mercoledì 20 settembre 2006

Giornalisti, scriviamo di vini da bere: lo dice la federazione

Angelo Peretti
Come altri colleghi che si occupano di vino, mi sono iscritto anch’io alla Fédération Internationale des Journalistes & Ecrivains du Vin, o meglio, alla sua sezione italiana, diretta da Luigi Odello. Ed è, questa, un’associazione che riunisce, come dice il nome francesista, i giornalisti e gli scrittori del vino. «E a noi che c’interessa?», potreste ben obiettare, e l’obiezione è lecita. Però consentitemi (sbaglio o il verbo lo usa anche qualcun altro?) di mettere a fattor comune quant’ha scritto nella sua ultima circolare Hervé Lalau, che della Fijev è il segretario generale.
Riporto qui di seguito, traducendo, come meglio mi viene, dal francese:
«Nel suo editoriale sulla «Revue des Vins de France» di ottobre, il nostro socio Denis Saverot ha osato porre una questione in controtendenza: i vini d'oggi non sono troppo alcolici? E la sua risposta è: sì. Per Saverot, dopo i vini esili delle annate “produttiviste”, si è voluto strafare, e l’equilibrio è sfuggito di mano.
Se pensiamo a certi mostri che dobbiamo assaggiare oggi (del genere "bodybuildés", "palestrato"), non ha certo torto. Così ci si sorprende, come lui, a sognare un Asti, un Clairette, o anche un Rheingau, quello dallo stile più secco.
Amici giornalisti, dobbiamo saper rifiutare la sovrabbondanza (di aromi, d'alcool, di materia) nelle nostre degustazioni, per privilegiare i vini "bevibili", quelli coi quali il consumatore si fa piacere tutto un pasto. È un ben cattivo servizio quello che si rende a un produttore "facendo uscire" il suo vino in una selezione, quando invece la gente che il vino lo consuma davvero non finisce poi la bottiglia... e non la riacquisterà mai più.
Hervé Lalau
Segretario Generale
Fédération Internationale des Journalistes & Ecrivains du Vin»
Credo non vi sfugga il valore di quest’esortazione. Qualcosa sta cambiando, per davvero, nel mondo della critica vinicola. Che comincia, alla buon’ora, a stufarsi di masticare tannini e iperconcentrazioni. E vuol tornare a bere, sissignori, a bere. E ad indicare vini da bere per davvero. Basta coi vini da buttarne giù un dito appena: la boccia dev’esser finita, sulla tavola, per cena. Ed è quel che, modestamente, cerco di fare su InternetGourmet coi miei giudizi in faccini, per cui può esserci - che so - un Bardolino che ne piglia tre al pari d’un Amarone.
Chiaro: è solo l’inizio. Ma la presa di posizione della federazione degli “scrivani” del vino è un bel segnale. Credo ne vedremo delle belle. Ripenseremo all’idea di vino, insomma. E un Bardolino - giusto per tornare all’esempio che m’è caro - non sarà più giudicato il nipote scipito dell’Amarone se quel Bardolino saprà trasmettere beva e terroir e sentimento e progetto e passione. Se invece sarà fatto male, be’, c’è poco da dire: verrà valutato per quel che vale, al pari della risciacquatura dei piatti.
Così pure, perché non esaltare un rosato, un Chiaretto magari, se quest’è fatto bene, bene assai? Chi l’ha detto che dia meno gioia d’un Barolo? Viva il Chiaretto buono, viva il Barolo buono, viva il vino buono, ma attenti, ché buono non vuol solo dire fatto bene, senza difetti, ché altrimenti il Tavernello è re.
Capiamoci: c’è il rischio di prendere l’ubriacatura contraria, e il termine credo sia proprio quello giusto: ubriacatura. Per esempio, seguire il mito biodinamico per questione di moda. Guai, oggi, a non dirsi fedeli al dogma della biodinamica: rischi per passar da reazionario. Sia chiaro: esiste una serie notevole di vini biodinamici che adoro. In Loira, in Alsazia, per esempio. E potrei citarne una ventina che ho in casa e che amo e che bevo con piacere assoluto. Ma - appunto - non li esalto perché son biodinamici, bensì perché li trovo buoni, punto e basta. Il fatto della biodinamica semmai è un plus, da mettere nel lato del sentimento. Ma è il vino ad esser buono.
In fin dei conti - l’ho già detto più volte - come venga fatto il vino m’interessa sì, ma relativamente. Ché la cosa che giudico importante è invece quel che il vino racconta: se parla, se dice, se fa vibrar le corde del cuore e della mente. E non posso accettare di sorvolare su un difetto nel nome del falso mito della «naturalità».
Voglio che il gotto si riempia e si svuoti. Voglio la gioia del vino.
L’ho ricordato qualche settimana fa del codice di Andreas Märs, baffuto capo redattore di «Merum»: lui ha ideato il parametro JLF nella valutazione d’un vino, che sta per «Je leerer die Flasche, desto besser der Wein», ossia, in lingua italica, «più è vuota la bottiglia, più è buono il vino». Si deve bere, vivaddìo, questo vino. Se lo ricordino, i produttori.
E prosit, dunque. Al vino.

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