mercoledì 29 novembre 2006

Quel colosso che ha sede a Soave si muove fra marchio e denominazione

Angelo Peretti
Impressive, dicono gl’inglesi. «Parla come mangi» mi si può obiettare, e dunque dovrei scrivere, all’italiana, «impressionante». Ma non è la stessa cosa. Se affermo, in italiano, che una tal cosa mi fa impressione, posso voler significare che mi fa ribrezzo. Insomma, impressionante ha spesso, qui da noi, un’accezione negativa. Diverso è dire che la tal cosa è «impressive», ché allora intendo metterne in luce l’imponenza. E infatti «impressionante, imponente, commovente, solenne» argomenta il mio dizionario d’inglese per l’aggettivo «impressive».
Ora, impressive è proprio quanto m’è venuto in testa sfogliando il bilancio della Cantina sociale di Soave, quello chiuso a giugno 2005 (il bilancio qui lo fanno da un giugno all’altro). Che dite? Che esagero? Sentite qua: 63 milioni di euro di fatturato contro i 58 dell’anno prima, 26 milioni liquidati ai millecinquecento soci che hanno conferito uve (26 milioni, capito? vuol dire qualcosa come 48 euro di media al quintale), 757 mila euro di utile (ed è una cooperativa, che per statuto non punta all’utile), cash flow di quasi 5 milioni (tutta liquidità da usare per gli investimenti), un patrimonio di 27 milioni di euro. Chiamatele noccioline…
Capisco la soddisfazione del presidente, il commendator Luigi Pasetto: «La sostanza, la credibilità di un’azienda come la nostra sta nelle somme liquidate ai soci. È un risultato che proviene da un’organizzazione aziendale che ha poco da invidiare ad altre realtà cooperative» dice, e bando alla falsa modestia. «Si tratta di un bilancio – gli fa eco, senza peli sulla lingua, il direttore generale Bruno Trentini – in controtendenza rispetto ad una situazione di grave difficoltà per il settore, a causa dell’incapacità dei produttori di affermare i propri marchi. Tale fragilità si traduce in una debolezza commerciale che gioca a favore della grande distribuzione, la quale progressivamente porta ad una riduzione dei prezzi d’acquisto; così la forbice tra costo del vino e costo della bottiglia finita si riduce sempre di più, con grave sofferenza delle aziende. In questo difficile contesto, la nostra azienda si è mossa cercando innanzitutto di puntare sulla valorizzazione dei nostri marchi, per i quali abbiamo ottenuto risultati significativi». Miseria se è parlar chiaro.
Adesso, un paio di sottolineature.
La prima: avete fatto caso? Pasetto e Trentini, presidente e dg, nelle loro dichiarazioni usano la stessa parola: azienda. Già, sarà anche una cooperativa, ma qui l’impostazione è tutta imprenditoriale.
La seconda: Trentini dice che la priorità è la valorizzazione dei marchi. E qui si apre il dibattito. Il quesito è questo: un produttore del calibro della Cantina sociale di Soave deve valorizzare il marchio o la denominazione d’origine? Insomma: prima l’azienda o prima il territorio?
Facciamo un passo indietro. La scelta strategica della Cantina soavese di puntare su marchi specializzati è stata indovinata, visto che i fatturati son cresciuti in tutti i settori: 20 per cento in più, nel complesso. Se volete, ve li riassumo anche, i brand. C’è il Cadis per la grande distribuzione: è quello più rilevante come quantità. Accanto, ecco il marchio Le Poesie, rivolto al settore ho.re.ca. (vuol dire: hotel, restaurants & catering, se non sbaglio), ma commercializzato dalla medesima rete di vendita del Cadis. Poi, due marchi gestiti da una rete specializzata per la ristorazione: Rocca Sveva e Maximilian, quest’ultimo riservato allo spumante. E altri marchi «minori» a completare la gamma. La diversificazione di etichette e di reti di vendita è risultata un’arma vincente. «Attraverso i marchi siamo riusciti a valorizzare i nostri prodotti ed a gestire i mercati» sostiene Pasetto. Ma il marchio è un’arma di tipo prettamente aziendale. E la doc?
