venerdì 29 settembre 2006

I vini d’Arturo: del Pressoni e d’altri Soave

Angelo Peretti
Leggendo, un paio di settimane fa, le note ch’ebbi a scrivere su una ventina di vini in assaggio all’ultimo Soave Versus, c’è stato chi s’è domandato - e m’ha domandato - come mai non ce ne fossero della Cantina del Castello. La risposta è semplice: perché avevo da tempo (troppo) promesso ad Arturo Stocchetti che sarei andato a trovarlo, e siccome ormai l’appuntamento era in scadenza, avevo in mente di dedicare un pezzo a questa sola realtà. Che è, a mio avviso, di quelle importati, a Soave. Non solo per la storia aziendale, ma anche, e direi soprattutto, per la qualità di quanto mette in bottiglia. Eppoi m’aveva garantito, Arturo, che avrebbe stappato qualche vecchia annata, ché a me i bianchi piacciono evoluti, e adoro sentire se e come reggono il tempo. Insomma: era obbligo di visita, il mio, da rispettare. E l’ho dunque rispettato, e adesso ne do conto, per chi ha voglia di leggerne.
Ora, si dà il caso che Arturo sia anche presidente del consorzio di tutela soavese, e già me le vedo - le sento - le linguacce maliziose che si mettono in testa che mi son convertito all’istituzionalità. Epperò non mi resta, per far convinti costoro, che invitarli a fare un salto in pieno centro storico a Soave, alla casa di Arturo e alla sua Cantina del Castello, e a toccar dunque pur loro con mano (con occhio, con naso, con palato). E poi se ne potrà, se del caso, discutere.
Detta quest’ovvietà, eccomi all’uomo, che è una specie di diesel vecchio tipo in fatto d’oratoria. Nel senso che dapprima fai quasi fatica a tirargli fuori due parole all’Arturo, ma poi, quando prende l’abbrivio, diventa un fiume in piena, e non ti salvi più, e cominciano a brillargli gli occhi, e insomma ti racconta la sua idea di vigneron.
Già: vigneron. Lui le vigne ce l’ha. Ma non le aveva. E spiego. Venticinque anni fa, Stocchetti mica faceva vino. Di mestiere - non ditelo in giro, ché lui m’ha chiesto di non scriverlo, ma io lo scrivo lo stesso, ché deve imparare a non fidarsi dei giornalisti – era arredatore, col diploma di geometra in tasca. Poi, un po’ la voglia di cambiare, un po’ la passione latente, eccolo metter gli occhi su una vecchia azienda a Soave, la Cantina del Castello. Che aveva una qual fama, ma era da rimettere in sesto. E lui, passo dopo passo, l’ha rimess’a posto, buttando nei muri quanto prendeva dal vino. Oh, non è mica casa da niente, questa: pare fosse il palazzo antico dei conti Sambonifacio, in corte Pittora. E se andate nel sotterraneo, vi rendete conto dalla pietra che qui di storia n’è passata tanta e tanta davvero. E dunque ha fatto bene, l’Arturo, a crederci e a metterci le mani. Solo che allora, un quarto di secolo fa, di vigne ne possedeva zero: comprava vino e faceva commercio, come tanti. Ma l’obiettivo era chiaro: voleva il vigneto, e se l’è pian piano acquistato, con raziocinio, senza mai fare il passo più lungo della gamba. Tant’è che adesso d’ettari ne ha tredici, un paio nel crû di Carniga, il resto, che è la più parte, sul Monte Pressoni. E sul Pressoni ha fatto anche un lavoro mastodontico di terrazzatura, con la vigna che ora è messa ad anfiteatro per sfruttare la luce della mattinata.
L’aiuta da un decennio, nelle cose di vigna e di cantina, Giuseppe Carcereri, che si dovrebbe dir consulente, ma che Arturo dipinge invece come una sorta d’alter ego: «È il mio specchio» sostiene. E l’altro definisce il suo intervento come minimalista, dettato dalla filosofia di toccare il men che si può quanto arriva dalla vigna. E insomma: i due sembrano capirsi ormai al volo.
Detto questo, aggiungo che m’ha dato, la visita in cantina, l’idea che l’uva si cerchi di rispettarla per davvero: la si raccoglie - tutta - in cassette da una quindicina di chili, che vengono stoccate su un furgone impegnato a far la spola. E in cantina c’è, prima della pressa, una nastro per la cernita manuale dei grappoli.
Ora, i vini, alla buon’ora. Dico di tre.
Il primo è il Castello. O meglio il Soave Classico Castello 2005, il bianco basic, che è buonissimo, credetemi. Scattante e snello, va giù un gotto tira l’altro. Godibilissimo. Un gioiellino della categoria.
Merita tre lieti faccini :-) :-) :-)
Poi, il Carniga. Dico: Soave Classico Carniga 2004, vino d’impegno, da uve raccolte in leggera surmaturazione, fatto in acciaio, sur lie, sulle fecce fini per un annetto, in modo da cavar fuori tutto il possibile dalla garganega e dal trebbiano soavista, che concorre per un venti per cento all’incirca. Ed è vino che m’è piaciuto tanto e tanto già ad assaggiarlo la prima volta un paio di mesi fa e mi ripiace oggi, con la pesca bianca matura e la mela e la susina e il finale snello, asciutto.
Tre lietissimi faccini anche qui :-) :-) :-)
Terzo, il Soave Classico Pressoni, ch’è in genere il mio preferito fra quelli dell’Arturo Stocchetti. E qui mi dilungo, ché devo parlar della verticale.
Del Pressoni, ordunque, n’ho provate cinque diverse annate. L’85 in primis, che fu davvero l’incipit, la prima vendemmia imbottigliata ed etichettata dall’Arturo, rudimentale e rustica, senza tecnologia e sapere, venuta coma l’ha mandata Iddio. Poi abbiam fatto scorrere il decennio, e aperto un ’95, che è figlio di un’annata fresca, che per il bianco soavista, a mio avviso, è bell’annata. Indi, il ’96, che è vendemmia che spesso ho trovato intrigante sui bianchi veronesi. Siamo poi passati al difficile 2002, anno di piogge. E per finire l’ultimo nato, il 2005. Di seguito dico quel che ci ho trovato. Avvertendo che il nome è cambiato in etichetta, e lo vedrete: dapprima era Monte Pressoni, ora è Pressoni solo. Ed è stato, cammin facendo, un Superiore.
Soave Classico Monte Pressoni 1985. Due bottiglie abbiamo tirato fuori di cantina, ed entrambe marcavano gli anni, ché le ossidazioni (i tappi non sembravano gran cosa) erano avanzate. Eppure c’erano note minerali intriganti e anche, nella seconda boccia, un pelo di freschezza che rendeva l’ultima traccia di frutto. Certo, da non giudicare, ma rendevano entrambe l’idea d’un abbozzo, d’un vigneto di valore.
Soave Classico Superiore Monte Pressoni 1995. Averne, di bottiglie così. Dieci anni ben portati. E la si vedeva, la forma smagliante, già dal colore, giallo chiaro e cristallino, con venature addirittura ancora verdine, che non gli avresti dato più d’un paio d’anni d’età. Il naso, ah, quello era delicato e fascinoso: speziatura minuta e vene ben delineate di grafite. In bocca una bella tensione. Vivo, pulito. Fiore macerato e mineralità graffiante e pulizia e accenni direi balsamici. E poi lunghezza considerevole. Per dirlo perfetto, mancava solo un po’ di profondità, ma vorrei averne - ripeto - un paio di bottiglie nella mia cantinetta.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Superiore Monte Pressoni 1996. Due bottiglie stappate. La prima, purtroppo, ossidativa, ché il tappo aveva mal tenuto, eppure capace di porgere complessità olfattiva e note di cannella e di grafite e quasi, direi, di terra, e poi frutto, dolce e maturo. Seconda boccia. Densa, al naso, di memorie d’idrocarburi, di kerosene. Di pietra focaia. Epperò anche capace di porgere frutto e piccola spezia e pian piano, coll’ossigenazione, cenni di resine. E bocca ampia e fruttata, pur con qualche piccolo segno, invero, di stanchezza, che però non inficia la prova. Ecco, avesse lo scatto del ’95 sarebbe da favola.
Due lieti faccini :-) :-)
Soave Classico Pressoni 2002. Oh, che Soave! Ha naso sontuoso di frutta e di spezia minuta e bocca splendida e potente e vibrante. Ha snellezza e opulenza insieme. Lunghezza di beva. E frutto che si mastica. Ed è - lasciatemelo dire - spettacolare nella sua mineralità ben definita e per nulla eccessiva e anzi graduale nel porgersi. Gran bel vino. Spero d’averne anch’io ancora una bottiglia in cantinetta: devo verificare, in fondo alla cassa dei Soave.
Tre lieti faccini, ovviamente :-) :-) :-)
Soave Classico Pressoni 2005. Imbottigliato in febbraio, è ancora un giovincello. Il naso ha tanto frutto, con la mela in rilievo. E c’è pure, notevole, traccia di fiore giallo. E tornano, frutto e fiore, al palato, che trova dolcezza e pienezza e sapidità. È ancora bimbo, ripeto, ma si farà, ché ha materia e freschezza. E il finale è asciutto e tannico, come s’addice al bianco di razza.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

