sabato 24 febbraio 2007

Bulfon, che riscopre le vigne dimenticate

Angelo Peretti
Prima o poi mi toccherà farci un salto dalle parti di Valeriano, Valli Pordenonesi, Friuli Venezia Giulia. Mi toccherà perché m’è venuta la curiosità di conoscerlo di persona, Emilio Bulfon. L’ho solo sentito un paio di volte al telefono. Contattandolo perché Marco Sabellico m’aveva chiesto una mano a rivedere qualche scheda della guida ai vitigni autoctoni del Gambero Rosso. E così ne ho potuto assaggiare i vini. Rari. Unici. Rustici. Inusuali. Antichi.
Bulfon ha una caratteristica: fa solo vini da uve autoctone. Capisco l’obiezione: sarà mica una novità far vino da vitigni locali. Già, ma le sue vigne le ha solo lui, o quasi. Le ha strappati alla morte, all’oblio, alla consunzione, li ha ritrovati nel bosco, riaddomesticati, resuscitati. Si chiamano scjaglìn, cividìn, ucelùt, piculìt neri, cjanòrie, forgiarìn, cordenossa. Alzi la mano chi ne aveva già sentito parlare.
Una volta erano coltivate, quei vitigni. Poi si sono scelte altre cultivar, più produttive, meno rognose, di tendenza. E così se n’erano perse le tracce da almeno trent’anni. Per dirla con Bulfon, «sembravano scomparsi e fagocitati dai rovi della boscaglia e dall’incuria degli uomini». Ritrovati, a mo’ di reperto archeologico, ecco la voglia di farli rivivere. Con la collaborazione di Antonio Calò, direttore dell’istituto sperimentale per la viticoltura di Conegliano, e di Ruggero Forti, ampelografo, studioso cioè di varietà di vigne. Ma quest’era solo l’inizio della trafila, ché non ce n’era citazione nei repertori ufficiali, nel novero delle varietà autorizzate ufficialmente a far vino. Dunque s’è dovuto attivare il canale della burocrazia, perché il vino che se ne ricavava non fosse, pensate un po’, fuorilegge. Finché, nel ’91, è arrivato il primo successo: l’allora ministero dell’agricoltura e delle foreste (quante volte ha cambiato nome, referendum a parte?) ha incluso il fogiarìn, il piculìt neri, lo scjaglìn e l’ucelùt nel Catalogo nazionale delle viti. Per altri la storia è appena (ri)cominciata.
Dicevo, prima, di resurrezione, per queste vigne riemerse dalla storia. E fors’è termine azzardato. O forse no, ché c’è un qualche cosa di sacrale davvero nell’opera d’Emilio Bulfon. E questa sacralità, questo rispetto nel porsi verso il vino lo si trova fin dall’etichette, disegnate di pugno, prendendo ispirazione da un affresco d’una chiesetta della zona, e anche questa mi piacerebbe andar a vederla. Era, quel tempietto, caro alla divozione della Confraternita di Santa Maria dei Battuti. E accoglie sulle pareti l’affresco di un’Ultima Cena. Fascinoso, come lo sono tutti i dipinti murali delle Cene medievali. Che raccontano storia cristiana, ma che sono pure testimoni dei loro tempi. Ché i dipintori, spesso itineranti, nel tratteggiar le vesti e soprattutto gli utensili e i cibi si rifacevano agli usi del luogo. E così, per esempio, nella chiesuola della Trinità della mia Torri del Benaco ci si vede un pesce che somiglia a un carpione del Garda, e in posti di rivoli d’acqua si trovano pitturati i gamberi (con la loro simbologia di resurrezione, appunto: ma sarebbe questione lunga a rinnovarne qui la trattazione). Ebbene, a Valeriano, sulla mensa dipinta, ci sono stoviglie e brocche e coppe che, mi si dice, son somiglianti a quelle ritrovate dagli archeologi sul posto. Ed è bello che l’affresco venga reinterpretato sulle bottiglie. Perché anche questo, anche questa sacralità oggi magari sopita, è in verità parte del terroir. Come il vitigno. Come il suolo. Come il clima. È genius loci, genialità dell’uomo in quelle pezze di terra.
Ho divagato. E adesso dunque torno ai vini (o forse non mi ci sono mai staccato, chissà). E li racconto uno per uno. Descrivendo insieme vino e vitigno. Cominciando da quello che m’è piaciuto di più e via a scalare. E comunque son vini che danno emozione.

Cjanòrie Rosso. Perbacco che interessante! Evviva evviva d’averla ritrovata questa vigna dai chicchi blu violetti. Chissà perché non fu mai coltivata intensamente. Pare abbia origine dalle parti di Gemona. Era usata nei pergolati: è rigogliosa. Il nome deriva dal friulano «ciane», che sta per «canna»: Bulfon ipotizza lo chiamssero così perché lo si tracannava a canna. Mah. Ho bevuto (proprio bevuto, macché assaggiato) la versione del 2005. E se mi capitasse la ribevo di gusto. M’ha stregato per beva. Per malizia. Rosso rubino che sfuma nel violaceo. Naso intrigante da vin brulè (chiodo di garofano e cannella e scorza d’arancia) eppoi fruttino in confettura (il mirtillo, le bacche del sambuco). La bocca ha freschezza e frutta succosa e golosa, con la marasca in primo piano e la mora di rovo e la prugna cotta. Non ha potenza, ma lunghezza ammirevole. Wow!
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
In cantina, prezzo a privati, costa 5 euro alla bottiglia.

