sabato 3 febbraio 2007

Ed Harpers Wine disse: che il Bardolino ritorni alle origini

Angelo Peretti
Non conosco personalmente Geoff Adams, e comprendo che la notizia non sia di quelle sconvolgenti per il lettore. Aggiungo che è un collega britannico, un giornalista, e che - come s’usa dire dalle mie parti - «ci siamo sbagliati» la scorsa estate, nel senso che siamo passati dalla stessa cantina, quella dei Guerrieri Rizzardi, a Bardolino, nella medesima giornata, senza però incontrarci, per diverso orario. Per quel che mi riguarda, ero là per sentire la contessa Maria Cristina e il figlio Giuseppe, dovendo scrivere la scheda della loro azienda per Vini d’Italia (e fu in qualche modo passaggio benaugurante, visto che poi sarebbero arrivati i tre bicchieri per l’Amarone). Lui invece passava per farsi un’idea d’una serie di vini dell’area bardolinista, e scriverci sopra un pezzo. Bene: quell’articolo è da poco uscito - il 25 di gennaio - per Harpers Wine. E ne sono contento. Perché all’estero finalmente s’è scritto di Bardolino, ch’é per me, figlio di bardolinesi, vino d’affezione, e anche perché innesca qualche importante riflessione sul comparto bardolinista, ma soprattutto perché delinea un’ipotesi di riscossa.
S’intitola, il servizio, «Going back to their roots», che potrei tradurre, grosso modo, «Ritorno alle origini». La tesi esposta cerco di riassumerla. Per tanto tempo - argomenta Harpers Wine -, l’area del Bardolino ha pagato lo scotto del turismo di massa, per cui più che alla qualità s’è puntato a far quantità e quattrini. Adesso però il giocattolo s’è rotto, qui come in altre zone dove si sono adottate in passato le stesse strategie, perché il mercato è cambiato. Ma quei produttori che abbiano voglia di far qualità e d’investire in azienda, hanno a disposizione un territorio di valore, delle condizioni ottimali per la viticoltura e una storia di tutto rispetto. La via è proprio questa: tornare alle origini. Mica male, scritto da un giornale inglese.
«Fortunatamente - dice, forse un po’ impietosamente (o forse no), Geoff Adams - durante gli anni della mediocrità, è resistita una piccola oasi di qualità e di progettualità che ha tenuta viva la fiammella della tradizione vinicola». E, aggiunge, ci sono ancora dei vini semplici, ovviamente, in zona, ma ci si trova chi fa investimenti, e riduce drasticamente le rese nel vigneto, nel nome, appunto, della qualità. «Questi produttori - si legge - stanno tuttora facendo i tradizionali doc di corpo leggero con la corvina, la rondinella e la molinara. La differenza è però che li stanno producendo con una resa dimezzata nel vigneto, e in cantina li realizzano con una pulizia e un’intensità di frutto che non mi era mai capitato di sentire prima in quest’area. E questi vini, secondo me - seguita Adams -, mostrano esattamente come possa essere un Bardolino d’alta qualità se solo gli si dà la possibilità d’esserlo, e ci trasmettono bene le sensazioni del terroir e delle varietà locali. Ma la cosa più importante è che questi vini offrono anche al consumatore un’alternativa rivitalizzante all’attuale stile dei rossi tutti-uguali-legnosi-fruttatoni». Bingo!
Ma come devono essere questi Bardolino di vigna e terroir e di bella beva? Lui, Adams, li descrive così: «I rossi tradizionali di Bardolino sono essenzialmente di corpo leggero in quanto a carattere, abbastanza alti d’acidità e, quando sono ben fatti, appaiono rigorosi, hanno abbondanza di note fruttate di ciliegia, e sono ricchi di complessità. In più, la maggior parte delle vigne della zona sono coltivate su suoli ricchi di magnesio, e questo permette ai vini migliori di possedere un’affascinante mineralità, che esalta il frutto invece che sovrastarlo, che elargisce una sensazione di vera eleganza, di stile, e che di rende molto versatili. Questa loro flessibilità costituisce un notevole plusvalore quando vengono inseriti in una lista dei vini, anche perché si tratta di rossi che hanno il vantaggio di poter rinfrescare bene, divenendo così una vera alternativa ai bianchi o ai rosè nella stagione calda». Di nuovo, bingo!
Nei giorni in cui ci si sta un po’ stufando (un po’, ché la tendenza è ancora ben radicata nel mercato) di vini tutto frutto e tutto tannino e tutto concentrazione e tutto alcol (e a volte tutto legno), il Bardolino ha le sue chance da giocare. Insomma: se si torna a cercare il vino che si beve senza dover far la lotta greco-romana col bicchiere, allora la denominazione gardesana ha dei numeri. Ma non sono ammesse sbavature. Niente errori stilistici. La gente che beve non li accetterebbe. Ché è vero che l’innamoramento per il vino palestrato sta scemando, ma è altrettanto vero che un decennio di flirt quasi totalizzante con le bottiglie più muscolose ha abituato il palato del bevitore. E quindi beva sì, ma anche frutto e personalità e complessità. Ce la può fare il Bardolino? Certo che ce la può fare, ché vini di questo genere già ce n’è più d’uno e ancora ci sono margini di miglioramento. Io ci credo.