venerdì 22 settembre 2006

Curve, lattine & Prosecco: adesso è polemica

Angelo Peretti
Ullallà, che putiferio! S’è innescata la polemica sul Prosecco in lattina. A suon di comunicati stampa. Ma serve un premessa. O meglio, un riassunto delle puntate precedenti, ché del Rich Prosecco - è questa la pietra dello scandalo - n’ho già scritto all’inizio di luglio. A coloro cui basti un sommario riepilogo, le cose stanno, grosso modo, così: il Rich Prosecco è una creatura di Günther Aloys, che ha pensato di confezionare un Prosecco, appunto, in eleganti lattine dorate da 200 ml. Il prodotto viene promosso dalla G.A. Workshop di Ischgl, nel Tirolo austriaco, mentre a curarne la commercializzazione è la Rich Sales & Marketing di Memmingen, in Germania. Il tutto su licenza della Rich Corporation di New York, United States. Sembra, è, una multinazionale per il Prosecco in lattina. Se poi ci aggiungete che a far da testimonial dello sparkling wine in bussolotto è Paris Hilton, la discussa diva del momento, be’, avete il quadro di una straordinaria operazione di marketing. E pensate che si tratta d’un Prosecco italiano, veneto, coneglianese: il sito ufficiale del produttore e optate (in alto a sinistra) dice infatti che viene dalla Cantina sociale di Pieve di Soligo. Altroché.
Fin qui gli antefatti. Adesso è scoppiato il finimondo. «In tutta la vicenda Richprosecco – tuona un comunicato stampa ufficiale del Consorzio per la tutela del vino Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene - lo sfruttamento del nome del vino Prosecco è chiara e lampante: ciò che conta è il nome, divenuto di successo grazie al serio lavoro di decenni di oltre 3.000 viticoltori e di 130 aziende spumantistiche. Per i produttori di Conegliano Valdobbiadene Prosecco è un vino che, grazie al lavoro di tre generazioni, è divenuto un simbolo del territorio. Ora vediamo sfruttato il nostro patrimonio da chi vuole guadagni facili in poco tempo e queste speculazioni danneggiano il nostro lavoro». Rincara la dose Giampietro Comolli, direttore del Forum degli Spumanti d'Italia, che ha sede a Valdobbiadene: «Tutto questo rischia di rubare l'immagine storica del vero Prosecco doc, che è uno dei vini spumanti italiani più apprezzati e conosciuti nel mondo», dice in un’intervista pubblicata da WineNews.it, cliccatissimo eno-portale: E aggiunge: «È necessario avviare una politica di lungo periodo per fare in modo che il consumo di Prosecco doc superi quello non doc e arrivare a mettere definitivamente al riparo il Prosecco da questi attacchi pirateschi». «L’operazione commerciale – afferma la Coldiretti, sempre su WineNews.it - sfrutta un vino famoso nel mondo per le sue eccezionali caratteristiche organolettiche, consolidate in secoli di lavoro dei vignaioli, a favore di una bevanda che rischia di snaturare la qualità e la tipicità proprie del prosecco».
Insomma, una levata di scudi in difesa dell’autentico & autoctono Prosecco. E il presidente del Consorzio del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene, Franco Adami, passa al contrattacco: «Abbiamo ancora la possibilità di azzerare questo fenomeno speculativo - dice - rinnovando la richiesta di riservare ai soli vini doc il nome di Prosecco, strada già percorsa dal Consorzio diversi anni fa ma non capita dai produttori della provincia di Treviso. Contiamo che, alla luce di questi fatti, la Regione riconsideri la nostra richiesta di riserva del nome. Solo in questo modo ci si protegge da speculazioni commerciali di questo tipo. Le garanzie che oggi tutelano il Prosecco doc di Conegliano Valdobbiadene devono essere estese a tutto il Prosecco».
Già, ma la Regione non sembra pensarla esattamente così. Ed è ancora a mezzo d’un comunicato stampa ufficiale che interviene il vicepresidente della Giunta regionale, Luca Zaia. Il quale dice: «Nessuno si scandalizza perché il caviale viene venduto in scatola; e nessuno confonde la carne in scatola con la fiorentina: non vedo perché dovremmo stracciarci le vesti per la vendita in lattina del Prosecco. Semmai si tratterà di vigilare sulla qualità del contenuto, perché si tratta del Prosecco del Veneto». Dichiarazione controcorrente. Ma motivata: «Dal punto di vista del marketing - spiega Zaia - è un’opportunità che risponde ad una richiesta che proviene dalla distribuzione e dal mercato mondiale e che ci fornisce una straordinaria occasione per far conoscere ad un numero sempre più vasto di consumatori uno dei nostri vini più famosi. Ricordo che ci sono prodotti che, proprio grazie ad iniziative similari, hanno ampliato a dismisura il numero di conoscitori ed estimatori, senza che questo abbia significato un appiattimento della qualità o una confusione tra produzioni di vertice e quelle di massa, come nel caso dell’aceto balsamico. Stiamo anche parlando di un target nuovo che altrimenti finirebbe comunque per bere in lattina altri vini di chissà dove; gli esperti ci dicono che, ad esempio, entro due o tre anni in Germania la vendita di vino in lattina sarà molto diffusa e se, non sarà veneto, potrebbe essere cileno o australiano. E poi chi berrà il Prosecco in lattina ne diventerà un nuovo consumatore e non ho dubbi che, in altre occasioni, acquisterà le bottiglie di pregio, ricorrendo magari al meglio della nostra doc Conegliano Valdobbiadene».
Che volete che vi dica: Zaia non lo conosco di persona. Sta di fatto che ha avuto coraggio nel fare queste affermazioni. E che non ha torto.