Sulla doc, Trentini ha le idee chiare. Potrei tentare di riassumerle così, se ho ben capito: la doc è una valore, e va sostenuta, ma tutti devono fare la loro parte, altrimenti meglio pensare al marchio. E spiego. «Le doc - fa il direttore - sono delle opportunità, ma anche una possibile palla al piede. È necessaria una politica unitaria. I Consorzi non devono fare solo controlli, ma anche comunicazione e promozione. Occorre promuovere la denominazione nel mondo, attuando una politica strategica comune fra tutti gli operatori. Occorre fare sistema, come accade nell’ambito del Soave, altrimenti prestiamo il fianco a chi fa solo politica di marca». E che la Cantina soavese abbia usato la marca come grimaldello per aprire i mercati, ma che nel contempo pensi anche alle doc, vien fuori da un’altra affermazione di Trentini: «Non è esclusa la nostra progressiva uscita dal settore delle private label, i vini ad etichetta personalizzata per le catene commerciali. È un settore marginalizzato sia in termini di redditività, sia in termini di valorizzazione delle denominazioni. Se la denominazione è molto presente nelle catene dei discount, finisce per essere deprezzata». Insomma: se si vuol investire sulla doc, lo si faccia, ma tutti insieme, inestendo in promozione. «Punteremo sempre al binomio marca-denominazione – aggiunge il direttore – ma quale sarà la visibilità che daremo alla denominazione rispetto alla marca dipende da quanto risalto verrà dato alla denominazione da parte degli altri attori della filiera».
Come dite? Che vi sembra un ricatto? Nossignori: è sano, sanissimo realismo. Ché il vino mica lo si fa per diletto: è un prodotto, e come tale deve stare sul mercato. Anche il vigneron più poetico e garagista le sue bottiglie le vuol poi vendere, mica regalarle ai fan. Ergo: tutti sulla stessa barca. A remare nelle stessa direzione. Ergo, c’è da capirlo Trentini quando sostiene: «Siamo contenti, ma non euforici». Perché - parole sue - «la prospettiva del settore non è rosea». Aggiunge: «La competizione in atto è pesante e se la produzione non si pone di fronte a questa competizione in modo organizzato può prestare il fianco alle speculazioni».
Ora, a parte il realismo, c’è da chiedersi: è questa la via unica? O marchio o doc? E ci potremmo dividere fra il partito del sì, quello del no e quello del forse. Dico solo (ripeto, anzi): questo qui che fanno a Soave è parlar chiaro, è avere una strategia. E con chi parla chiaro e ha strategie - condivisibili o meno che appaiano - ci si può (ci si deve) confrontare. Il problema è quando le idee non ci sono, o al massimo son nebulose o evanescenti, e purtroppo è l’impressione che si ha in tanti territori enoici. Questi invece - insisto - hanno idee e fanno anche risultati. E hanno quattrini, tanti, e se vogliono possono averne anche di più.
Dicevo: 5 milioni di cash flow, fatturati record, pagamenti pesanti ai soci. E un indebitamento bancario che è pari soltanto a un quarto del patrimonio, con la chance, dunque, d’attingere ancora a tanto credito. Insomma: se vogliono, questi sono pronti a fare shopping. Già si son presi la Cantina sociale d’Illasi, arrivando a metter le mani, oltre che sulla maggioranza del Soave, anche su una fetta enorme di produzione di Valpolicella. Più avanti che cosa faranno? Mica possono star lì con le mani in mano, è chiaro. «Abbiamo sempre valutato positivamente le aggregazione nel mondo cooperativo» butta lì, sornione, da politico navigato qual è, il commendator Pasetto. Antenne lunghe, signori, ché questi li san fare gli affari.