Eppoi c’è la questione del terroir. Che è una specie di leit-motiv dei depliant aziendali e dei comunicati stampa e dei convegni, ma che poi non è mica così chiaro che cosa sia e come debba comparire e se si voglia davvero crederci e valorizzarlo. E invece è un’altra chance, che in terra bardolinista è tutta da scoprire. O meglio, come dice il collega british, da riscoprire. C’è insomma in qualche modo davvero da tornare alle origini. E se si vuol parlar d’origini, allora bisogna ricordare che un secolo fasi distinguevano aree diverse nel territorio del Bardolino, e alle differenti zone corrispondevano vini di chiara personalità, identificativi delle loro terre natie in fatto di caratteri organolettici e di stile e personalità. Insomma: i Bardolino di terroir c’erano prima che arrivasse il boom del dopoguerra, e dunque l’impresa cui ci si può - deve? - accingere non è disperata. Affatto.
Eppoi il Bardolino più buono è beverino sì, ma non per forza giovincello. Mi spiego. Succede che alcune aree della terra bardolinista - alcuni specifici terroir, per seguitare a dirla alla francese - esprimano dei vini che donano il meglio di sé a estate passata. Da settembre in poi, a volte il second’anno. E mica solo oggi. Nel 1931 i tecnici della regia stazione sperimentale di Conegliano scrivevano che «nelle migliori annate, se ben lavorato, il Bardolino può anche subire un breve invecchiamento: risulta allora un buon vino superiore, dal colore rosso granato tendente all’aranciato, dotato di un intenso profumo gradevole e dal sapore che ricorda molto il tipo fino, ma con caratteristiche di vino vecchio». Già all’inizio del secolo, il Perez aveva osservato che, pur essendo pronti già nell’inverno dopo la vendemmia, i vini bardolinesi si potevano tranquillamente conservare sino all’estate grazie al «tannino che contengono». A Milano anzi, aggiungeva, li toglievano di damigiana il secondo anno, trovandoli «davvero gustosi».
Ora, capisco che forse mi son fatto prendere la mano, ché avevo solo intenzione di commentare un articolo uscito in Inghilterra. Ma che volete farci: passion is passion. E se mi rimetto di nuovo in carreggiata con quel che ha scritto Geoff Adams, mi tocca ritornar di nuovo al terroir. Ché lui mica s’è accontentato di tastare i Bardolino, ma ha voluto anche provare gli altri rossi fatti sulle medesime terre. A volte sperimentali con l’uve tipiche del luogo, altre volte co’ vitigni bordolesi. Ed è venuto fuori che anche a questi - a suo parere (e m’associo) - le terre conferiscono personalità. Dunque, ecco i fuori-denominazione, i vini sperimentali. Che al collega britannico sono piaciuti e secondo lui - e non so come dargli torto - indicano una tendenza da guardare con attenzione. «Vale la pena di osservare - dice - che alcuni produttori hanno gettato via gli indugi e si sono fatti più avventurosi, mettendosi a realizzare vini molto buoni utilizzando sia le varietà italiane che quelle internazionali, e talvolta facendoli invecchiare per periodi più lunghi in botte. Questo comporta che automaticamente questi vini ricadano in categorie inferiori alla doc - l’igt oppure il vino da tavola -, ma alcuni sono assolutamente impressionanti, e rappresentano una firma distintiva per quei vignaioli che hanno avuto il coraggio d’intraprendere questa strada».
Ora, visto che l’ho citato e chiosato, è anche giusto che citi quelli che potrei definire i consigli per gli acquisti, i vini preferiti da Geoff Adams. Preferiti, chiaro, fra quelli che ha assaggiato. Per tipologie li riporto qui sotto.
Bardolino 2005: Guerrieri Rizzardi (base e Tacchetto), Poggi, Le Fraghe, Buglioni.
Bardolino 2004: Giovanna Tantini.
Bardolino Chiaretto 2005: Ròdon Le Fraghe, Guerrieri Rizzardi, Poggi, Cavalchina, Bardolino Chiaretto Spumante Costadoro.
Bardolino Superiore 2004: Valetti, Munus Guerrieri Rizzardi, Le Tende, Le Olle Lenotti.
Vini sperimentali: Castello Guerrieri 2001 Guerrieri Rizzardi, Ribaldo 2004 e Garda Merlot Naker 2002 Poggi, Massimo 2003 Lenotti, Rosso di Corte 1999 Corte Gardoni, Quaiare 2001 Le Fraghe.
Sic dixit Geoff Adams.
Chi volesse leggere l’originale, può andare all’indirizzo internet www.harpers-wine.com: il testo completo è disponibile solo per gli abbonati, ma l’abbonamento di prova è gratuito.

Nessun commento:

Posta un commento