Credo anch’io che ci sia una fetta di mercato enorme di potenziali bevitori di vino da andare ad intercettare, e il Rich Prosecco è uno dei tentativi che vanno in questa direzione. Usando tutte le armi che oggi la comunicazione mette a disposizione. E con un particolare non da poco: il vino che c’è dentro la lattina non è male. Perché io il Rich Prosecco l’ho bevuto davvero, e anche se non m’ha dato i brividi di piacere, devo ammettere che va giù bene. Trascrivo quanto ho già annotato a luglio: «Francamente non è da buttare. Il naso gioca su toni di frutto maturo (la pera, tipicissima dei Prosecchi veneti) e sulle note vegetali. Somiglia proprio a un Prosecco. Non ad un grande Prosecco, d’accordo, ma ci siamo. In bocca, poi, non è che ci sia da esaltarsi. La carbonica è un po’ grossolana. Però freddo fa la sua figura. È beverino. Neppure troppo dolce (poco più di un grammo di zucchero per litro: lo leggo sempre sul sito). Ed ha poco alcol: 10 gradi e mezzo, si legge sulla lattina (ma il sito del produttore dice che può arrivare a 10,8). Ha perfino la data di scadenza: va bevuto entro un anno. E poi in giro, credetemi, c’è di peggio, anche in certe trattorie della tradizione veneta che servono Prosecchi in caraffa». Così dicevo. E confermo.
Per di più, la lattina dorata & griffata non è sicuramente in svendita: costa cara, di più, proporzionalmente, d’una bottiglia media di Prosecco doc. Perché la moda si paga. E dunque potrebb’essere un’opportunità da sfruttare per posizionare al meglio il Prosecco in bottiglia. Quanto costa? Lo dicevo a luglio, trascrivendo dal sito della casa: «This refreshing pleasure is available for eur 1.99 to eur 2.19 in stores, restaurants and gas stations». Da 1,99 a 2,19 euro in negozi, ristoranti e stazioni di servizio: non te lo tirano mica dietro. Questo sì che è marketing.
«Lo ritengo anche un segno dei tempi - dice Zaia nel comunicato regionale - e ricordo che il Prosecco viene venduto sfuso e nei contenitori più disparati e che, anche nella zona doc, non tutto viene commercializzato in bottiglia, mentre le lattine di Prosecco ci sono già, sono di formato gigante e si chiamano fusti: non mi risulta che questo abbia prodotto danni. Cerchiamo dunque di essere obiettivi e pensiamo piuttosto che in Italia c’è un problema di natura giuridica: il vino a doc non si può mettere in lattina, mentre altrove la vendita in questo modalità è destinata a diffondersi». Oh, già, aggiungo io. E ci vogliamo così male che in tanti disciplinari non ammettiamo neppure le chiusure col tappo a vite, quello moderno, che è invece a parer mio la nuova frontiera del vino in bottiglia: vedi alla voce Nuova Zelanda, tanto per fare un esempio.
Sta di fatto che il Consorzio sembra proprio essere sul piede di guerra. «Nello specifico di questa azienda austriaca – comunica Adami -, i nostri avvocati stanno studiando da tempo la situazione e faremo molta attenzione a verificare che nelle eventuali pubblicità di Richprosecco non appaia alcun riferimento al territorio di Conegliano Valdobbiadene. Siamo pronti ad agire legalmente qualora ce ne sia bisogno». E non c’è dubbio che anche Adami e i suoi non hanno torto, anche se non mi pare d’aver letto da nessuna parte che Aloys e il suo staff parlino in maniera specifica di zona doc (del Veneto sì che ne parlano, invece).
Ma non è finita qui. Ché l’assessore si permette anche di tirar le orecchie ai produttori. «L’opposizione pregiudiziale al Prosecco in lattina è perdente - conclude Zaia -, perché delle due l’una: o questo sarà un “flop”, e i detrattori dovranno ammettere di essersi sbagliati a preoccuparsi; oppure sarà un successo e allora dovranno recitare un mea culpa e inseguire il mercato». Ma se pensiamo che nei primi quattro mesi di commercializzazione le lattine vendute di Rich Prosecco sono state un milione...
Eppure è qui, su quest’ultima affermazione dell’assessore che non sono del tutto d’accordo. Perché è qui la carenza, ed è una carenza della politica. Perché fino ad ora non s’è agito – o non lo si è fatto abbastanza - per creare da un lato le tutele e dall’altro gli stimoli giusti. C’è la terza via: inventare innovazione vera, che consenta al Veneto vinicolo iperproduttivo di tenere il mercato giocando d’anticipo, e questo non sarebbe forse un ruolo delle istituzioni.
La conclusione? Be’, ce ne possono esser tante di conclusioni. Una mi permetto di rubarla alla collega Elisabetta Tosi e dal suo wine blog Vino Pigro. Visto che mi cita lei, la cito anch’io. Scrive: «Ma soprattutto, cari produttori del Veneto Orientale, un po' di coerenza. Non stracciatevi le vesti se vi accorgete che qualcuno tra voi è disposto a vendere Prosecco disinteressandosi - o fingendo d'ignorare - che fine farà. E non venitemi a dire che qualcuno che fa di queste scelte commerciali lo si trova sempre perchè business is business, come ricorda Angelo Peretti. L'orgoglio territoriale, o è di tutti, o non serve a nessuno. Tutelare il marchio va bene, è giusto, doveroso: coltivare una mentalità di rispetto per il proprio e l'altrui lavoro, dimostrando con i fatti che si crede in ciò che si fa, è vitale. Altrimenti, tutte quelle chiacchiere sul territorio, la storia, la tradizione, che regolarmente ammannite a noi giornalisti, e con noi, indirettamente, ai consumatori, sono solo poesia». Ecco, non credo che, per ora, serva aggiungere altro.

