sabato 26 maggio 2007

Luciano, il terroir e le guide del vino

Angelo Peretti
Credo che di Luciano Pignataro ce ne siano più d’uno. Perché non riesco a capacitarmi di come faccia da solo questo collega, giornalista del Mattino di Napoli, a fare tutto quel che fa. Non c’è evento del mondo dell’enogastronomia della terra campana che non lo veda protagonista. Il suo sito www.lucianopignataro.it è, direi sicuramente, il più letto di tutto il Meridione, migliaia di contatti al giorno. E fa una guida ai vini della Campania che ritengo esemplare. E avrà pure una vita privata, vivaddìo! Mah.
Gliel’ho anche chiesto, via mail, come riesca a mettere insieme tutte queste cose. E mi ha risposto, laconico: «Non perdo tempo con le donne come te!» Spiritoso, l’uomo.
Ma sulla guida enoica di Luciano ci voglio ritornare, ché è interessante parecchio. Ma mica per recensirla (e basta). No. Piuttosto, perché m’ha fatto riflettere sul senso di far guide del vino oggi.
Una cosa per volta.
Intanto, in poche righe, il libro. S’intitola «La nuova guida completa ai vini della Campania», Edizioni dell’Ippogrifo, 23,80 euro. Presenta 240 aziende e 1500 etichette della regione. Una specie di enciclopedia del vino campano. «La guida - dice Luciano in un comunicato che m’ha inviato - è sponsor free: nessun contributo privato o pubblico, niente pubblicità dirette o indirette (vedi acquisto copie concordato prima della stesura). L'autonomia di giudizio è garantita dall'investimento editoriale perché questo lavoro è stato pensato per i lettori e gli operatori del settore in una fase in cui la critica enologica sta subendo un profondo ripensamento. Ogni scelta, ogni valutazione, ogni indicazione, è il frutto di una scelta consapevole dell'autore e dei giornalisti che hanno partecipato all'impresa». Applaudo.
E fin qui il volume in sé. Quel che però mi piace dell’approccio di Luciano ai vini della sua terra, è che lo scriver di vino è per lui una sorta di pretesto per raccontare di sociologia, d’antropologia, d’economia, di tradizione e storia e finanza, di peccato e santità, di vizi e di virtù delle genti di questa o quest’altra provincia. Il vino come metafora della vita? Può essere. Che poi tutto questo, insieme ai vitigni (e in Campania ce n’è un centinaio) e ai suoli e al clima, è quel che i francesi, con un’intraducibile parola che supera la parola e si fa concetto e filosofia, chiamano terroir.
Già, terroir, parola magica. Che troppo spesso confondiamo con terreno o territorio. Macché. È soprattutto uomo, umanesimo, pensiero, idea, anima. Orgoglio di mettere in bottiglia una propria concezione del mondo, quello nel quale si vive e si fa vino. Questo dovrebb’essere la via al vino vero. Mica pura tecnologia, mica enologia esasperata. Se fosse solo questione di tecnica, il Tavernello sarebbe re: tecnologicamente ben fatto e a piccolo costo. Vorremo mica tavernellizzarci tutti, vero?
La sociologia, dicevo sopra, è uno dei contenuti del lavoro di Pignataro. Sentite come descrive l’origine delle magagne commerciali dei vini di Napoli e provincia: «La coscienza partenopea non prende atto ancora del fatto che in Italia ci sono ormai altre due città ben più importanti e che il baricentro psicologico del mondo si sta spostando verso il Pacifico, sicché la comunità sopravvive con le sue ritualità liturgiche sempre meno pratiche e più ingombranti, talvolta simpatiche ma sempre comunque stancanti. Ciò che era veloce all’inizio del ‘900 è ormai terribilmente lento ai giorni nostri. Stupisce come questa autoreferenza del subconscio, comune ai cittadini delle grandi capitali, metta insieme plebe e aristocrazia, analfabeti e intellettuali, impiegati e disoccupati: tutto nasce e muore a Napoli, la campagna non è vista come risorsa da valorizzare attraverso la cura costante, quanto come una miniera da sfruttare sino all’esaurimento. Il nocciolo della questione meridionale è, tutto sommato, nel fatto che l’aristocrazia borbonica bruciava i suoi averi per fare palazzi e stare magnificamente in città mentre quella toscana coltivava la terra e i Savoia facevano guerre a destra e a manca trasferendo l’astuzia montanara nei giochi diplomatici». Serve dire altro? Ed è scrivere di vino, questo? Sissignori, è scriver di vino, è scriver di gente, è scrivere insomma di vita partendo, appunto, dal vino. Che ha nella vita dell’uomo la sua essenza principale, più del vitigno, del suolo, del clima, della tecnica di cantina.