Poi, sanno anche leggere il mondo che gli gira intorno. Prendete la relazione di bilancio. In apertura si fa l’esame della vendemmia 2005, che fu scarsa un po’ ovunque a livello nazionale, ma questa scarsità «non ha condizionato, come di solito accadeva, in modo diretto i prezzi dei vini, anzi, nel corso dell’anno i prezzi sono scesi ulteriormente» (sto citando le prime righe). E qui gli amministratori s’interrogano, e redigono una pagina di buona analisi: «Cosa significa – scrivono – questo fenomeno? Significa che la legge della domanda e dell’offerta a livello internazionale non è più condizionata dal variare dell’offerta nazionale e ancor meno dal variare dell’offerta di una singola denominazione. La grande disponibilità a livello mondiale è ormai tale che i nostri prodotti o sono in equilibrio di valori (prezzo, qualità, immagine) o sono fuori mercato». Dunque, c’è da confrontarsi coi prezzi che tendono a scendere. «Questa serie di ribassi nei vini – sta scritto sul bilancio – sta mettendo in discussione la sopravvivenza di tanta viticoltura in aree dove, indipendentemente dalla qualità delle uve dei vini prodotti, la mancanza di capacità commerciale e di organizzazione del territorio sta portando le remunerazioni sotto ai costi di produzione. Ciò deve preoccupare tutto il settore». Sissignori.
Dunque: idee, strategie, capacità di analisi. Già. Ma sanno anche fare il vino, ‘sti signori di Soave? Intendo: hanno vini interessanti, oppure puntano solo alle quantità e ai prezzi?
Per rendermene conto sono tornato in Cantina a fare un wine tasting, scegliendo a caso le bottiglie fra le varie linee. Anche i vini da supermercato, yes. Bianchi e spumanti, soprattutto. Ne ho selezionati quattro: due Soave e due bollicine. Leggete - se volete - qui di sotto.
Soave Classico Superiore Castelcerino Rocca Sveva 2005
Niente da obiettare. Anzi. Un bel Soave Superiore. Pulito. Di carattere. Garganega e trebbiano. Fatto in acciaio. Ha naso tra il vegetale e il floreale. Vi s’avvertono in più toni di mela acerba. In bocca sfoggia struttura. Ed ha beva. Succosa. E buona freschezza. Finale abbastanz’asciutto. Allo shop della Cantina sociale, a Soave, costa, sullo scaffale, 5,99 euro.
Due lieti faccini :-) :-)
Soave Classico Villa Rasina 2005
Se il Superiore della linea Rocca Sveva, quella di punta, m’aspettavo di trovarlo buono, questo qui, un vino destinato alla grande distribuzione, è una sorpresa. Per carità, è la linea top fra quelle da supermercato. Epperò il vino è davvero ben fatto. Magari un po’ didattico, un po’ mirato su quella «tipicità» ch’è dettata dal disciplinare, ma chi lo compra non se ne pente. Non è in vendita allo shop a Soave, e dunque non so cosa costi, ma credo poco.
Un lieto faccino e quasi due :-)
Soave Brut Maximilian
Be’, se cercate uno spumantino senza grilli per la testa da stappare per l’aperitivo disimpegnato, compratelo a casse ‘sto brut soavese. Destinato alla gdo, lo si può acquistare in Cantina sociale a nientepopodimeno che 2,53 euro la bottiglia: non scherzo, costa come una birretta di quarta serie. Ha, all’olfatto, memorie floreali, non intense, d’accordo, ma comunque pulite. In bocca è morbido. Ha fruttino e fiore. La carbonica magari è un po’ in rilievo, ma ci può stare. Un’altra sopresa, dopo il Soave detto sopra.
Un lieto faccino e quasi due :-)
Brut Metodo Classico Equipe 5 2002
Ex marchio di culto della spumantistica trentina, adesso l’Equipe 5 lo fanno a Soave con le uve del posto: lo chardonnay della collina di Campiano in primis. E questo 2002 non è niente male, con tutta quella crosta di pane a renderne intrigante il naso e la burrosità che avvolge il palato. Mica male, proprio mica male. Se poi pensate che allo shop della Cantina lo trovate a 6,89 euro…
Due lieti faccini :-) :-)
E qui mi fermo. Un’altra volta, magari, proverò anche i rossi. Bye.

giovedì 23 novembre 2006

Nulla accade per caso: le ragioni della Valpolicella felix

Angelo Peretti
Qualcuno che conosco è convinto che nulla accada per caso. Ma difficilmente intelligibile resta, per i modesti mezzi dell’uomo - e soprattutto per i miei -, la ragione di certi accadimenti. È già fatica, molta, capire che t’accade attorno giorno dopo giorno, nella tua sfera personale, ed io non sempre ci trovo risposta. Figurarsi gli eventi che superano la tua dimensione, e che a volte si fanno addirittura planetari. A meno che si creda - e credere è la parola giusta - che l’umana avventura abbia un fine ultimo, assoluto e trascendente. Ma qui entriamo nel campo della filosofia o della fede, che - forse - non compete a un web magazine che s’occupa invece di vino e di gastronomia.