mercoledì 20 settembre 2006

Giornalisti, scriviamo di vini da bere: lo dice la federazione

Angelo Peretti
Come altri colleghi che si occupano di vino, mi sono iscritto anch’io alla Fédération Internationale des Journalistes & Ecrivains du Vin, o meglio, alla sua sezione italiana, diretta da Luigi Odello. Ed è, questa, un’associazione che riunisce, come dice il nome francesista, i giornalisti e gli scrittori del vino. «E a noi che c’interessa?», potreste ben obiettare, e l’obiezione è lecita. Però consentitemi (sbaglio o il verbo lo usa anche qualcun altro?) di mettere a fattor comune quant’ha scritto nella sua ultima circolare Hervé Lalau, che della Fijev è il segretario generale.
Riporto qui di seguito, traducendo, come meglio mi viene, dal francese:
«Nel suo editoriale sulla «Revue des Vins de France» di ottobre, il nostro socio Denis Saverot ha osato porre una questione in controtendenza: i vini d'oggi non sono troppo alcolici? E la sua risposta è: sì. Per Saverot, dopo i vini esili delle annate “produttiviste”, si è voluto strafare, e l’equilibrio è sfuggito di mano.
Se pensiamo a certi mostri che dobbiamo assaggiare oggi (del genere "bodybuildés", "palestrato"), non ha certo torto. Così ci si sorprende, come lui, a sognare un Asti, un Clairette, o anche un Rheingau, quello dallo stile più secco.
Amici giornalisti, dobbiamo saper rifiutare la sovrabbondanza (di aromi, d'alcool, di materia) nelle nostre degustazioni, per privilegiare i vini "bevibili", quelli coi quali il consumatore si fa piacere tutto un pasto. È un ben cattivo servizio quello che si rende a un produttore "facendo uscire" il suo vino in una selezione, quando invece la gente che il vino lo consuma davvero non finisce poi la bottiglia... e non la riacquisterà mai più.
Hervé Lalau
Segretario Generale
Fédération Internationale des Journalistes & Ecrivains du Vin»
Credo non vi sfugga il valore di quest’esortazione. Qualcosa sta cambiando, per davvero, nel mondo della critica vinicola. Che comincia, alla buon’ora, a stufarsi di masticare tannini e iperconcentrazioni. E vuol tornare a bere, sissignori, a bere. E ad indicare vini da bere per davvero. Basta coi vini da buttarne giù un dito appena: la boccia dev’esser finita, sulla tavola, per cena. Ed è quel che, modestamente, cerco di fare su InternetGourmet coi miei giudizi in faccini, per cui può esserci - che so - un Bardolino che ne piglia tre al pari d’un Amarone.
Chiaro: è solo l’inizio. Ma la presa di posizione della federazione degli “scrivani” del vino è un bel segnale. Credo ne vedremo delle belle. Ripenseremo all’idea di vino, insomma. E un Bardolino - giusto per tornare all’esempio che m’è caro - non sarà più giudicato il nipote scipito dell’Amarone se quel Bardolino saprà trasmettere beva e terroir e sentimento e progetto e passione. Se invece sarà fatto male, be’, c’è poco da dire: verrà valutato per quel che vale, al pari della risciacquatura dei piatti.
Così pure, perché non esaltare un rosato, un Chiaretto magari, se quest’è fatto bene, bene assai? Chi l’ha detto che dia meno gioia d’un Barolo? Viva il Chiaretto buono, viva il Barolo buono, viva il vino buono, ma attenti, ché buono non vuol solo dire fatto bene, senza difetti, ché altrimenti il Tavernello è re.
Capiamoci: c’è il rischio di prendere l’ubriacatura contraria, e il termine credo sia proprio quello giusto: ubriacatura. Per esempio, seguire il mito biodinamico per questione di moda. Guai, oggi, a non dirsi fedeli al dogma della biodinamica: rischi per passar da reazionario. Sia chiaro: esiste una serie notevole di vini biodinamici che adoro. In Loira, in Alsazia, per esempio. E potrei citarne una ventina che ho in casa e che amo e che bevo con piacere assoluto. Ma - appunto - non li esalto perché son biodinamici, bensì perché li trovo buoni, punto e basta. Il fatto della biodinamica semmai è un plus, da mettere nel lato del sentimento. Ma è il vino ad esser buono.
In fin dei conti - l’ho già detto più volte - come venga fatto il vino m’interessa sì, ma relativamente. Ché la cosa che giudico importante è invece quel che il vino racconta: se parla, se dice, se fa vibrar le corde del cuore e della mente. E non posso accettare di sorvolare su un difetto nel nome del falso mito della «naturalità».
Voglio che il gotto si riempia e si svuoti. Voglio la gioia del vino.
L’ho ricordato qualche settimana fa del codice di Andreas Märs, baffuto capo redattore di «Merum»: lui ha ideato il parametro JLF nella valutazione d’un vino, che sta per «Je leerer die Flasche, desto besser der Wein», ossia, in lingua italica, «più è vuota la bottiglia, più è buono il vino». Si deve bere, vivaddìo, questo vino. Se lo ricordino, i produttori.
E prosit, dunque. Al vino.