E quell’autoreferenzialità che Luciano riferisce a Napoli e ai napoletani non è forse l’origine vera del cronico ritardo del decollo di tante aree vinicole, mica solo nel Sud? Penso ad esempio al «mio» lago di Garda: le modalità sono diverse, certo, ma la causa è, probabilmente, la stessa: essere sempre e comunque autoreferenti. Quanti pensate siano i produttori che hanno l’abitudine di assaggiare con costanza i vini altrui? E per altrui intendo sia quelli dei produttori della stessa zona, sia quelli dei vigneron d’altre latitudini. Macché: il vino lo fanno e mica lo bevono, loro. E come volete che possa crescere la coscienza produttiva, se poi manca il confronto, se poi difetta l’apertura al mondo? Se si pensa che per fare vino migliore basta comprare una diavoleria tecnica in più? Se vai a trovare un produttore italiano, ti mostra con orgoglio la sua cantina e l’ultima, fiammante macchina enologica. Se vai a trovare un vigneron francese, ti porta, con orgoglio, a vedere la vigna, e poi t’accorgi che, magari, in cantina c’è poco o niente in fatto di tecnologia, e c’è una muffa di tre dita.
Ora, di tutto questo, noi che scriviamo, chi più chi meno, di vino, facciamo fatica a parlare. Perché spesso ci nutriamo della stessa cultura, iper-razionalista, di cui si nutrono i produttori nostrani. E dunque il lettore, che è poi chi il vino lo dovrebbe comprare e vendere e bere, farà ancora più fatica a capire.
Certo, ci son le guide. E secondo me aiutano: ne sono convinto. Io le guide le faccio, e le faccio perché ci credo. E capisco che perfetti non si è e non si può essere. Ma le guide sono servite e servono. Chiedetelo ai produttori, se non servono. Solo chi non c’è le snobba. Come la volpe e l’uva, ricordate? Siccome la volpe non arriva a prender l’uva, allora dice che è acerba. Dite quel che volete di Vini d’Italia, ma senza la guida del Gambero e Slow Food dove sarebbe la cultura del vino italiano oggi?
Però, c’è un però. Però mi piacerebbe che in Italia esistesse una guida come la Hachette francese, e il libro di Luciano Pignataro mi ci fa ancora più convinto. Non perché il lavoro di Luciano ci assomigli, alla Hachette, ché anzi anche la sua guida poggia sulla stessa anomalia ch’è tipica di tutte le altre guide italiche (e dopo dico qual è, quest’anomalia), ma perché, appunto, mira a descrivere la gente più che la tecnica, il terroir più che la terra, l’autenticità più che la concentrazione.
Cos’ha di particolare questa Hachette che tanto mi piace? Ha che i vini non sono recensiti per cantina. Sono recensiti per denominazione d’origine. E all’interno delle denominazioni d’origine, per denominazione comunale. Vino per vino, non produttore per produttore.
In più, sulla Hachette d’ogni vino si dà un giudizio in stelline, ed è un giudizio assoluto, che descrive il vino in sé. E poi ad alcuni, prescindendo dal numero di stelline, si dà il coup de coeur, che mette in luce la miglior fedeltà al terroir d’origine. Così potremo avere un vino con tre stelline senza coup de couer, e dunque sarà un vino buonissimo, ma non necessariamente il più fedele descrittore di quella denominazione in quell’annata. E potremo avere un vino da due stelline col coup de coeur, e dunque sarà un vino non d’enorme impatto in sé, ma certamente il meglio di quell’anno per quel suo particolare terroir. Ecco: questo è quel che credo serva al «nuovo» utente del vino italiano.
Da noi sulle guide si presentano invece le aziende: ecco l’anomalia. Sulla Hachette si parla dei vini e dei loro terroir. Sicché, magari, un certo produttore può avere cinque schede per cinque diversi vini di terroir, e un altro una scheda sola. E dunque anche il piccolissimo produttore, quello che magari fa un solo vino di una denominazione minore, può aver la stessa chance d’essere in guida di quell’altro che fa tanti vini in un’area più celebre e quotata. Da noi non succederebbe.
Capisco che l’ho fatta lunga e che il brodo lungo non piace a nessuno. Ma l’idea di fare una guida ai terroir della mia terra m’intriga e il fatto che Luciano Pignataro sia riuscito a mettere insieme per due volte una sua guida ai vini della Campania mi stuzzica ancora di più.
Quel che spero è che comunque alla fine trionfino i vini autenticamente di terroir. E per questo serve il contributo di tanti. Di chi fa vino, certo, ma anche di chi lo vende, di chi lo compra, di chi lo beve e di chi ne scrive. Io ne compro, ne bevo e ne scrivo. Cerco di metterci del mio. Luciano Pignataro ha fatto di più.