Diversa è la questione quando si gravita nell’ambito dell’economia di mercato, ché qui sì che le cose non possono davvero accadere per caso. Nel senso che ad ogni avvenimento, ad ogni fenomeno, c’è - si può e deve trovare - una spiegazione.
Ordunque, nell’ambito della microeconomia vinicola delle terre di cui più mi occupo, ossia quelle della regione gardense, è avvenuto negli ultimi anni qualche cosa d’anomalo. Mi riferisco al fatto che almeno da un paio d’anni un po’ ovunque, nel mondo intiero, il vino è entrato più o meno in stallo, con poche, pochissime eccezioni, ed una di queste è la Valpolicella. Ma non solo il territorio valpolicellese non ha conosciuto crisi - se non un breve, temporaneo assestamento -, ma addirittura ha consolidato e accresciuto la propria penetrazione sui mercati. Tant’è che perfino un’annata balorda come quella del 2002, con le piogge e la grandine, ha finito per premiare l’Amarone, o almeno quel poco che se n’è fatto, e chi ha optato per la (saggia) scelta di non realizzarlo in quell’annus horribilis, be’, un po’ s’è mangiato le mani, perché la domanda è comunque rimasta buona. Non solo. Nell’ultima vendemmia, sono state rare le aree viticole d’Italia che abbiano visto quotazioni in crescita per l’uve, ed anzi l’unica che ha volumi importanti è, appunto, la Valpolicella. Un successo che lascia letteralmente a bocc’aperta.
Ora, se quest’è un fenomeno dell’economia, e se in economia, appunto, nulla accade per caso, occorre seriamente interrogarsi come sia potuta capitare una cosa del genere. Ritenendo semplicistico sostenere che è andata così perché l’Amarone è un vino di tendenza, che è denso, corposo, fruttatissimo eccetera eccetera. Vero, l’Amarone risponde ai canoni di successo sui mercati internazionali, ma gli altri rossi che hanno identità simili - vedi i Supertuscans - hanno pur’essi conosciuto un cert’arretramento. «Di Toscana non ne vendo più neanche una bottiglia, di Barolo nemmeno» mi dicono molti ristoratori. E allora?
E allora quando si vuol capire un fenomeno economico, occorre far le cose per bene, e ricercare con metodo la spiegazione. Quest’ha fatto il Consorzio di tutela dei vini della Valpolicella, che non a caso, permettetemi d’aggiungerlo, ha al vertice un uomo che i mercati ha mostrato di saperli cavalcare, e mi riferisco - ovvio - ad Emilio Pedron, che oltre che presidente consortile è anche ai vertici del Gruppo Italiano Vini, prima potenza enoica nazionale.
Che cos’ha fatto dunque ‘sto Consorzio. Be’, è andato a chiedere di far l’esame a chi d’esami se n’intende. Ha chiesto aiuto a un’Università. Al Dipartimento di Economia e Politica Agraria dell’Università Federico II di Napoli, che ha mess’in campo uno staff coordinato dal professor Eugenio Pomarici. E il risultato che n’è saltato fuori è, per certi versi, sorprendente.
Ebbene, volete sapere perché la Valpolicella ha tenuto così bene? Be’, lo faccio dire alle parole di Pedron: «Oggi non si va bene per caso. Esistono dei motivi. Il primo è la solidità strutturale. All’interno della Valpolicella esistono dei vantaggi strutturali che la fanno andar meglio di altre aree, di altre denominazioni». Così ha detto il leader maximo a un drappello di giornalisti riuniti alla tavola – eccellente: mangiato benissimo – dell’Enoteca della Valpolicella. Ero tra quelli, e riferisco.