venerdì 15 settembre 2006

Quando nacque il nome dell'Amarone

Angelo Peretti
A proposito delle origini dell’Amarone, m’ha scritto Francesco Quintarelli, uomo di bell’acume, esperto in materie valpolicellesi. Portando un contributo, che molto volentieri di seguito rendo pubblico.
L’intervento nasce a commento del pezzo che comparve in marzo su InternetGourmet. Riprendeva una vecchia intervista a Nino Franceschetti dopo che Alessandro Masnaghetti l’aveva riattualizzata sulla sua bella rivista Enogea. Il pezzo s’intitolava «Quando il Nino raccontò la vera storia dell’Amarone».
Quintarelli dice la sua sulla storia vera dell’Amarone. E per quanto attiene al nome (lui dice, con bella e arcaica parola, epiteto), ne riconduce l’origine ad Adelino Lucchese (era il 1936), cantiniere e mezzadro. Ed alla valorizzazione che di quel nome fece poi il direttore della Cantina sociale della Valpolicella, Gaetano Dall’Ora.
La testimonianza è piuttosto interessante, non c’è dubbio. Anche perché è diretta, e va a colmare le lacune – molte – delle fonti scritte. Ringrazio dunque di cuore Quintarelli per avermela - ed avercela - voluta condividere. Così come mi fa piacere - molto, e m’inorgoglisce - che legga InternetGourmet.
Così come trovo di grand’interesse il passaggio in cui narra dell’esperienza fatta di persona al mercato veronese, e alle tipologie vinicole che allora si commercializzavano. Quell’allora è mezzo secolo fa, subito dopo la guerra. E mezzo secolo nella storia enologica italiana è un tempo infinito, ché allora eravamo ancora alle origini, lontani perfino dal pensare per davvero ai disciplinari e alle doc, che sarebbero venute di lì a vent’anni. Anche questa è testimonianza personale che diventa fonte, dunque.
C’è poi poesia quando racconta, Quintarelli, degli antenati che imbottigliavano in «luna vècia de agosto». Quel guardare agli astri che oggi viene enfaticamente riappropriato anche da produttori di grido. E che appartiene alla storia vinicola. E quel vino imbottigliato con la luna giusta, se poi non era molto dolce, era quello «da la mandola amara» o «da ‘na veneta sconta», o «tondo», il «vin da òmeni». Bellissimo.
Non mi sento invece di concordare appieno sull’interpretazione delle citazioni antiche, a partire da quella catulliana. Francamente, ho sempre nutrito serie perplessità – e mi perdoni Quintarelli così come chi altri la pensi come lui – sull’effettiva riconducibilità dell’attuale Amarone o del Recioto valpolicellese all’Acinatico delle testimonianze letterarie d’età latina. Pressoché nulla sappiamo di quel vin retico. Non ve n’è, ovviamente, descrizione analitica, se non con vago cenno alla sua potenza e dolcezza. Non v’è notizia, se non precaria pur’essa – la Rezia, regione amplissima – dell’origine, del luogo. Né tantomeno – chiaramente – alla tecnica produttiva. So solo che difficilmente, molto difficilmente, un vino d’elevato residuo zuccherino avrebbe potuto in quell’epoca essere trasportato fino a Roma (o ben più a sud) senz’incontrare seri, serissimi problemi di rifermentazione, di deterioramento. D’esplosione, direi, dell’anfora o dell’eventuale botte. Che è poi, almeno in parte, problema attuale, per il Recioto, nonostante le moderne microfiltrazioni, che sono innovazione tecnologica recentissima. Figurarsi millanta anni addietro.
Si possono dunque semplicemente far congetture, e ognuno è libero di tracciare le sue. Tutte sono degne – ritengo – della medesima attenzione. Personalmente, ci vado coi piedi di piombo. Tendo a far prevalere i dubbi sulle certezze, come sempre m’accade in materia storica. La storia si fa sulle fonti. E quando queste latitano, si può fare anche sui monumenti della cultura materiale, con metodo multidisciplinare: è una scienza che si chiama gastronomia, questa qui. E comunque si fa – secondo me – sempre con lo scetticismo che superi l’entusiasmo. Ma questa è solo la mia personalissima opinione, e reputo altrettanto valide le idee altrui.
Ma ora, basta con le mie parole. Vi lascio alla lettura di Quintarelli. Ed è una bella lettura, l’assicuro.