domenica 20 maggio 2007

Storia di bianchi di dieci e più anni

Angelo Peretti
C’è chi è nato postumo. Lo diceva Friedrich Nietzche, filosofo. Ora, fatte le debite proporzioni, un sentimento del genere mi capita di sentirmelo talvolta appiccicato addosso. Quando dicevo che certi bianchi sono buoni almeno dopo cinque anni di bottiglia, mi si guardava con compassione. Quando scrivevo di mineralità, l’ironia fioccava. Quando sostenevo che la beva è un fattore importante per un rosso, si dubitava della sanità mentale. E se affermavo che mi piacevano i rosati, be’, peggio per me. Oggi le «nuove» parole d’ordine del vino sembrano quelle lì: longevità, mineralità, beva. E i rosè «tirano» come non mai sul mercato. Avviso: da qualche tempo mi stanno intrigando le accese freschezze dei Riesling della Mosella di due-tre anni d’età e le ossidazioni - volute e ben compensate dalla spinta acida - dei bianchi del Jura...
Detto questo, non posso che esser lieto che - finalmente - si propongano iniziative volte a valorizzare sul serio i bianchi capaci d’invecchiare, mentr’attendo ancora che - finalmente - qualcosa si faccia per i rossi da bere. E nel primo ambito, una manifestazione di valore è quella che Bruno Donati, grazie al sostegno, che mi par convinto, del Consorzio del Soave, realizza da un paio d’annetti a Monteforte d’Alpone, est della provincia veronese, mettendo insieme cento e passa bianchi più o meno longevi dell’italica terra tutta.
Quest’anno, alla seconda puntata, devo dire che il livello di «Tutti i colori del bianco» (è il titolo della kermesse archeobianchista) è stato alto. Sia per i vini in degustazione, sia, soprattutto, per il qualificato parterre di produttori (mica facile sentire insieme i Felluga, gli Jermann, i Benanti, i Massa, i Soldati, i Folonari, giusto per dirne qualcheduno) che hanno preso a interrogarsi insieme (molti di loro certamente lo facevano di già, ma in solitudine quasi sempre) di come il vino sia più figlio del terroir che non della cantina. E già questo avrebbe giustificato lo sforzo organizzativo.
Eppoi, com’ha giustamente mess’in luce Mario Pojer, vigneron tridentino, è bene riflettere sui vitigni autoctoni, che han retto e reggono meglio degl’internazionali. Ma mica ci si deve pensare per feticismo o moda. Il fatto è che le vigne internazionali qui da noi maturano tropp’in fretta, mentre quelle di storica presenza hanno tempi più lunghi, e dunque più perfetta completezza e anche potenziale maggior finezza e longevità dei vini che se ne traggono. E mi par si possa esser d’accordo. Purché s’abbia rispetto non tanto e non solo del vitigno in sé, quanto della sua interazione con la terra, col clima, con la storia, con l’uomo, col terroir insomma. E si pensi che la cantina e la tecnologia son buone se permettono di meglio preservare quant’è nato in vigna, e solo questo.
Ora, mi vien voglia di dire qualcosa dei bianchi «vecchi» che ho assaggiato. E siccome erano tanti e tanti nel chiostro montefortiano, mi limito a quella quindicina che ho tastato alla degustazione destinata ai giornalisti e affini. E dunque, andiamo, in ordine d’età, dal più giovane al più vecchio. Senza voti o faccini o quant’altro, come già l’anno passato.
Avverto poi che il nome del vino l’ho ricavato da testi e guide e siti, perché purtroppo il foglietto distribuito in sala era troppo sintetico e assai impreciso (e questa direi è l’unica cosa davvero da migliorare dell’evento di Monteforte). Ergo: ce l’ho messa tutta, ma non assicuro che la denominazione sia esattamente quella ch’era in uso nell’annata.
Comincio.
Colli Orientali del Friuli Rosazzo Bianco Terre Alte 1997 Livio Felluga Che vino! Fu tre bicchieri di Vini d’Italia. Glieli ridarei di nuovo. Ché è ancora terribilmente giovane. Color giallo-verde. Fascinoso naso di fiori e clorofilla e pompelmo. E in bocca ancora vegetalità e agrumi e salvia e anice e pesca bianca e florealità. E freschezza. E lunghezza. E capacità di reggere nel calice. Buono, buono, buono.
Caluso Bianco Vignot S. Antonio 1997 Orsolani Scrivo Caluso Bianco Vignot S. Antonio, ché credo questo fosse allora il nome giusto: il foglio di sala dice solo Vignot Erbaluce. Comunque, un Erbaluce, Piemonte. Al naso, un po’ ossidativo. Ha cedro ed ananasso quasi canditi e vaghe note d’erba limoncella. Il bocca ancora vene agrumate e discreta freschezza e frutto morbido. Si fa ancora bere. Niente di più.
Soave Classico 1997 Suavia Bottiglia ossidata. Peccato.
Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore Podium 1997 Garofoli Giuro che m’impegnerò a cercar di capire il Podium. Un Verdicchio che sa di legno senz’essere mai stato nel legno: pazzesco. Fin qui, confesso d’averlo sempre trovato ostico. Eppure senti che ha materia e personalità, che si disvelano con lentezza nel bicchiere. Fa meditare, ma fatico. Il ’97 fu tribicchierato da Vini d’Italia.