Ora, capisco che quando si dice genericamente di vantaggi strutturali, occorre qualche spiegazione aggiuntiva. E qui entra in ballo la ricerca di Pomarici & Co. Ma fors’è meglio invece fare un passo indietro. Tornare al contesto di mercato, che ha fatto da premessa alla ricerca, e l’ha anzi fatta generare. Lascio ancora spazio alle parole di Pedron, ché meglio di così non saprei fare: «Sono ormai più di due anni - dice - che gli osservatori più attenti hanno delineato uno scenario di difficoltà che interessa il vino di qualità. Uno scenario che pone fine ad un periodo caratterizzato da un importante sviluppo della domanda di vino di qualità dal quale i produttori hanno tratto grande beneficio in quanto hanno potuto commercializzare le loro bottiglie a prezzi in costante crescita. Attualmente, il settore vitivinicolo sta attraversando una fase di grande incertezza originata da un eccesso di offerta mondiale di vino di qualità che causa una diminuzione generalizzata dei prezzi di tutta la filiera, da quelli delle uve a quelli dei vini all’origine, e da una agguerrita competizione su tutti i mercati, sia nazionali che internazionali. In questo scenario la Valpolicella rappresenta un’eccezione in quanto sta vivendo un nuovo importante successo di mercato. Questo è il motivo per il quale abbiamo ritenuto opportuno verificare le ragioni di questo successo e abbiamo inteso farlo in maniera seria e approfondita, fotografando la struttura e le caratteristiche della filiera vitivinicola del nostro territorio». Affermazioni da manuale.
Capita l’antifona? Bisogna investire in conoscenza, e bisogna farlo soprattutto quando le cose vanno bene, per capire le ragioni del successo e farlo durare nel tempo. Inutile correre a chiudere la stalla quando i buoi sono scappati, s’è sempre detto: perché nel mondo del vino, che pure ha radici contadine, non lo si rammenta tanto spesso questo vecchio adagio?
Ordunque, a ricerca eseguita, Pedron dice: «Siamo convinti che in Valpolicella esistano vantaggi strutturali tali da consentire ai vini che nascono da questa splendida terra la possibilità di raggiungere traguardi sempre più brillanti». Alla faccia dei pianti altrui.
Questi vantaggi li riprendo, pari pari, dalla ricerca universitaria, che descrive quello che potremmo definire il «sistema Valpolicella». Ebbene: «Il sistema - si legge - è complesso perché agiscono come propulsori della dinamica una molteplicità di soggetti con caratteristiche dimensionali e di organizzazione dell’offerta molto diverse ma, a ben vedere, complementari. Vi sono le piccole imprese caratterizzate da una forte specializzazione nei vini Valpolicella soprattutto di elevatissimo pregio, fortemente caratterizzate dal territorio, con imprenditori di grandissima capacità relazionale, con politiche distributive molto selettive e orientate prevalentemente al mercato interno. Vi sono poi le medie imprese, di grande talento e esperienza nella produzione, che gestiscono una gamma molto ampia, affiancando ai vini Valpolicella, nei quali mantengono una specializzazione, prodotti di altre aree e che distribuiscono i loro prodotti in Italia ma anche, per una quota importante, all’estero. Operano, infine, grandi imprese che presentano una notevole capacità di innovazione e una notevole solidità e che gestiscono una gamma multiregionale e assai differenziata per fasce di prezzo e una molteplicità di canali di distribuzione in Italia e all’estero». Ebbene, queste tre tipologie d’impresa convivono senza farsi la guerra, senza farsi (troppa) concorrenza, ché hanno scelto di ritagliarsi mercati diversi. Non solo. Tra di loro hanno messo in piedi una sorta di partership ampiamente diversificata, una «molteplicità di relazioni» che si esprime «sotto il profilo della fornitura e dell’acquisizione dei fattori di produzione». «Il sistema – osserva il gruppo di ricercatori universitari che ha condotto l’indagine sul caso valpolicellese – è reso efficiente sotto il profilo produttivo da una rete di scambi di uve e vini tra diversi operatori che consente ai più di ottimizzare lo sfruttamento della propria capacità produttiva e/o commerciale e di valorizzare le specifiche competenze». In poche parole: un tipico caso di distretto industriale, di quelli che hanno fatto grande il nordest.