Scjaglìn Bianco. Si legge S-ciaglìn. Pare citato già nel Quattrocento. Forse corrisponde all’antica schiadina, menzionata come capace di dar «vini eccellenti per delicatezza e dolce sapore». Vigna da Friuli Occidentale. A metà Ottocento era coltivato fra Vito d’Asio e Fagagna, mezzo secolo dopo era testimoniato fra Maniago e Pinzano. Oggi è ridotto a poca vigna. Ed è un peccato, ché dà un bianco interessante parecchio. Ho bevuto l’annata 2006. Ha colore di paglia dorata. Naso direi quasi aromatico, sul floreale. Bocca intrigante, pur’essa aromatica e fiorale, con vena agrumata, con fondo di nocciole di bosco e di mandorla. Ed ha freschezza salina e note vagamente minerali e bella vena acidula. Mi piacerebbe provarne qualche bottiglia più in là d’età: mi dà l’impressione d’un bianco che regge bene il tempo.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Costa 5 euro.

Piculìt Neri Rosso. Niente a che fare col picolìt. Citata fra le uve esposte nelle mostre dell’Associazione Agraria Friulana di Udine nel 1863 e nel 1921, indicandone la coltivazione nel comune di Castelnovo. Il nome sta per «piccolino», per la forma minuta dell’acino. Ho potuto bere il 2006 e il 2004. E c’è bella differenza. Quello più giovane è rubino-violaceo brillante e lucente nella veste, e tradisce così l’estrema giovinezza. Ed è giovanilmente aggressivo il naso con quel piccolo frutto e quel pepe e quella traccia vinosa. Ed anche in bocca il frutto è compresso: difficile giudicarlo ora. Ma potrebb’evolvere, e aver longevità. E la conferma mi viene dal 2004, che intanto è adulto nella coloritura, rubino profonda. E il naso ha frutto, piccolo, nero, ma anche personalissima venatura minerale di grafite. La bocca è tannica, fruttata, ma anche asprigna e quasi acidula, e dunque tuttora giovanilissima. Alla lunga il fruttato poi si dilata, si distende, e s’arricchisce di spezia, e di nuance agrumata e di tabacco.
Due sorridenti faccini al 2004 :-) :-)
Anche questo 5 euro.

Forgiarìn Rosso. Il nome deriva da quello di Forgaria: aveva, il paesetto, celebri potatori di vigne, ch’emigravano persino in Ungheria. Nell’esposizione regionale delle uve tenutasi a Udine nel 1863 ne veniva indicata l’area di coltivazione nei colli di San Daniele. Provato il giovanissimo e non ancora pronto 2006. Ha colore rubino violaceo, tinta antica, da vin ruspo. naso vinoso. Frutto di bosco e marasca e vena vagamente floreale e una spezia immatura e quasi aggressiva. E rustichetto è in bocca, e tannico, e fruttato della bacca di bosco e acidulo. Chissà com’è quando ha maturato tempo in bottiglia.
Intanto, un faccino ridente e quasi due :-)
Ancora 5 euro.

Cordenossa Rosso. L’ultimo ritrovato. Recentissimo ritrovamento, ma Bulfon ci crede. La vendemmia che mi son trovato in bottiglia è quella del 2006. Ed è anche questo - o forse soprattutto questo - rosso che andrebbe provato più avanti, quand’avrà fatto affinamento a sufficienza. Ché ha materia, parecchia. Il colore è scuro, denso, nero, coll’unghia violacea. All’olfatto, ecco il frutto di bosco, la mora, e poi la ciliegia matura, stramatura direi. E il pepe. E il tabacco da sigaro toscano. La bocca è insieme dolce e fruttata. E speziatina (di spezia fine). Ma anche, per ora, un po’ incompiuta. C’è insomma quasi cesura tra la piacevolezza piena del fruttato e un corpo che ha la profondità che t’aspetti. In ogni caso, segnatelo ‘sto Cordenossa, ché potrà dare cosse notevoli con le prossime vendemmie.
Viene 6 euro.
Sospendo il giudizio, per ora: troppo presto.

Cividìn Bianco. Vitigno negletto, mescolato tutt’al più ad altri nei filari. Il nome deriva dalla città di Cividale, da cui pare origini. Destinato tradizionalmente a far vini leggeri. Da ombra. Se ne trae in effetti un bianco semplicino, tutt’al più da aperitivo di poco impegno. Ho bevuto il 2006. Colore paglierino carico, naso rusticheggiante, contadino, che somiglia a certi trebbianelli rurali che s’usavano (e forse ancora s’usano) nei campi delle mie parti. La bocca ha frutto acerbo, tra la mela e la susina. Buona lunghezza, vagamente speziata. Secco. Certo, nulla a che vedere con la fascinosa personalità che ho detto dello Scjaglìn.
Niente faccino, ma tanta simpatia.
Fa 5 euro.

Questi i vini.
Non ho detto dei due passiti che pure son nel repertorio di Bulfon: il Moscato Rosa e l’Ucelùt (8 euro ciascuno in bottiglia piccola). Ma mi fermo, lasciandovi nell’incertezza. E magari nel piacere della scoperta. Sennò, che gusto c’è?