Terre di Franciacorta Marengo 1996 Villa Burroso. Frutto tropicale. Vene ossidative. È un bianco datato, indicatore di mode che al suo tempo - un decennio fa - ancora imperavano (imperversavano) sull’onda delle sirene mercantili americane e dunque si piantava ovunque chardonnay e si affinava comunque in barrique tostata e vanigliata. Non è (e non è mai stato) il mio tipo di vino.
Etna Superiore Pietramarina 1996 Benanti Mai stati sull’Etna? Se volete ritrovarne gli odori e i caratteri in un vino, bevete il Pietramarina di Benanti. Che abbia qualche anno. Signori, giù il cappello: quest’è un fuoriclasse. Naso vulcanico, minerale di pietra focaia, elegantissimamente speziato. E vene di pasta di mandorla. In bocca si replica. In più, freschezza e morbidezza e polpa. E lunghezza. Capolavoro.
Lugana Sergio Zenato 1996 Zenato Fu, il ’96, ottima annata in terra luganista. E Sergio Zenato è uno dei padri del Lugana. Conosco il vino, e dunque posso dire che la mia bottiglia non era perfetta: dunque, da riprovare. Posso anche dire che, alla lunga, mi si conferma che il legno (la barrique) non è la miglior soluzione per affinare il bianco del mio lago di Garda: a mio parere è meglio, di gran lunga, l’acciaio.
Gavi di Gavi d’Antan 1995 La Scolca Giorgio Soldati s’è detto orgoglioso di questo suo Gavi ultradecenne, e ne ha buon diritto. L’avevo già bevuto due volte e sempre m’era piaciuto. Confermo. E mi piace soprattutto al naso, con quel suo bel frutto giallo perfettamente integro: è pesca, direi, matura e gialla. E anche in bocca torna succosa la pesca, di giovanile pulizia. E c’è buona freschezza.
Il Tornese Chardonnay 1995 Drei Donà Chardonnay in terra di Sangiovese: all’epoca, fece scalpore questo Tornese. Ed è proprio come ascoltare certe musiche di qualche anno fa: le senti datate. Ecco: quest’è un vino che tuttora si fa stimare per il livello dell’interpretazione tecnica, che conferma il valore dell’azienda, ma quelle morbidezze di frutto filoamericaneggianti non fanno per me.
Soave Classico Superiore Contrada Salvarenza Vecchie Vigne 1995 Gini Fu, il Salvarenza ’95, il primo tre bicchieri di Sandro Gini. Ed era un Soave di taglio innovativo: mostrava che si poteva far garganega in barrique senza che il legno sovrastasse il frutto, A distanza d’anni, eccolo qui, ad esprimer tuttora, grassa e opulente eppure fresca ancora, la garganega di Monteforte. E quelle vene minerali delle terre basaltiche.
San Lorenzo 1995 Dominio di Bagnoli Lorenzo Borletti racconta che è vino frutto d’errore, d’un vigneto non raccolto, e l’uva è surmaturata e s’è ammantata di muffe. Dice pure: in riva all’Adige, dov’è la vigna, ci son condizioni simili a quelle di Sauternes. Dico: esagerato! Ma, pur con le carenze di pulizia aromatica, ha curiose vene di iodio e di cloro e bocca abbastanza sul frutto e secca. Chissà…
Vintage Tunina 1995 Jermann Dite quel che volete sullo stile, ma quest’è un bianco fatto bene e bene assai. Fu tre bicchieri di Vini d’Italia, e personalmente glieli ridarei. All’olfatto si concede con gradualità. In bocca c’è esemplare nitore di memorie fruttate e floreali. C’è polpa, certo, ma quel che ti sorprende di più a ogni assaggio è proprio questa definizione dei contorni, questa pulizia.
Vignamare 1994 Lupi Un pigato, e dovremo davvero mettercelo in testa che questo è un grandissimo vitigno. E son bianchi marini, quelli che se ne traggono sulle coste di Liguria. Bianchi che sanno di iodio e di macchia mediterranea. E già: è splendido il bouquet di questo Vignamare del ’94. E in bocca è vino rustico, ruvido, personalissimo. Gratta la vena minerale dell’ardesia. Averne, di bottiglie così.
Colli Tortonesi Timorasso Costa del Vento 1992 Vigneti Massa Questo Timorasso del ’92 è una sorta di prototipo, figlio di vigne di soli tre anni d’età. E propone intense mineralità all’olfatto e racconta in bocca ancora di terra e di pietra. Solo alla distanza fa capolino il frutto bianco. Ed è salino. I primi vagiti di quello che sarebbe diventato, in vendemmie più recenti, un bianco di valore. In Piemonte.
Cabreo La Pietra 1987 Tenute Folonari Un vino che ha fatto epoca: chardonnay in barrique, introduzione di vitigni e metodi e stili internazionali in terra di Toscana. Una sorta di reperto, questo ’87. E la bottiglia non ha retto benissimo, e le ossidazioni sono avanzate, ma c’è ancora frutto tropicaleggiante e una nota di cioccolato al latte. Che dire: non faceva per me quand’era giovane, non fa per me oggidì.
Trentino Müller Thurgau Palai 1981 Pojer e Sandri Orca miseria, che vino strano che ci vien da Faedo. Vino dell’81, ma giovane nei lampi verdi che n’attraversano il giallo tenue. Naso di mandorla e nocciolo di pesca. Ammoniaca. Pesca gialla macerata in macedonia. Eppoi albicocca stramatura. In bocca è teso, ed ha pietra focaia. Frutto anche qui stramaturo-surmaturo. E tuttora freschezza. Sorprendente.

