giovedì 15 aprile 2004

Parlando di Lugana e Groppello

Angelo Peretti
Ma i vini del Garda potranno mai essere davvero "grandi"?
Gli organizzatori d'un recente convegno svoltosi a Moniga del Garda, sulla sponda bresciana del benacense laco, presso l'enoteca Garda&Vino per il venticinquennale di Civielle (l'acronimo sta per Cantine della Valtenesi e della Lugana) sembrano non avere dubbi, dato che come titolo hanno scelto questo: "I grandi vini del Garda". E visto il contesto, per Garda s'intende quello di riva lombarda. Epperò, un po' meno trionfalisticamente, io preferisco metterci il punto di domanda, come in effetti ho fatto in apertura.

Detto questo, chiarisco che purtroppo all'incontro non ci sono potuto andare. Ma ugualmente vorrei dire la mia nel dibattito che s'è aperto, dopo aver letto il "verbale" del meeting e l'ampio articolo che Riccardo Modesti - che non ho la fortuna di conoscere - ci ha dedicato su WineReport (http://www.winereport.com/).
Soprattutto su due passaggi vorrei soffermarmi, e non me ne abbiamo a male gli altri relatori (tra cui Mauro Remondino del Corriere della Sera, l'amico Costantino Gabardi, onnipresente affabulatore in materia enoica e gli appassionati presidenti dei consorzi del Lugana e del Garda Classico, Paolo Fabiani e Paolo Turina).
Primo flash: quello di Sante Bonomo, presidente di Civielle. Ha ipotizzato che la frammentazione di tipologie di vino e di numero d'aziende dell'area gardesana possa costituire un elemento di debolezza, soprattutto in termini di marketing.
Secondo: Mattia Vezzola, grande wine maker sul Garda (Costaripa) e in Franciacorta (Bellavista). Ha centrato - mi pare - il nodo del problema, ricordando concetti che possono sembrare elementari, ma che così evidentemente non sono se c'è bisogno di ribadirli in un pubblico consesso. E cioè che sul Garda ci sono due aree potenzialmente importanti, completamente diverse per terreno, vitigni e microclima: la Valtenesi e la Lugana. Nella prima è signore il Groppello (inteso come vitigno), nell'altra il Lugana (leggi Trebbiano). Il problema è ritrovare l'identità di queste due aree: così sarà possibile comunicarla. E dunque occorre tornare a studiare il territorio.
Ora tocca a me.
La frammentazione produttiva gardesana è davvero un problema. Non tanto per la dimensione delle aziende, che anzi può e deve costituire un plusvalore (un esempio? provate ad assaggiare che Lugana comincia a venir fuori dai due ettari scarsi di Cascina Maddalena). Il dramma è che qui non ci si capisce più, tante sono le doc in circolazione. Il Lugana c'è in quattro tipologie (il base, il Superiore, lo spumante Charmat e quello metodo classico). Il Garda Classico ha il Groppello, il Chiaretto, il Rosso e il Bianco. La doc Garda ha decine di sottodenominazioni. Qui e là resiste qualche sostenitore della vecchia doc Riviera del Garda Bresciano. C'è anche il san Martino della Battaglia, dimenticato da Dio e dagli uomini, col bianco e il liquoroso. Insomma: una Babele, un indefinibile marasma che non aiuta certo a mettere in luce l'effettiva esistenza d'una piena sintonia uomo-vitigno-territorio: s'è spinto verso doc ipertrofiche, nel tentativo di non scontentare nessuno e finendo per scontentare tutti.
E dunque che fare per ridare visibilità alla zona, che pure - e lo vado predicando da anni - di potenzialità ne ha davvero?
Secondo me, bisogna avere il coraggio di scegliere. Di investire su un numero inferiore di vini. Di valorizzare i due vitigni davvero importanti: Trebbiano di Lugana e Groppello della Valtenesi, appunto.
Col primo, ci si deve fare "il" Lugana. Uno solo, mica quattro. Magari docg. A costo di eliminare le bollicine, che tanto, in termini di profilo qualitativo, difficilmente potranno andare oltre decorose espressioni da aperitivo. Perché il Lugana deve finalmente mostrarsi per quello che davvero può essere: un grande bianco, capace d'esprimersi bene da giovane, ma in grado anche di tirar fuori muscoli, polpa e velluto col trascorrere degli anni. E per far questo, niente legni invadenti (la botte, grande o piccola che sia, la si usi per quello che è: un contenitore, mica un insaporitore artificioso), basta stucchevoli residui di zuccheri, più attenzione all'equilibrio complessivo.
Col Groppello ci si deve fare il Rosso della Valtenesi. Che l'attuale Garda Classico Rosso debba per forza esser fatto con il quartetto di Groppello, Marzemino, Barbera e Sangiovese ha poco senso. Soprattutto perché non è credibile che tutt'e quattro le uve diano sempre e comunque il meglio di sé in qualunque angolo di Riviera e in qualsiasi stagione. Groppello almeno all'80% e poi qualunque altro vitigno a bacca rossa venga coltivato in zona: questa è la formula che mi sento di suggerire. Non s'abbia timore a sperimentare sul Groppello. Non s'abbia titubanza di fronte all'appassimento - che vorrei però breve, leggero. Non si scarti il rigoverno con le uve fresche. Sono pratiche usate da decenni. Ho avuto la fortuna di stappare pochi mesi orsono un Groppello da uve appassite che aveva passato da lungi i trent'anni in bottiglia: sontuosamente bevibile (era purtroppo la penultima bottiglia conservata da Battista Comincioli). E per l'eventuale parte restante delle uve, ci si metta quel che matura bene sulla riviera. Marzemino, Barbera, se si vuole. Ma se il qualcos'altro è - come in effetti davvero già ora è - il Rebo, Rebo sia, senza paure, complessi, tentennamenti. In riviera occidentale questa vigna trentina inventata da Rebo Rigotti all'Istituto di San Michele all'Adige sembra dare il meglio di sé: esaltiamola, allora. Chi avesse i dubbi, cerchi qualche bottiglia di Brunetto di Montecorno (oggi ce l'ha Avanzi), fatta sul cocuzzolo d'una collina affacciata su Desenzano: dopo dieci anni è rusticamente, quasi aggressivamente polposo.
Terzo vino sia il Chiaretto. Questo sì da un uvaggio o da una cuvée. Perché la leggerezza e l'eleganza ne siano padroni. Lo chiamano il vino di una notte, perché quest'è il tempo massimo in cui il mosto resta a contatto con le bucce. Ma è anche il vino di una stagione, perché ad agosto non ne trovate più neanche un litro. Lo si produca sfacciatamente esaltandone fruttuosità, florealità, asprigna vegetalità. Ricordando che un vino è "grande" davvero solo quando nella bottiglia stappata non ne resta neanche un goccio. Se è buono, lo si beve tutto, sorso dopo sorso.

Nessun commento:

Posta un commento