lunedì 19 febbraio 2007

Do you know Capriano del Colle? Quella vocazione rossista che fa un bel bianco

Angelo Peretti
Ora, non me ne vogliano i caprianesi, ma quando a una certa persona, che se n’intende di vino, ho detto ch’ero stato a veder le vigne di Capriano del Colle, quell’è caduta dalle nuvole: Capriano? Allora, meglio andar per gradi, ché - capisco - non siam mica nel gotha dell’enologia d’Italia.
Capriano del Colle è comune bresciano che ha dato il nome a una doc vinicola. L’area di produzione tocca anche gli ambiti confinanti di Poncarale e Flero. Il che vuol dire, nella sostanza, che si è a un tiro di schioppo da Brescia città, e infatti sembra quasi di toccarla dalla collina, il Montenetto, una sorpresa verde che quasi non t’aspetti.
Arrivarci è un po’ deprimente. Da Brescia Ovest è tutta una fila di brutti capannoni - quelli che Raspelli chiama falansteri, spregiativamente, la sagra padana del brutto nel nome dell’operosità - fino al cartello di Capriano, che non passi però, e invece giri netto a sinistra seguendo l’indicazione per Montenetto. E d’improvviso lo scenario cambia, e si fa campagna, inaspettata, inattesa, e vorrei dir quasi insperata. Ed è campagna bella e ben tenuta, e la strada si stringe e sale appena. Qui e là compare, tra un campo di frumento e uno d’orzo, la vigna, a volte incolta e vecchia e contorta, a volte d’innovato e ben impostato impianto. Capisci dal colpo d’occhio ch’è zona di viticoltura piccolina, ma che ha tradizione vecchia e che vive una trasformazione voluta.
Magari, non andateci di domenica, al Montenetto, ché è preso d’assalto dai cittadini in vena di far biciclettata e jogging, e li comprendo: avere un paradiso a due passi dal caos urbano è un’attrattiva invidiabile. Vogliono farci un parco rurale. Chissà.
Ora, il vino. La doc è dell’81, l’ultima modifica del disciplinare dell’88, ma presto questa sarà probabilmente la penultima, ché i produttori stan lavorando a una variazione ulteriore. Work in progress. Il fatto è che si prescrive un uso abbondante del sangiovese, che ai vigneron del posto non piace, ché non dà risultato apprezzabile in qualità. Il resto è merlot, soprattutto, e marzemino e poca barbera. Per il rosso, intendo. E poi c’è il bianco, e qui è altra sorpresa. Dice il disciplinare: trebbiano. Già, ma se un tempo era - infelicemente - trebbiano toscano, oggi piantano trebbiano di Lugana. Sissignori, l’autoctono delle plaghe argillose del basso Garda. E viene bene.
Argilla sul Montenetto ce n’è in abbondanza. Argilla rossa, però, di quella da mattoni. Dice qualcuno che quando fu creato il mondo, qui si depositò una sorta di accumulo di ghiaioni discesi dalle Alpi: graniti, porfidi spezzati. Di sopra i venti avrebbero depositato sabbia e limo. Oggi hai così sei-sette metri d’argille rosse e sotto ghiaia grossa. Il tutto a fare una sorta di duna, di grosso baule che s’alza d’una cinquantina di metri appena dalla piana, e tanto basta a farne un monte. E fa anche, quella larga terrazza argillosa, da frangivento, ché il temporale gira attorno e piove poco, pochissimo, in estate. Per contro, gira intorno e passa via anche la nube rognosa, quella gravida di tempesta e grandine.
Torno indietro. Dai vitigni capisci che quest’è zona che vuol avere, soprattutto, vocazione rossista, e infatti i bresciani dei dintorni bevono il rosso di Capriano, che ha consumo locale e cittadino. Ma a condurmi al Montenetto è stato un bianco. Quella dell’aziend’agricola intestata oggi ad Anna Botti. Ha un nome emblematico: La Vigna.
Papà Botti, il signor Ugo, faceva il grappaiolo e acquistava vinaccia al Montenetto. Poi comprò anche terra e piantò vigneto. Oggi la figlia e il genero han pres’in mano l’azienda e il signor Ugo comunque bazzica in cantina (e al campo di tamburello, da sempre la sua passione), ma è il marito di Anna, Marco Zizioli, che segue le cose di vigna e di cantina. È, Marco, enologo giovane e di valore, talché alcuni dei vini su cui mette le mani, a Capriano, in Lugana e in Franciacorta, son stati fra le cose nuove che ho trovato più interesanti nelle degustazioni dell’anno passato.
Nell’azienda di casa Botti si fanno un bianco, uno spumante, tre rossi. Che son già a buon livello e che m’aspetto incrementino, come ho aspettativa che un po’ la doc intiera s’elevi. Son solo sei-sette che producono e mettono in bottiglia, per un totale che di bottiglie ne fa appena 200mila, una bazzecola. C’è spazio, dunque, e c’è terra buona, c’è voglia e progettualità. Ho assaggiato in questi anni cose interessanti anche della Cascina Nuova, dei Lazzari, di San Michele, altri produttori caprianesi. Insomma: doc piccolina, ma c’è e cresce, come cresce e crescerà la Vigna dei Botti. Grazie alle idee e ai nuovi impianti che solo adesso cominciano a entrare in produzione.
Intanto, qui sotto, ecco quel che ho trovato, alla Vigna, che di bottiglie in tutto ne fa 30mila, sole.
Capriano del Colle Bianco 2005 Confermo quant’ho già scritto ai primi di luglio: un bianco del genere può convincere anche i più scettici sulla doc caprianese. Frutta (susine goccia d’oro) e nervosa freschezza e fiore bianco e succosità. Tutto trebbiano di Lugana coltivato a Capriano del Colle. E solo acciaio.
Tre faccini contenti :-) :-) :-)
Ha costo contenuto: 3,70 euro in cantina (a privati).
Capriano del Colle Bianco 2003 Non ne risente più di tanto della calura di quell’anno, ché ha frutto integro e beva scattante e ancora giovanissima e anche bella vena salina. Di più, è da encomiare l’azienda che lo tiene in serbo per commerciarne parte insieme alle nuove annate. Convinti, in casa Botti, che il loro bianco abbia doti di longevità. Ed han ragione.
Due lieti faccini :-) :-)
Prezzo come sopra.
Capriano del Colle Bianco 2001 Quelle vendemmiate nel 2001 erano ancora le vecchie vigne. Il vino ha tuttora naso fine ed elegante nelle note floreali e nelle memorie di fieno fresco, ma la bocca palesa le prime note ossidative ed è ahinoi cortina, pur su una beva soda e tesa. Dimostra però le potenzialità che già aveva il terroir, ed è così facile capire le potenzialità d’oggi con le nuove vigne e la tecnologia rinnovata.
Non esprimo faccini. E non è più in vendita.
Capriano del Colle Rosso 2004 Ecco, magari m’aspetterei più pulizia olfattiva, ma c’è carattere e beva schietta e frutto fresco e addirittura quasi acerbo nonostante i due anni ormai passati. Vino tradizionalista. Aggiungo che ho assaggiato le vasche (acciaio) del 2005 e del 2006 e le premesse son buone.
Un faccino :-)
Ahimè, non ho segnato il prezzo.
Capriano del Colle Rosso Riserva Monte Bruciato 2003 Ha bocca piena, pastosa e fruttata questo rosso figlio dell’annata calda, con quell’impostazione sul frutto stramaturo. C’è lunghezza e spessore. Le vigne son quelle vecchie: vale il discorso di sopra, e cioè che quand’arriveranno a regime i nuovi vigneti - e quelli dei rossi maturano più tardi dei bianchisti - m’aspetto belle cose.
Un faccino ridente e quasi due :-)
Ut supra: non so il prezzo.
Montenetto di Brescia Marzemino 2005 Questo è l’igt, tratto dalle uve di marzemino e giocato in stile moderno, molto sul frutto, basso d’alcol, di pronta e franca beva, immediato. Giovanile e pulito.
Un lieto faccino :-)
Qui il prezzo l’ho preso: 5,20 euro a privati in cantina.