giovedì 10 maggio 2007

Pinot Nero, c’ero anch’io

Angelo Peretti
Armin Kobler è un innovatore. Ha innovato, intendo, il metodo di valutare i vini nei concorsi enologici. E la faccenda funziona, garantisco. Perché ha mess’in piedi un sistema in grado di dare un giudizio anche sulla performance dei degustatori. Scartando tutte, ma proprio tutte, le valutazioni attribuite da quegli assaggiatori che in una determinata giornata di wine tasting si mostrino fuori fase. Perché capita a tutti d’avere la giornata storta: dormito male, mangiato pesante, malanni di stagione, corbezzoli vorticosi, semplicemente poca voglia di provar vini quel benedetto giorno...
Ebbene, la faccenda l’ho provata sulla mia pelle. Al concorso che assegna i premi del concorso dei Pinot Neri (pardon, Blauburgunder) che si tiene ogni anno in Südtirol, fra Egna e Montagna. Invitato da quel grand’esperto di Pinot che è Peter Dipoli (e lo ringrazio dei cuore).
Se siete curiosi di sapere com’è andata (e come «mi è» andata), dovete leggere ancora qualche riga di premessa, ché le cose vanno spiegate un attimino.
Intanto, chi è Kobler. Be’, è uno che se n’intende: fa l’enologo, è responsabile della sezione «enologia» del Centro per la Sperimentazione Agraria e Forestale di Laimburg, in Alto Adige (www.laimburg.it) e produce vini in proprio a Magrè (www.kobler-margreid.com).
Secondo. Come funziona il metodo. Grosso modo, ma molto grosso modo, come segue. Ciascun assaggiatore, nello stesso periodo di tempo, prova uno stesso numero di vini, ma in sequenza diversa, in modo che nessuno possa essere influenzato dal «vicino di banco», come spesso, ahimè, accade. Non tutti assaggiano tutto, nel senso che un certo vino può capitare a me ma non al mio vicino di tavolo. Alcuni dei vini vengono comunque messi in degustazione più volte, e l’assaggiatore non sa di quali si tratti. Ebbene: lo scostamento di punteggio attribuito dal valutatore ai vini doppi mette in luce la sua affidabilità. E fa decidere se tenere conto del suo lavoro oppure no. In realtà, la faccenda è un po’ più complicata di come ve l’ho raccontata, e chi avesse voglia di conoscere i particolari (ne vale la pena, d’approfondire) può cliccare qui per andare ad una dettagliatissima pagina del sito internet della manifestazione altoatesina dedicata ai Blauburgunder.
Vi garantisco che, di primo acchito, è un discreto stress sapere che nello stesso tempo sei giudice e giudicato. Poi ti rilassi, e cominci a dar punteggi, sapendo che comunque male non ne fai ai produttori: se sei in forma, i tuoi voti contano, sennò pazienza.
Dunque? Dunque, eravano in 19 al Centro Sperimentale di Laimburg a provare Pinot Neri. Ce ne hanno versati 60 bicchieri a testa, 30 la mattina e 30 il pomeriggio, dopo un terrificante spuntino a base di tartine piene (tutte) di stramaledetta erba cipollina, e io faccio una fatica bestia ad assaggiare alcunché dopo aver mangiato aglio, cipolla o robe dal sapore simile. Tant’è che il mio scostamento maggiore fra i vini provati due volte l’ho avuto fra i primissimi assaggi del pomeriggio. Perché dei 60 bicchieri, ben 10 sono stati assaggiati sia la mattina che nel dopopranzo. E, insomma, del nostro manipolo di 19, solo 13 hanno passato il vaglio del severissimo Kobler. E siccome - fiùuuu - sono fra i 13 presi in considerazione per formare la classifica generale, qui sotto vi racconto non già com’è andato il concorso, ma quali sono i dieci vini cui ho dato il punteggio più elevato. Così mi sottopongo (volontariamente) a un altro giudizio: il vostro. Perché se andrete il 17 e 18 maggio alle Giornate Altoatesine del Pinot Nero 2007 (pardon, Blaburgundertage) di Egna (Neumarkt) e Montagna (Montan), Alto Adige (Südtirol) i vini in concorso, e un’altra selezione proveniente da mezzo mondo, dovreste trovarli tutti, e dunque potrete eventualmente dirmi se siete d’acordo o no con le mie preferenze.
Ultime avvertenze: i Pinot Neri in concorso erano tutti del 2004, e la descrizione qui sotto è esattamente quella fornitami dagli organizzatori, premettendo il mio punteggio in centesimi (84 sta per 84/100, intendo). All’interno della stessa fascia di punteggio, l’ordine è alfabetico. C’è un vino a quota 89 e un altro a 90, e sapendo quanto m’è difficile dar voti sopra l’85...