La storia vera dell'epiteto Amarone
di Francesco Quintarelli
«Il nuovo epiteto Amarone per indicare il Recioto Amaro nasce nella primavera del 1936 nella Cantina Sociale Valpolicella, istituita nel 1933 in Villa di Novare Mosconi-Simonini, attualmente Bertani. Il direttore Dall’Ora dr. Gaetano, i cui meriti in argomento sono poco conosciuti anche in Valpolicella, trasferì nel 1948 la Cantina Sociale a San Vito, nella vecchia cantina Quintarelli Cav. Antonio. Ci lavorai dall’autunno 1948 all’ottobre 1949. G. Dall’Ora usava abitualmente l’epiteto Amarone in etichetta e mi dichiarò che nella primavera del 1936 spillando il Recioto Amaro dal fusto di fermentazione il mezzadro capocantina Adelino Lucchese, palato e fiuto eccezionali, uscì in una esclamazione entusiastica: “Questo non è un Amaro, è un Amarone”. Quel contadino aveva regalato alla Valpolicella la parola magica e il dr. Dall’Ora la usò subito in etichetta. La Cantina Sociale di Negrar nell’ingresso attuale ostenta giustamente una lettera di spedizione del 1942 con descrizione di “Fiaschetti di Amarone 1938”. Fare del nome e della sua commercializzazione una storia inesatta non contribuisce certo alla nobiltà del “campionissimo della scuderia enologica veneta”.
E non solo veneta. (…)
Perché l’Amarone esisteva anche prima, da qualche tempo se Catullo nel Carme n. 27 (49 circa a.C.) reclama “calices amariores” (bicchieri più amari). Ma ben altri documenti ne danno testimonianza.
Cassiodoro nei primi anni del 500 ricerca l’Acinatico della Valpolicella, rosso e bianco: si ritiene che fosse un “recchiotto amaro”, scrive G. B. Peres nel 1900, opinione coincidente con quella del Panvinio, che nell’Acinàtico di Cassiodoro riconosce il Rètico di Augusto e del Sarayna (1543) che parla dei vini della Valpolicella “neri, dolci, racenti e maturi”. Per giungere a Scipione Maffei che esalta il vino amaro della Valpolicella. Ma forse più di ogni altro vale il giudizio emesso da assaggiatori francesi a Parigi nel 1845 su una partita di vino “Rosso Austero Costa Calda” di S. Vito di Negrar vecchio di 11 anni: “Supremo vino d’Italia … preferibile a diversi Bordeaux ed Hermitage”. Diffuso il nome Reciòto, sulla fine del 1800 Antonio Quintarelli mescola foglie di pesco al passito in fermentazione, per “darghe l’amaro al vin” e nel 1903 alla Esposizione Enologica e gastronomica di Milano ottiene il Premio Medaglia d’Oro per il “Recciotto Amaro di Negrar”. Il premio più antico che si conosca per l’Amarone, che nel corso di 2000 anni ha solo cambiato i nomi, ma è rimasto sempre quello, perché il passito d’insufficiente titolo zuccherino sempre continuò a fermentare in damigiana, diventando più volte amarotico se non amaro.
Non per nulla gli antenati lo imbottigliavano in “luna vècia de agosto”, a fermentazione completata. E se non era molto dolce, era quello “da la mandola amara” o “da ‘na veneta sconta”, o “tondo”, il “vin da òmeni”.
E il “Recioto scapà”? Nato nel 1922, cresciuto sulla collina di Negrar e introdotto nei “misteri” dell’avita cantina fin da bambino, non ho mai sentito quella definizione prima del 1997.
Uno non può conoscere tutto, anche se ha passato 70 anni della sua vita tra uve e vini.
Il ripasso poi è pratica multisecolare. Sulle vinacce del passito (dolce o amaro) si sono sempre fatti “rebojir” i vini spillati in autunno con due o tre passate diverse, ottenendo il “mèso Recioto” e altro. L’ultimo ripasso era di acqua per avere la “graspìa”, l’acidulo e cenerognolo beveraggio di tutto l’inverno. Perché una prima pigiatura de l’ua da granar”, non “da taolon”, si faceva anche a San Martino, per “rebjoir” i “torcolè”.
Quanto alle categorie merceologiche di 50 anni fa, forse un approfondimento non guasterebbe.
Nel 1945-48 frequentavo il mercato del vino “sotto la Costa” e la Fiera di Verona.
Sentii parlare di Recioto, di “Mèso Recioto”, di vino buono o meno buono.
Non so bene cosa sia il “ripasso moderno”; so che da secoli si “rebojiva” altro vino sulle vinacce del passito.
Quanto all’epiteto “Amarone” anche personaggi di competenza vitivinicola elevata, non credono più a storie diverse da quella del contadino Adelino Lucchese.
Nel 1963 al Palio del Recioto di Negrar fu istituito il “Premio Speciale per l’Amarone”.
E i divergenti scritti di firme illustri su periodici assai diffusi ? Nessun stupore; nulla di nuovo sotto il sole: “quandoque bonus dormitat Homerus”.
PS. La mia stirpe coltiva vigne e produce vino in Valpolicella almeno dal 1510. Divisa in più rami ha sempre mantenuto e seguito tradizioni vitivinicole. Il rappresentante più famoso attualmente è Giuseppe Quintarelli, giustamente conosciuto in tutto l’orbe terracqueo. Merito di capacità e fedeltà alla tradizione. Peccato che la divisione tra i nostri due rami familiari risalga alla seconda metà del 1500! (Archivio Parrocchiale - Negrar)».