Do you know Capriano del Colle? Quella vocazione rossista che fa un bel bianco

Angelo Peretti
Ora, non me ne vogliano i caprianesi, ma quando a una certa persona, che se n’intende di vino, ho detto ch’ero stato a veder le vigne di Capriano del Colle, quell’è caduta dalle nuvole: Capriano? Allora, meglio andar per gradi, ché - capisco - non siam mica nel gotha dell’enologia d’Italia.

Capriano del Colle è comune bresciano che ha dato il nome a una doc vinicola. L’area di produzione tocca anche gli ambiti confinanti di Poncarale e Flero. Il che vuol dire, nella sostanza, che si è a un tiro di schioppo da Brescia città, e infatti sembra quasi di toccarla dalla collina, il Montenetto, una sorpresa verde che quasi non t’aspetti.

Arrivarci è un po’ deprimente. Da Brescia Ovest è tutta una fila di brutti capannoni - quelli che Raspelli chiama falansteri, spregiativamente, la sagra padana del brutto nel nome dell’operosità - fino al cartello di Capriano, che non passi però, e invece giri netto a sinistra seguendo l’indicazione per Montenetto. E d’improvviso lo scenario cambia, e si fa campagna, inaspettata, inattesa, e vorrei dir quasi insperata. Ed è campagna bella e ben tenuta, e la strada si stringe e sale appena. Qui e là compare, tra un campo di frumento e uno d’orzo, la vigna, a volte incolta e vecchia e contorta, a volte d’innovato e ben impostato impianto. Capisci dal colpo d’occhio ch’è zona di viticoltura piccolina, ma che ha tradizione vecchia e che vive una trasformazione voluta.

Magari, non andateci di domenica, al Montenetto, ché è preso d’assalto dai cittadini in vena di far biciclettata e jogging, e li comprendo: avere un paradiso a due passi dal caos urbano è un’attrattiva invidiabile. Vogliono farci un parco rurale. Chissà.

Ora, il vino. La doc è dell’81, l’ultima modifica del disciplinare dell’88, ma presto questa sarà probabilmente la penultima, ché i produttori stan lavorando a una variazione ulteriore. Work in progress. Il fatto è che si prescrive un uso abbondante del sangiovese, che ai vigneron del posto non piace, ché non dà risultato apprezzabile in qualità. Il resto è merlot, soprattutto, e marzemino e poca barbera. Per il rosso, intendo. E poi c’è il bianco, e qui è altra sorpresa. Dice il disciplinare: trebbiano. Già, ma se un tempo era - infelicemente - trebbiano toscano, oggi piantano trebbiano di Lugana. Sissignori, l’autoctono delle plaghe argillose del basso Garda. E viene bene.

Argilla sul Montenetto ce n’è in abbondanza. Argilla rossa, però, di quella da mattoni. Dice qualcuno che quando fu creato il mondo, qui si depositò una sorta di accumulo di ghiaioni discesi dalle Alpi: graniti, porfidi spezzati. Di sopra i venti avrebbero depositato sabbia e limo. Oggi hai così sei-sette metri d’argille rosse e sotto ghiaia grossa. Il tutto a fare una sorta di duna, di grosso baule che s’alza d’una cinquantina di metri appena dalla piana, e tanto basta a farne un monte. E fa anche, quella larga terrazza argillosa, da frangivento, ché il temporale gira attorno e piove poco, pochissimo, in estate. Per contro, gira intorno e passa via anche la nube rognosa, quella gravida di tempesta e grandine.

Torno indietro. Dai vitigni capisci che quest’è zona che vuol avere, soprattutto, vocazione rossista, e infatti i bresciani dei dintorni bevono il rosso di Capriano, che ha consumo locale e cittadino. Ma a condurmi al Montenetto è stato un bianco. Quella dell’aziend’agricola intestata oggi ad Anna Botti. Ha un nome emblematico: La Vigna.

Papà Botti, il signor Ugo, faceva il grappaiolo e acquistava vinaccia al Montenetto. Poi comprò anche terra e piantò vigneto. Oggi la figlia e il genero han pres’in mano l’azienda e il signor Ugo comunque bazzica in cantina (e al campo di tamburello, da sempre la sua passione), ma è il marito di Anna, Marco Zizioli, che segue le cose di vigna e di cantina. È, Marco, enologo giovane e di valore, talché alcuni dei vini su cui mette le mani, a Capriano, in Lugana e in Franciacorta, son stati fra le cose nuove che ho trovato più interesanti nelle degustazioni dell’anno passato.