84 Maison Anselmet di Anselmet Giorgio 2004 Vallée d'Aoste Pinot Noir doc Il Pinot Nero dell’astro nascente (ormai star) del piccolo firmamento della Val d’Aosta. Tonalità violacea. Naso tra il floreale e il fruttato (mora, o meglio, caramellina alla mora, eppoi prugna). Un po’ dolcino, ma ampio, opulente, tannico. Voto più alla materia (e all’ipotesi di sviluppo) che non alla mia soddisfazione attuale.

85 Marchesi Alfieri 2004 Monferrato Rosso Pinot Nero doc "San Germano" Eccoci in Piemonte, Monferrato. Anche questo con colore viola, scuro, ma luminoso. Profumi di fruttino di sottobosco (e anche qui di caramellina) eppoi confettura. Bocca scaltra, certo, con quella vena amabile, ma c’è frutto e spezie e tannicità e vellutato calore e tanta giovinezza. Anche qui, in fiducia sull’affinamento.

85 Nals-Margreid/Entiklar 2004 Südtiroler Blauburgunder doc "Mazzon" Alto Adige, Cantina di Nalles Magrè. Che lavora bene, e questo Blauburgunder lo conferma. Colore carico. Tanto frutto all’olfatto. Ed è molto varietale, il bouquet: pinoteggia proprio, questo vino. In bocca è denso, caldo e tannico. Con la fragolona che dura a lungo. Ah, se ci fosse più beva! Quella mi piace, nei Pinot Neri.

86 Institut Agricole Regional 2004 "Sang des Salasses" Ancora Val d’Aosta, col Pinot Nero dell’Istituto regionale di Aosta. Cui ho dato un 86+, nel senso che credo potrebbe riservare sorprese crescenti nel tempo. Colore proprio da Pinot, scarico: evviva! Bel naso, fruttatino eppoi speziato il giusto. Perfino note balsamiche e iodate. Bocca snella, un po’ dolcina, succosa, salina. Buona lunghezza.

86 Kellerei Bozen 2004 Südtiroler Blauburgunder doc Riserva Di nuovo Alto Adige. Cantina di Bolzano-Gries. E ancora quel bel colorino scarico da Pinot Nero che piace a me. Piccolo frutto, snello e gradevolissimo, al naso. In bocca, quasi inatteso, tanto, tanto frutto denso. E tannino. Che ora per ora toglie un po’ di lunghezza al vino. Ma si beve. E sono ben fiducioso sull’evolversi, nei prossimi mesi.

86 Kellerei Kaltern 2004 Südtiroler Blauburgunder doc "Saltner" Uno dei vini che mi son toccati due volte nei test svolti a Laimburg. E tutt’e due le volte è andato bene. La Cantina di Caldaro sfoggia un Blauburgunder di colore scarico e naso di piccolo frutto: mi piace! La bocca è anch’essa snella, beverina, succosa, con tanto, tanto piccolo frutto di bosco. Un buon vino, che vorrei davvero avere in casa.

86 Maso Cantanghel 2004 Trentino Pinot Nero doc "Maso Cantanghel" Adesso Trentino. Pensare che per me è stato uno dei vini d’apertura, uno di quella terna che serve «solo» a far tarare il palato dei giurati. L’ho trovato interessante, con quel suo naso che pinoteggia proprio, varietale parecchio. E una bocca snella, fresca, magari un po’ tannica. Peccato solo che il finale sia leggermente amaro.