sabato 9 settembre 2006

Il Soave, punto e basta

Angelo Peretti
Non faccio mistero di considerare il Soave il più gran bianco d’Italia. Il Soave come denominazione di terroir, mica solo qualcheduna fra le bottiglie in commercio. Ché roba come il Calvarino di Pieropan, giusto per fare un esempio (e che esempio!) lo sanno tutti ch’è un capolavoro. E non è neppure, la mia, questione di campanile. Non è, intendo, spirito di patria veronesità. Nossignori.
Certo, altri bianchi m’intrigano nella penisola, dall’alto in basso, dall’Alpi alle Sicilie. Uno su tutti, il Fiano dei Colli di Lapio, ch’è vino che mi dà la scarica lungo la spina dorsale solo a ricordarmelo. Oppure certo Kerner della Val d’Isarco, di volta in volta da Nössing, da Pacherhof, da Köfererhof. O ancora, uscendo dall’autoctonia, lo Chardonnay che Costantino Charrére fa per Les Crêtes, in Val d’Aosta. Ed altri (in verità, non tantissimi, ma è parer mio) se ne possono citare, come un certo Pigato di Bruna, U Baccan, in Liguria, Riviera di Ponente. E mi fermo, ché sennò vien fuori solo un elenco. Ma sono quasi casi isolati.
Intendo: non è difficile trovar grande bianco in Südtirol o in Friuli o nelle Marche o in Liguria o un po’ dovunque vogliate. Ma non vedo qui da noi un filo conduttore che attraversi un’intiera area, che faccia parlare d’una denominazione d’assieme, come accade, che so, per la Borgogna e i suoi chardonnay, la Loira e il sauvignon, il Reno e il riesling. L’Alto Adige? Sì, ha bianchi spettacolari, ma sono tre Kerner e due Veltliner e tre Sylvaner e un paio di Sauvignon e... E insomma, a macchia di leopardo. E lo stesso, in fondo, per il Friuli e la sorella Venezia Giulia. Invece a Soave si fa Soave.
Ecco, Soave mi pare ci stia riuscendo nell’impresa dell’identificazione di territorio. Ed ha nella garganega la madre riconoscibile e trova magari anche supporto nel trebbiano locale, per chi l’usa ancora.
Ha, la zona, una traccia descrittiva comune nelle sue migliori espressioni, che son poi quelle che vengono dalla collina. Da Monteforte e Soave, zona classica, soprattutto: vini che hanno il frutto succoso che avvolge istantaneo, e poi la centrale, nervosa freschezza, e la florealità appagante e la mineralità accattivante e il finale quasi tannico. Insomma: ormai si può parlare apertamente d’un vino di territorio, cosa impossibile solo una quindicina d’anni fa, ché in terra soavista si facevano cisterne di vinelli scipiti dal color bianco carta e pochi, pochissimi offrivano invece cose di valore (ed era però già gran valore, ma casi isolati).
In più, colpisce il fatto che, nonostante una presenza enorme della cooperazione, con la Cantina di Soave divenuta un colosso e poi altre cantine sociali che raccolgono soci e uve in volume notevole (e che comunque san fare cose apprezzabili), be’, nonostante questo ogni anno ecco che emergono nuovi piccoli produttori, gente che passa all’imbottigliamento e lo fa bene e tira fuori roba da bere con soddisfazione.
Certo, di Soave ordinario e anche grossolano e da quattro soldi ce n’è ancora tanto in giro per il mondo, ma il numero delle cantinette che fanno cose buone e buone assai cresce d’un anno all’altro.
Tutto bene, dunque? Sì e no. No, ho detto, per la massa anonima ancora in giro. E no se ci s’illude d’essere arrivati. Siamo, probabilmente, alla svolta. Il Soave ha acquisito sicurezza e comunanza e leggibilità. La lettura grammaticale del vino, intendo, è appropriata: esprime la garganega e la sua acclimatazione in un territorio circoscritto. Adesso ci vuole il nuovo passo, ch’è quello della lettura in profondità, della valorizzazione dei singoli terroir. Occorre transitare dal Soave buono al Soave che descrive una pezza di terra e una storia d’umanità. Occorre arrivare ai crû, come direbbero i francesi. Ed è il passaggio più difficile. Ma mi sa che da quelle parti hanno i numeri per farlo.
Uno spaccato della produzione soavista l’ha dato di recente, nella terra d’origine, Soave Versus. Dove esponevano una quarantina d’aziende, alcune note, altre emergenti, talune pressoché sconosciute. Mancava qualche big (niente Pieropan, niente Suavia, giusto per dire d’un paio d’illustri assenti), e qualcun altro non portava tutta la batteria (Prà, per esempio, aveva solo il nuovo Staforte, e dunque niente Monte Grande e Sant’Antonio). Ma il parterre era buono. E l’afflusso di pubblico notevole. Peccato che io ho potuto poco assaggiare, impegnato a parlar d’olio (e formaggio & chocolate) in un laboratorio che m’han chiesto di condurre. Ma qualcosa qui e là ho riprovato, e comunque pressoché tutti li avevo già tastati in luglio e qualcheduno (ben più d’uno) anche dopo.
Ora, cerco di dar conto di qualche bottiglia presente al Soave Versus. Attingendo però - lo dico - agli appunti di più tastings, e dunque non solo della manifestazione, ché tutto non ho potuto lì ribere. Ma i vini che cito sono comunque scelti esclusivamente fra quelli che alla kermesse soavese erano esposti. Insomma, un mio taccuino dell’evento un po’ esteso.
Ne elenco venti, di bottiglie. In ordine alfabetico all’interno della categoria di giudizio, ch’esprimo, come sa chi ha la bontà di leggermi, in faccini tipo smarticons del cellulare. Da tre faccini ad uno.
Qui sotto i vini.

Soave Classico Monte Fiorentine 2005 Cà Rugate
Et voilà: altra annata, altro gioiello. Il Monte Fiorentine mi piace, mi piace assai. L’ho già detto altre volte e più lo riassaggio più me ne convinco. Appagante, succoso, eppure anche vibrante e snello. Una certezza.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

Soave Classico Monte Alto 2004 Cà Rugate

Altro bianco di Cà Rugate, e neanche l’ultimo, ché più avanti ce n’è un terzo. Anche questo buono tanto. S’avverte la mela asprigna e l’erba sfalciata e la spezia e la pesca matura e la mandorla. Ha lungo, tannico finale.
Ridono tre faccini :-) :-) :-)

Soave Classico Cà Visco 2005 Coffele
Altro Soave che amo, e che non tradisce l’amore ormai da più anni. Altr’esempio di vibrante tensione gustativa. Fiore e frutto bianco e vene minerali s’intersecano nel palato, e ti prendono il cuore. E c’è freschezza avvincente.
Tre faccini gaudenti :-) :-) :-)

Soave Classico Superiore Foscarin Slavinus 2003 Monte Tondo
Soave da legno grande. Ed è bel bianco, per chi ama il genere. Il naso ha frutto denso, giallo, e fiore macerato. La bocca è polposa, eppure sorretta da una guizzante vena di freschezza. Gran tensione e lunghezza.
Tre sorridenti faccini :-) :-) :-)

Soave Classico Staforte 2004 Prà
Coraggioso. Butta il cuore di là dall’ostacolo. In acciaio e con cocciuto batonnage per cavar da mamma uva anche l’ultimo cenno d’amorevole frutto. Grande oggi, grandissimo coll’affinamento ulteriore. Possibile parlar di capolavoro?
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

Soave Classico Alzari 2004 Coffele
Lo so: c’è chi ritiene che l’Alzari sia, stavolta, il capolavoro di casa Coffele, che superi il Cà Visco. Ammetto ch’è gran vino, ma m’intriga più l’altro. Ché questo gioca sull’opulenza e l’altro sulla tensione. In ogni caso, chapeau.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

Soave Borgoletto 2005 Fasoli Gino
Bella sorpresa, il Borgoletto. I Fasoli credono all’agricoltura biologica e quest’è, se non sbaglio, il loro vino che fa i numeri maggiori. Be’, è un bel bere. Non è un gigante, ma va giù che è un piacere. E ha frutto e nuance minerale.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

Soave Classico Vigna dello Stefano 2005 Le Albare
Una sorpresa. Bella. Un bianco mica appariscente, eppur godibilissimo. Ché ha naso di fiore e di frutto bianco ed ha ricordi minerali di grafite. Bocca tutta sul frutto. Ed ha lunghezza considerevole e succosa. Buono.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