Nell’azienda di casa Botti si fanno un bianco, uno spumante, tre rossi. Che son già a buon livello e che m’aspetto incrementino, come ho aspettativa che un po’ la doc intiera s’elevi. Son solo sei-sette che producono e mettono in bottiglia, per un totale che di bottiglie ne fa appena 200mila, una bazzecola. C’è spazio, dunque, e c’è terra buona, c’è voglia e progettualità. Ho assaggiato in questi anni cose interessanti anche della Cascina Nuova, dei Lazzari, di San Michele, altri produttori caprianesi. Insomma: doc piccolina, ma c’è e cresce, come cresce e crescerà la Vigna dei Botti. Grazie alle idee e ai nuovi impianti che solo adesso cominciano a entrare in produzione.

Intanto, qui sotto, ecco quel che ho trovato, alla Vigna, che di bottiglie in tutto ne fa 30mila, sole.

Capriano del Colle Bianco 2005 Confermo quant’ho già scritto ai primi di luglio: un bianco del genere può convincere anche i più scettici sulla doc caprianese. Frutta (susine goccia d’oro) e nervosa freschezza e fiore bianco e succosità. Tutto trebbiano di Lugana coltivato a Capriano del Colle. E solo acciaio.

Tre faccini contenti :-) :-) :-)

Ha costo contenuto: 3,70 euro in cantina (a privati).

Capriano del Colle Bianco 2003 Non ne risente più di tanto della calura di quell’anno, ché ha frutto integro e beva scattante e ancora giovanissima e anche bella vena salina. Di più, è da encomiare l’azienda che lo tiene in serbo per commerciarne parte insieme alle nuove annate. Convinti, in casa Botti, che il loro bianco abbia doti di longevità. Ed han ragione.

Due lieti faccini :-) :-)

Prezzo come sopra.

Capriano del Colle Bianco 2001 Quelle vendemmiate nel 2001 erano ancora le vecchie vigne. Il vino ha tuttora naso fine ed elegante nelle note floreali e nelle memorie di fieno fresco, ma la bocca palesa le prime note ossidative ed è ahinoi cortina, pur su una beva soda e tesa. Dimostra però le potenzialità che già aveva il terroir, ed è così facile capire le potenzialità d’oggi con le nuove vigne e la tecnologia rinnovata.

Non esprimo faccini. E non è più in vendita.

Capriano del Colle Rosso 2004 Ecco, magari m’aspetterei più pulizia olfattiva, ma c’è carattere e beva schietta e frutto fresco e addirittura quasi acerbo nonostante i due anni ormai passati. Vino tradizionalista. Aggiungo che ho assaggiato le vasche (acciaio) del 2005 e del 2006 e le premesse son buone.

Un faccino :-)

Ahimè, non ho segnato il prezzo.

Capriano del Colle Rosso Riserva Monte Bruciato 2003 Ha bocca piena, pastosa e fruttata questo rosso figlio dell’annata calda, con quell’impostazione sul frutto stramaturo. C’è lunghezza e spessore. Le vigne son quelle vecchie: vale il discorso di sopra, e cioè che quand’arriveranno a regime i nuovi vigneti - e quelli dei rossi maturano più tardi dei bianchisti - m’aspetto belle cose.

Un faccino ridente e quasi due :-)

Ut supra: non so il prezzo.

Montenetto di Brescia Marzemino 2005 Questo è l’igt, tratto dalle uve di marzemino e giocato in stile moderno, molto sul frutto, basso d’alcol, di pronta e franca beva, immediato. Giovanile e pulito.

Un lieto faccino :-)

Qui il prezzo l’ho preso: 5,20 euro a privati in cantina.