86 Niedermayr Josef 2004 Südtiroler Blauburgunder doc Riserva Provato fra i primi la mattina e fra gli ultimi il pomeriggio, e medesimo punteggio a cinquanta assaggi di distanza: non c’è dubbio, mi piace proprio questo Blauburgunder. Colore abbastanza carico, ma naso varietale e fruttatissimo. E bocca morbida, avvolgente, eppure anche lunghissima e succosa. Bell’equilibrio fra beva e materia.

89 Niedrist Ignaz 2004 Südtiroler Blauburgunder doc Ero indeciso fra 89 e 90. Poi, stitico come sono a dar centesimi, ho scelto l’89. Per dire che lo ritengo davvero un bel vino, nonostante non vada esattamente nella direzione che più mi piace, perché punta sulla potenza, e io amo di più la beva. Epperò ha naso molto varietale e bocca ricca di piccolo frutto (la mora) e pulizia notevole ed eleganza.

90 Manincor 2004 Südtiroler Blauburgunder doc "Mason" Ecco, al Blauburgunder di Manincor il 90 gliel’ho dato senz’esitazione. E vorrei, ah sì, averne in casa qualche bottiglia, perché m’è proprio, proprio piaciuto. Fatto come i Pinot che piacciono a me. Colore scarico, naso elegante e fruttatino (caramellina alla mora, fragolina di bosco, mirtillo. E bocca bellissima, snella, bevibile, godibile. Buono!

