speciale con quel vitigno su quel terreno, mettendo in bottiglia l'anima della vigna, l'ambiente, il clima, la stagione.
Questo è il fondamento del terroir: l'umanesimo, non il tecnicismo razionalista. Questo fa davvero grande e personale un vino, lo rende unico ed irripetibile: l'uomo dentro il suo mondo, sulla sua terra, con la sua vigna.