sabato 10 febbraio 2007

Ma la calura i valpolicellesi l’han domata: l’Amarone 2003 è servito

Angelo Peretti
Uva sana e matura. È lo slogan. Quello d’Emilio Pedron, presidente del consorzio della Valpolicella. Per presentare l’annata 2003 dell’Amarone.
Grand’annata, secondo der Präsident. Ma devo dire che qualche dubbio l’avevo - sulla grandezza, intendo - accostandomi alla presentazione en primeur del nuovo millesimo amaronista, nella kermesse consortile di palazzo Verità Poeta, cuor di Verona, il 10 di febbraio. E invece questi qui - i valpolicellesi - il vino hanno imparato a farlo tanto bene, anche negli anni strambi. Ché strambo, lo si ammetta, lo è stato quel 2003 della calura lunga. Eppure il calore l’han domato, a sentire i vini ora usciti e quelli che sono ancora in vasca ad aspettare ancora un poco e gli altri che usciranno ancor più tardi, pur scalpitanti nella botte.
Merito della vigna, ch’è soprattutto in collina, dicono, e che dunque ha risentito meno della calura. Merito della saggezza di produttori che sanno il fatto loro, aggiungo. Merito del terroir, dunque?
Spiega Paolo Fiorini, agronomo, che in vigna del lavoro se n’è dovuto far tanto. Ché è vero che la siccità aveva già fatto scrematura sul fiore, provocando aborto e quindi meno uve, ma poi s’è diradato ancora, perché la vigna non cadesse in stress – acqua non ne cadeva mica da quel cielo africano -, e si sono avuti grappoli spargoli e sanissimi e di già quasi appassiti in campo. Siccità e sanità è lo slogan suo.
E poi in cantina s’è fatto il resto. Riducendo i tempi d’appassimento, talché il Consorzio ha chiesto l’anticipo della pigiatura. Così, se il disciplinare prevede che si possa pigiar dalla metà di gennaio, l’uva del millesimo caldo la si è mostata già dal primo dell’anno. L’ha ricordato, questo, Daniele Accordini, enologo. Che ha definito l’annata sahariana, ed è lo slogan tre. E ha menzionato, anche, i caratteri a suo dire degli Amaroni dell’anno: alcolicità elevata, potenziale aromatico, bei tannini, residuo zuccherino integrato peraltro nel corredo polifenolico del vino, sentori mediterranei, vino da conservare (anche vent’anni, dice). E devo dire che l’elenco è quasi tutto corretto, per i migliori, avendoli provati nel bicchiere. Davvero: i vigneron valpolicellesi han fatto cosa egregia. Ho dubbi solo dell’ultimo carattere, quello della serbevolezza, della longevità, della durata, ché non scommetterei, tanto anomalo è l’anno.
Che poi, capiamoci, fosse vera ‘sta storia del mutamento di clima, è stato anche un eccellente banco di prova quello valpolicellese. E dunque m’aspetto vini anche più interessanti nel 2006, che ha avuto di certo meno botta di caldo concentrata, ma certo lunghezza di siccità e vendemmia con temperatura ancora quasi estive. Ma questo lo vedremo, fra qualch’anno. Intanto, c’è un 2003 consolatorio.
Ora, vorrei dire dei vini assaggiati. E ne cito dieci, tutti quanti - capperi! – coi tre lieti faccini della mia piacevolezza. Ora, lo ripeto, si sappia che son vini mica ancora pronti. Qualcheduno di già in bottiglia, ma non ancora in commercio. Qualch’altro ancora ad affinare nella massa vinosa in cisterna e nel legno. È la decina che più m’ha impressionato. E un altro paio almeno avrei da aggiungere, ma fors’è meglio sospendere per questi il giudizio ed aspettare più meditata evoluzione.
Eccoli qui: son buoni tutti assai, per motivi diversi. Anche se un preferito ce l’ho, ed è un sorprendente, godibilmente bevibile Amarone base di Guerrieri Rizzardi. E appena a un passo c’è il Bertani della Valpantena. E poi un atipicissimo Tedeschi, quello della Fabbriseria. E poi… E poi, se volete, leggete qui sotto.
Amarone Classico della Valpolicella 2003 Guerrieri Rizzardi Che vino! Pensare ch’è ancora in botte (grande). Il naso porge frutto e petalo e scorza di cedro e corteccia di china. La bocca ha freschezza ed eleganza di già, e lunghezza, e beva strepitosa, e nessun’arroganza, niente aggressione del palato. Si facessero in Italia vendite en primeur, sarebbe da comprar subito. Il mio preferito.
Ovvio: tre lieti faccini :-) :-) :-)
Amarone della Valpolicella Valpantena Villa Arvedi 2003 Bertani Et voilà, un altro gioiellino in casa Bertani. Certo, il naso, appena che ti versi il vino nel bicchiere, è tanto, tanto giovinetto. Ma poi s’apre, e ti dischiude le fragranze di frutto e di fiore macerato e di spezia fine. E la bocca è carnosa, e soda, e tesa, e ampiamente, grassamente fruttata. Ed ha tannino slendido, ed avvolgenza.
Tre faccini ridenti :-) :-) :-)
Amarone Classico della Valpolicella La Fabbriseria 2003 Tedeschi Che volete che vi dica : in genere, non amo i rossi ch’eccedono in morbidezza, ma questo qui è vino sì dolcino, eppur mi piace tanto e tanto, ché ha grand’equilibrio, e aristocratica fragranza, e tannino ben modulato. Sembra un grande, antico, decadente Recioto, e non è mica cosa da poco. Anzi. Da stappare e godere.
Tre lietissimi faccini :-) :-) :-)
Amarone Classico della Valpolicella 2003 Zenato Ormai mi stupisco di stupirmi quando bevo l’Amarone basic di Zenato, ma ogni volta è una felice sorpresa. Il naso è ancora chiuso, ma che palato che ha questo rosso! Morbido, suadente, rotondo nella fruttuosità e croccante. Vellutato. Per nient’aggressivo. Piacevolissimo, è il caso di dirlo. E lunghissimo, che ti sembra quasi impossibile.
Tre gaudenti faccini :-) :-) :-)
Amarone della Valpolicella 2003 Cà Rugate L’avevo provato quasi un anno fa al Vinitaly, preso dalla botte, e avevo scritto ch’era «già buono e buonissimo». Confermo adesso: bell’Amarone. Ancora giovane, certo. Ma ha polpa e potenza. Con quel suo frutto esuberante - tanto, tanto, tanto ce n’è di frutta surmatura e dolce - e il suo tannino ben esposto e fors’ancora quasi aggressivo. Vinone.
Tre felici faccini :-) :-) :-)
Amarone della Valpolicella 2003 Trabucchi E bravi l’avvocato e la sua lady, che han tirato fuori quest’Amarone ancora giovinetto ma che promette bene assai. Ha naso bellissimo: frutto rosso e geranio secco e cedro in scorza candita e fior di prato. E bocca che corrisponde. Con avvolgenza, e fascino. Vabbé, il tannino è ancora un pochetto aggressivo, ma aspettiamolo un po’.
Tre contenti faccini :-) :-) :-)
Amarone Classico della Valpolicella Acinatico 2003 Stefano Accordini Oh, se ce n’è del frutto in quest’Amarone. E poi c’è anche, al naso, memoria di spezia, delicata e fine e aristocratica. La bocca è prorompente, potente. E ha pure – ovvio - frutto surmaturo (e la ciliegia cotta) e spezia ancora tanta e tono anche un po’ selvatico e rude. Ma ha pure freschezza ed eleganza.
Tre faccini lieti :-) :-) :-)
Amarone Classico della Valpolicella Crosara de le Strie 2003 Corte Rugolin Passo dopo passo, è cresciuta in qualità la produzione di Corte Rugolin. E adesso ecco quest’Amarone giovinetto che convince e avvince. Entra in bocca deciso, quasi aggressivo, certo, ma poi convince con l’ampiezza e la potenza e la grassezza e la lunghezza del frutto, che trova equilibrio nel bel tannino.
Tre faccini sorridono :-) :-) :-)
Amarone Classico della Valpolicella Punta di Villa 2003 Mazzi Certo, il naso è giovincello assai, ma la bocca è bellissima e vorrei dir leggiadra, ché ha fiore profumato, se non fosse termine out per un vino di simile possanza. In bocca, ancora il petalo macerato, e poi la spezia. Il tannino s’ha da fondere, ma la definizione d’assieme è di valore. E d’eleganza. E il finale ha terrosità fascinosa.
I faccini son tre :-) :-) :-)
Amarone della Valpolicella Campo dei Gigli 2003 Tenuta Sant’Antonio Che sorpresa! I Castagnedi brothers fanno un cambio di stile, e l’applaudo. Certo, il Campo dei Gigli 2003 è vino possente ancora una volta, ma ci trovo un’eleganza nuova, una florealità inattesa. E pur nella grassezza, c’è grande beva: quasi che il cerchio quadri. Poi ho saputo che hanno cambiato modo di vinificare: bravi.
Tre faccini contenti :-) :-) :-)