giovedì 3 maggio 2007

Quei nuovi rosé del lago di Garda

Angelo Peretti
Sulla rete internettiana spopolano i blog. Posti virtuali in cui si può discutere. A ruota libera. Anche di vino, e allora s’usa dire che si tratta di wine blog. Per chi non fosse avvezzo, la cosa funziona, a grandi linee, così: il blogger, cioè il titolare del blog, pubblica un post, cioè un suo intervento, e poi chi vuole lo commenta on line con dei suoi pensieri, che si chiamano thread. In totale anarchia.
Secondo me, ma mi pare che il parere sia ampiamente condiviso sulla rete, il wine blog italiano che offre gli stimoli di discussione più profondi è quello di Giampiero Nadali, alias Aristide. Lo si legge all’indirizzo www.aristide.biz.
Bene: Aristide ha rilanciato per il 3 maggio l’iniziativa del «vino dei blogger». La faccenda riprende il «wine blog Wednesday» americano. In Italia a farsi promotore della cosa è stato Marco Grossi del blog Imbottigliato all’Origine. La questione è abbastanza semplice: lo stesso giorno, vari blog parlano dello stesso argomento. Il blogger incaricato di far da collettore raccoglie sul suo sito le recensioni e i commenti pubblicati dagli altri blogger che hanno preso parte all’evento mediatico. E l’argomento proposto da Giampiero per il 3 di maggio è il rosè.
Ora, io non sono un blogger, anche se confesso che il mondo dei blog m’intriga. E questo mio InternetGourmet non è un blog, tant’è che sulla testata vedete i dati di registrazione al tribunale: questo è (vorrebb’essere) un giornale on line. Però la cosa del vino dei blogger mi stuzzica. E dunque aderisco virtualmente anch’io, pubblicando quest’intervento il 3 di maggio. Per parlare non d’un rosè, ma di tre. I tre new rosè d’un lago di Garda che sembra finalmente uscire dagli schematismi di campanile. Per tentare di far, finalmente, vini più del terroir che non delle stantie pseudotipicità.
Detto questo, debbo fare un’altra precisazione, e qui capisco che il prologo va per le lunghe, ma pazienza.
Devo aggiungere, dunque, che la scorsa estate organizzai, su proposta di Gianfranco Comincioli, chiarettista di valore della sponda lombarda del Garda, una paio di serate mettendo a tavola insieme vari produttori di vini rosati delle due riviere del lago. Veronesi e bresciani. A bere, nella prima sera, i rispettivi Chiaretti (del Garda Classico, della Riviera Bresciana del Garda e della doc Bardolino). E poi, nella seconda tappa, alcune bottiglie di rosati francesi e spagnoli. Cercando di far capire che un buon rosè può e dev’essere qualcosa di diverso dal vinello facile facile che si beve come una sorta di bibita alcolica nella calura estiva.
Ora, non voglio attribuirmi meriti che certamente non ho, ma dopo quelle due sere qualche cosa è cambiato.
In primis: al Vinitaly di quest’anno due produttori di Chiaretti della riva occidentale del Garda han presentato – salvati o cielo! – non già i rosati del 2006, bensì quelli della precedente annata. I due sono Comincoli e Zuliani. Che hanno, dunque, violato il tabù. Ed hanno avuto successo. Fossi ancora al liceo, direi: cvd, come volevasi dimostrare.
Secondo: due produttori della sponda orientale han fatto una cosa ancora diversa. Hanno, cioè, progettato dei rosati di nuova concezione. Affiancandoli ai rispettivi doc. Insomma: in catalogo, adesso, hanno due rosè ciascuno, e uno è il vino che risponde alle regole della denominazione d’origine, con attenzione ai vitigni, e l’altro è un vino che risponde alle regole del terroir, utilizzando i vitigni che meglio si possono adattare a raccontare quell’idea di vino.
Di questi due vini parlo adesso. Aggiungendone un terzo, che già c’era lo scorso anno in quelle due «famose» serate coi produttori, e che c’è di nuovo, con la nuova annata, ancora più decisamente bastian contrario.
I tre vini, tutti della vendemmia (calda) del 2006, sono il nuovo Feniletto della Prendina, azienda che i veronesi Luciano e Franco Piona, della Cavalchina di Custoza, hanno sulle colline mantovane del Garda, a Monzambano, l’altrettanto nuovo Rosa Rosae di Guerrieri Rizzardi, storica famiglia di vigneron bardolinesi, e il CorDeRosa delle Vigne di San Pietro, che già m’era piaciuto alla sua prima uscita dell’anno passato.
Ecco quel che ne penso qui di seguito. I vini in ordine alfabetico.
CorDeRosa igt Rosato Veneto 2006 Le Vigne di San Pietro Dicesi salasso in enologia quella pratica che s’usa in genere per aumentare la colorazione (e la struttura) d’un vino rosso privandolo d’una modesta parte di mosto nella prima fase della macerazione. Sarà il mosto residuo ad assumere il colore dalle bucce dell’uva. Già: ma la prima parte che fine fa? Usualmente, viene venduta per trarci vinelli, oppure, se proviene da uva importante, va ad alimentare il vino base. In genere. Perché si può far di meglio, e utilizzar la pratica non già come intervento per migliorare il rosso, bensì per pensare un grande rosato. E Carlo Nerozzi il suo CorDeRosa, alle Vigne di San Pietro, Custoza, l’ha volutamente progettato e fatto proprio così: per salasso dalle vasche di sola, pura corvina veronese a rese bassissime. E se era buono il 2005, prim’annata, col 2006 ha fatto ancora un passo avanti. Rosè di lunghezza enorme, impressionate. Ed ha polpa, struttura. E tanto frutto ed anche spezia finissima. E freschezza avvincente. Buono, buono davvero.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Feniletto igt Rosato Alto Mincio 2006 La Prendina Luciano Piona è stato chiaro: questo vino nasce dalle due serate di cui ho parlato. Gliene sono grato. Ed è insomma un rosè che ha filosofia provenzale, fatto per non esser per forza bevuto di qui a tre mesi. Tant’è che è stato imbottigliato in vetro verde, per difenderlo dalla luce. Scatenando magari qualche reazione avversa da parte dei buyer, che pensano che il rosè si venda anche per il colore, e dunque vorrebbero solo vetro trasparentissimo. È fatto, questo vino, con un 40 per cento di marzemino e un 35 di merlot, mentre il resto è corvina. Ed è un gran bel vino. Appena imbottigliato, ha già naso molto fine. Floreale, molto floreale. E ha pesca nettarina acerba e un bel po’ di lampone e fragolina. E poi, finissima, la spezia, che credo uscirà in progressione col tempo (e chissà come la ritroveremo fra un anno, questa speziatura, ammesso che abbiamo la pazienza d’aspettare un anno). Eppoi la bocca: fresca, fragrante, sapida, salata, succosa, tesa, croccante di frutto.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Rosa Rosae igt Rosato Veronese 2006 Guerrieri Rizzardi Giuseppe Rizzardi sta mettendo a frutto nell’azienda di famiglia l’esperienza maturata nelle migliori terre francesi. Il Rosa Rosae credo vada in questa direzione. Ché è rosato nuovo, di matrice bardolinista (figlio di vigne fra Bardolino e Cavaion) e filosofia provenzale. È fatto con buona dose di corvina (il 65 per cento), e rondinella (20 per cento) e sangiovese (10), eppoi il marcobona, vitigno a bacca bianca, di cui non si sa granché, se non che a coltivarlo nei campi dei Rizzardi era un lavorante, Marco Bona, appunto. Ora, il vino. Ebbene, sarà la suggestione del nome, ma la rosa tea c’è, appena un cenno, nel bouquet. Eppoi fruttino malizioso (cassis, lampone, fragolina) e ciliegia surmatura e garofano e scorzetta d’arancia candita. In bocca, ancora il piccolo frutto succoso. E un accenno vagamente balsamico. E qualche rustica, labile memoria di confettura di cotogne. E morbidezza, che a tratti sembra quasi sopra le righe, ma poi si compone in un corpo in rilievo.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)