Soave Classico Le Bine 2004 Tamellini
Detto che ho bevuto e ribevuto il Recioto dei Tamellini e che ne riparlerò perché per me è una perla di fascinosa grazia, eccomi qui a citar le loro Bine (e del Soave basic dico più sotto).Ch’è vino di bella personalità e densa beva.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

Soave Classico 2005 Balestri Valda
Oh, che bel vinino! Mica che aspiri a essere un super-white, questo no, ma lo berresti a secchi. Ché ha freschezza e dinamicità e tensione e vivida mineralità e memorie vegetali che intrigano e buona e quasi burrosa lunghezza.
Due lieti faccini :-) :-)

Soave Classico San Michele 2005 Cà Rugate
Terzo Soave di Cà Rugate nella mia personale lista. Che dire: son bravi, davvero. Pensare che questo qui è il piccolo di famiglia, il vino base, il fratellino minore. Be’: averne. Susina, pesca, fiore bianco, sapidità, leggerezza. Bel mix.
Due faccini felici :-) :-)

Soave Colli Scaligeri Castel Cerino 2005 Filippi
Fiori. Al naso e in bocca è florealità pura quella ch’emerge. Sul finale, ecco che si fa avanti la traccia della mandorla. Certo, è vino che non ha ambizione. Ma si beve ch’è un piacere. Con disimpegnato piacere, direi.
Due faccini sorridono :-) :-)

Soave Il Selese 2005 I Stefanini
Se mi chiedete chi siano I Stefanini, be’, non ve lo so dire. Vabbé, etichette e web site avrebbero bisogno di restyling, ma il vino, questo Selese, è buono e se il buon giorno si vede dal mattino... C’è tensione e mineralità e fiore.
Due faccini contenti :-) :-)

Soave Fontego 2005 La Cappuccina
Buono il Fontego, e potrà dare piacere maggiore, credo, lasciandolo ancora un po’ affinare nella bottiglia, ché già oggi intriga con la sua mineralità, destinata, ritengo, a irrobustirsi. Ed ha sapidità al palato e finale quasi tannico.
Due gaudenti faccini :-) :-)

Soave Classico San Brizio 2004 La Cappuccina
Bel derby in famiglia, quello che vede opporsi il Fontego e il San Brizio. Questo, il San Brizio, è più orientato - mi pare - all’opulenza del frutto, allo spessore. Ed ha morbidezza succosa. E vena anche qui minerale. E tensione.
Due lieti faccini :-) :-)

Soave Classico Montetondo 2005 Monte Tondo
Di sopra ho detto del vinone, adesso ecco qui il piccolino, il base. Ch’è comunque vino apprezzabile ed ha nella tensione di beva il suo lato migliore. E porge il fiore bianco insieme con un’inaspettata tannicità.
Due faccini sorridono :-) :-)

Soave 2005 Tamellini
Eccolo il basic dei Tamellini. Ed è un bel bere anche quello che offre il piccolo di famiglia. Ché ha frutto, e nel fruttato è l’albicocca a porgersi succosa. Sul fondo, ecco la vena mandorlata. Senza pretese eccessive, ma di bella beva.
Due lieti faccini :-) :-)

Soave Superiore Monte Ceriani 2004 Tenuta Sant'Antonio
Oh, ecco qua un bianco fatto da gente che spopola coi rossi. Ché i Castagnedi brothers sono celebri e celebrati per l’Amarone e il Valpolicella. Ma hanno in serbo anche un Soave che ha carattere e personalità e tensione.
Due lieti faccini :-) :-)

Soave Classico Sacripante 2005 Le Battistelle
Perché si decida di chiamar coll’ariostesco Sacripante un bianco resterà un mistero, così come oscura m’è l’azienda. Il vino lo segnalo sulla fiducia, anche se non ha perfetta definizione: potrebb’essere una lieta sorpresa futura.
Il faccino è ridente :-)

Soave Classico Monte Zoppega 2004 Nardello
Su casa Nardello c’è chi scommette, e anch’io attendo al varco l’esprimersi intiero della potenzialità. Mica male ‘sto Monte Zoppega, che ha fiore e frutto bianco e beva distesa e pacata. Un pelo di personalità in più, e farebbe faville.
Lieto il faccino :-)

Amarone in kit: la palla passa al ministero

Angelo Peretti
Oh, oh: la palla è al ministero. Lo apprendo da Vino Pigro, il wine blog della collega Elisabetta Tosi. Il caso è quello dell’Amarone fai da te, di cui ho parlato in due successivi interventi su InternetGourmet: sul web potete trovare dei kit messi in commercio da ditte canadesi e americane che promettono che sarete in grado di realizzare a casa vostra, in poche settimane, e con una spesa tutto sommato non enorme, una quindicina di litri d’Amarone, celebre rosso che dovrebb’esser fatto solo in Valpolicella.
Ebbene, Elisabetta ha saputo dal Consorzio di tutela del Valpolicella che della faccenda è stato investito, appunto, il ministero delle politiche agricole (si chiama ancora così, spero: è uno dei dicasteri che cambiano nome più spesso...).
È andata, mi pare d’aver capito, così: il Consorzio valpolicellese ha scritto alla Federdoc, e questa ha svolto le sue indagini. Ritengo che l’organismo che fa sintesi delle denominazioni italiche abbia capito che con gli strumenti disponibili non se ne esce, e dunque ha coinvolto l’unica entità in grado di intervenire, quella ministeriale, appunto.
Lo dice la stessa Federdoc in una missiva inviata al Consorzio di San Pietro in Cariano (riporto il testo così come l’ha pubblicato Elisabetta, ché io la lettera non l’ho vista): «Prendiamo atto della Vs. segnalazione di cui all'oggetto. Vi assicuriamo che la questione, a nostra conoscenza, è stata già opportunamente sottoposta all'attenzione degli organi istituzionali preposti. Riteniamo, a questo punto, di dover interessare direttamente il Ministro De Castro, tenuto conto che la faccenda si allarga e va a toccare sempre più il buon nome delle nostre Denominazioni».
Il commento? Lo lascio alle parole di Elisabetta Tosi e del suo Vino Pigro: «La buona notizia è che ora sarà l'autorità massima - in materia di agricoltura - a dover darsi una mossa (speriamo). Quella cattiva è che "i nostri" erano a conoscenza dell'esistenza di questi kit da tempo, e che la loro azione - qualsiasi essa sia stata - finora non ha sortito nessun effetto visibile. I kit sono sempre là, in vendita». Cosa dire di più?