sabato 3 febbraio 2007

Ed Harpers Wine disse: che il Bardolino ritorni alle origini

Angelo Peretti
Non conosco personalmente Geoff Adams, e comprendo che la notizia non sia di quelle sconvolgenti per il lettore. Aggiungo che è un collega britannico, un giornalista, e che - come s’usa dire dalle mie parti - «ci siamo sbagliati» la scorsa estate, nel senso che siamo passati dalla stessa cantina, quella dei Guerrieri Rizzardi, a Bardolino, nella medesima giornata, senza però incontrarci, per diverso orario. Per quel che mi riguarda, ero là per sentire la contessa Maria Cristina e il figlio Giuseppe, dovendo scrivere la scheda della loro azienda per Vini d’Italia (e fu in qualche modo passaggio benaugurante, visto che poi sarebbero arrivati i tre bicchieri per l’Amarone). Lui invece passava per farsi un’idea d’una serie di vini dell’area bardolinista, e scriverci sopra un pezzo. Bene: quell’articolo è da poco uscito - il 25 di gennaio - per Harpers Wine. E ne sono contento. Perché all’estero finalmente s’è scritto di Bardolino, ch’é per me, figlio di bardolinesi, vino d’affezione, e anche perché innesca qualche importante riflessione sul comparto bardolinista, ma soprattutto perché delinea un’ipotesi di riscossa.
S’intitola, il servizio, «Going back to their roots», che potrei tradurre, grosso modo, «Ritorno alle origini». La tesi esposta cerco di riassumerla. Per tanto tempo - argomenta Harpers Wine -, l’area del Bardolino ha pagato lo scotto del turismo di massa, per cui più che alla qualità s’è puntato a far quantità e quattrini. Adesso però il giocattolo s’è rotto, qui come in altre zone dove si sono adottate in passato le stesse strategie, perché il mercato è cambiato. Ma quei produttori che abbiano voglia di far qualità e d’investire in azienda, hanno a disposizione un territorio di valore, delle condizioni ottimali per la viticoltura e una storia di tutto rispetto. La via è proprio questa: tornare alle origini. Mica male, scritto da un giornale inglese.
«Fortunatamente - dice, forse un po’ impietosamente (o forse no), Geoff Adams - durante gli anni della mediocrità, è resistita una piccola oasi di qualità e di progettualità che ha tenuta viva la fiammella della tradizione vinicola». E, aggiunge, ci sono ancora dei vini semplici, ovviamente, in zona, ma ci si trova chi fa investimenti, e riduce drasticamente le rese nel vigneto, nel nome, appunto, della qualità. «Questi produttori - si legge - stanno tuttora facendo i tradizionali doc di corpo leggero con la corvina, la rondinella e la molinara. La differenza è però che li stanno producendo con una resa dimezzata nel vigneto, e in cantina li realizzano con una pulizia e un’intensità di frutto che non mi era mai capitato di sentire prima in quest’area. E questi vini, secondo me - seguita Adams -, mostrano esattamente come possa essere un Bardolino d’alta qualità se solo gli si dà la possibilità d’esserlo, e ci trasmettono bene le sensazioni del terroir e delle varietà locali. Ma la cosa più importante è che questi vini offrono anche al consumatore un’alternativa rivitalizzante all’attuale stile dei rossi tutti-uguali-legnosi-fruttatoni». Bingo!
Ma come devono essere questi Bardolino di vigna e terroir e di bella beva? Lui, Adams, li descrive così: «I rossi tradizionali di Bardolino sono essenzialmente di corpo leggero in quanto a carattere, abbastanza alti d’acidità e, quando sono ben fatti, appaiono rigorosi, hanno abbondanza di note fruttate di ciliegia, e sono ricchi di complessità. In più, la maggior parte delle vigne della zona sono coltivate su suoli ricchi di magnesio, e questo permette ai vini migliori di possedere un’affascinante mineralità, che esalta il frutto invece che sovrastarlo, che elargisce una sensazione di vera eleganza, di stile, e che di rende molto versatili. Questa loro flessibilità costituisce un notevole plusvalore quando vengono inseriti in una lista dei vini, anche perché si tratta di rossi che hanno il vantaggio di poter rinfrescare bene, divenendo così una vera alternativa ai bianchi o ai rosè nella stagione calda». Di nuovo, bingo!
Nei giorni in cui ci si sta un po’ stufando (un po’, ché la tendenza è ancora ben radicata nel mercato) di vini tutto frutto e tutto tannino e tutto concentrazione e tutto alcol (e a volte tutto legno), il Bardolino ha le sue chance da giocare. Insomma: se si torna a cercare il vino che si beve senza dover far la lotta greco-romana col bicchiere, allora la denominazione gardesana ha dei numeri. Ma non sono ammesse sbavature. Niente errori stilistici. La gente che beve non li accetterebbe. Ché è vero che l’innamoramento per il vino palestrato sta scemando, ma è altrettanto vero che un decennio di flirt quasi totalizzante con le bottiglie più muscolose ha abituato il palato del bevitore. E quindi beva sì, ma anche frutto e personalità e complessità. Ce la può fare il Bardolino? Certo che ce la può fare, ché vini di questo genere già ce n’è più d’uno e ancora ci sono margini di miglioramento. Io ci credo.
Eppoi c’è la questione del terroir. Che è una specie di leit-motiv dei depliant aziendali e dei comunicati stampa e dei convegni, ma che poi non è mica così chiaro che cosa sia e come debba comparire e se si voglia davvero crederci e valorizzarlo. E invece è un’altra chance, che in terra bardolinista è tutta da scoprire. O meglio, come dice il collega british, da riscoprire. C’è insomma in qualche modo davvero da tornare alle origini. E se si vuol parlar d’origini, allora bisogna ricordare che un secolo fasi distinguevano aree diverse nel territorio del Bardolino, e alle differenti zone corrispondevano vini di chiara personalità, identificativi delle loro terre natie in fatto di caratteri organolettici e di stile e personalità. Insomma: i Bardolino di terroir c’erano prima che arrivasse il boom del dopoguerra, e dunque l’impresa cui ci si può - deve? - accingere non è disperata. Affatto.
Eppoi il Bardolino più buono è beverino sì, ma non per forza giovincello. Mi spiego. Succede che alcune aree della terra bardolinista - alcuni specifici terroir, per seguitare a dirla alla francese - esprimano dei vini che donano il meglio di sé a estate passata. Da settembre in poi, a volte il second’anno. E mica solo oggi. Nel 1931 i tecnici della regia stazione sperimentale di Conegliano scrivevano che «nelle migliori annate, se ben lavorato, il Bardolino può anche subire un breve invecchiamento: risulta allora un buon vino superiore, dal colore rosso granato tendente all’aranciato, dotato di un intenso profumo gradevole e dal sapore che ricorda molto il tipo fino, ma con caratteristiche di vino vecchio». Già all’inizio del secolo, il Perez aveva osservato che, pur essendo pronti già nell’inverno dopo la vendemmia, i vini bardolinesi si potevano tranquillamente conservare sino all’estate grazie al «tannino che contengono». A Milano anzi, aggiungeva, li toglievano di damigiana il secondo anno, trovandoli «davvero gustosi».
Ora, capisco che forse mi son fatto prendere la mano, ché avevo solo intenzione di commentare un articolo uscito in Inghilterra. Ma che volete farci: passion is passion. E se mi rimetto di nuovo in carreggiata con quel che ha scritto Geoff Adams, mi tocca ritornar di nuovo al terroir. Ché lui mica s’è accontentato di tastare i Bardolino, ma ha voluto anche provare gli altri rossi fatti sulle medesime terre. A volte sperimentali con l’uve tipiche del luogo, altre volte co’ vitigni bordolesi. Ed è venuto fuori che anche a questi - a suo parere (e m’associo) - le terre conferiscono personalità. Dunque, ecco i fuori-denominazione, i vini sperimentali. Che al collega britannico sono piaciuti e secondo lui - e non so come dargli torto - indicano una tendenza da guardare con attenzione. «Vale la pena di osservare - dice - che alcuni produttori hanno gettato via gli indugi e si sono fatti più avventurosi, mettendosi a realizzare vini molto buoni utilizzando sia le varietà italiane che quelle internazionali, e talvolta facendoli invecchiare per periodi più lunghi in botte. Questo comporta che automaticamente questi vini ricadano in categorie inferiori alla doc - l’igt oppure il vino da tavola -, ma alcuni sono assolutamente impressionanti, e rappresentano una firma distintiva per quei vignaioli che hanno avuto il coraggio d’intraprendere questa strada».
Ora, visto che l’ho citato e chiosato, è anche giusto che citi quelli che potrei definire i consigli per gli acquisti, i vini preferiti da Geoff Adams. Preferiti, chiaro, fra quelli che ha assaggiato. Per tipologie li riporto qui sotto.
Bardolino 2005: Guerrieri Rizzardi (base e Tacchetto), Poggi, Le Fraghe, Buglioni.
Bardolino 2004: Giovanna Tantini.
Bardolino Chiaretto 2005: Ròdon Le Fraghe, Guerrieri Rizzardi, Poggi, Cavalchina, Bardolino Chiaretto Spumante Costadoro.
Bardolino Superiore 2004: Valetti, Munus Guerrieri Rizzardi, Le Tende, Le Olle Lenotti.
Vini sperimentali: Castello Guerrieri 2001 Guerrieri Rizzardi, Ribaldo 2004 e Garda Merlot Naker 2002 Poggi, Massimo 2003 Lenotti, Rosso di Corte 1999 Corte Gardoni, Quaiare 2001 Le Fraghe.
Sic dixit Geoff Adams.
Chi volesse leggere l’originale, può andare all’indirizzo internet www.harpers-wine.com: il testo completo è disponibile solo per gli abbonati, ma l’abbonamento di prova è gratuito.