Ora, si tratta di migliorare, di crescere. E se non è possibile aumentare le quantità, giacché il territorio è pressoché interamente sfruttato, occorre spingere sul tasto della qualità. Che sia possibile? La risposta, stando alle evidenze della ricerca, sembra orientarsi verso un’impronta positiva. E ancora una volta la motivazione sta nelle componenti strutturali del comparto vinicolo valpolicellese. Il fatto è che una parte delle uve o del vino è attualmente consegnata a dei commercianti che non sono basati in Valpolicella: sono in altre regioni d’Italia o addirittura all’estero. Per loro il Valpolicella, come qualunque altro vino che trattino, è una sorta di commodity. Nel senso che si vende finché c’è, e poi può essere sostituito da qualunque altro vino che proviene da qualunque altra parte del mondo. Ecco: questa presenza di commercianti extraconfine è oggi un elemento di potenziale equilibrio del mercato. Sì, perché se i piccoli vogliono accrescere la loro offerta in termini di qualità e quantità, conferiranno meno prodotto ai medi e questi ridurranno i conferimenti ai grandi e questi a loro volta sottrarranno scorte ai commercianti di vini commodity. Insomma: c’è spazio di crescita per tutti gli operatori della filiera locale a parità di produzione complessiva, e il traino verso l’alto è costituito dalla crescita qualitativa. Non è un vantaggio da poco.
Certo, non son mica tutte rose e viole, e anche la Valpolicella ha le sue magagne. Questa docg per l’Amarone che sembra sempre lì lì per arrivare e invece non ci si mette mai d’accordo, ad esempio. Eppoi un numero troppo piccolino di aziende davvero orientate al mercato. Uno sfruttamento eccessivo e ossessivo del territorio, tant’è che ormai molta terra valpolicellese è diventata il dormitorio di lusso della città di Verona. Ma i motivi per esser fiduciosi ci sono. Soprattutto, c’è un livello di conoscenza maggiore. C’è una crescita di consapevolezza di cosa sia - davvero - il comparto vinicolo valpolicellese. Anche finanziando studi, ricerche di settore. Roba che altri, magari, ritengono soldi buttati. Invece no: è investimento. «Vogliamo conoscere di più la nostra denominazione. Conoscerci per poter decidere meglio in tempi difficili e anzi anticipare i tempi. Tutto questo serve per far crescere l’identità della denominazione» butta lì der Präsident Pedron. E non è obiettivo da poco, questo qui: vale più di cento, mille attrezzi di cantina.
La consapevolezza e il terroir, l’orgoglio e la vigna: eccole qui le chiavi per vincere. No, non è un caso che esista una Valpolicella felix.

giovedì 16 novembre 2006

Bando agli indugi: io sto col tappo a vite

Angelo Peretti
Lo dichiaro pubblicamente: io sto col tappo a vite. A costo di beccarmi improperi di tutti i tipi. Vigneron, usatele ‘ste nuove tappature. Bevitori, compratele ‘ste bottiglie di nuova concezione. Ci salveranno. E cerco di spiegare perché la penso così. Partendo da Merano.
Ma dico io: uno paga settanta, diconsi settanta, euro per andare ad assaggiare dei vini, e poi non s’accorge neanche di quel nauseabondo odore di tappo? Eppoi, uno? Macché: decine.
Con ordine. Luogo: Merano, dicevo. Occasione: Wine Festival. M’avvicino alla postazione d’un produttore di Gattinara. Mi versa l’ultimo goccio, ma proprio l’ultimo, d’una sua bottiglia. Puzza di tappo da far paura. Guardo allibito il vigneron, e chiedo: «Ma fino ad adesso non gliel’ha detto nessuno che sa di tappo?» E lui, allibito: «No, nessuno». L’hanno bevuta tutta, la bottiglia: considerando che, vista la quantità versata, una boccia dà almeno una ventina di porzioni, vuol dire che a non essersi accorto di niente sono stati in tanti. Roba da matti.
Ora, mi domando quale sia la motivazione – per me un mistero – che spinga la gente a sborsare tutti quei soldi per andare a una fiera a trangugiar liquidi alcolici senz’accorgersi se quel che mettono in bocca è accettabile, se insomma quanto meno non genera un tanfo insopportabile. Epperò non è di questo che voglio scrivere stavolta, bensì proprio del problema dei tappi. Che è grosso assai. E a Merano ne ho avuta conferma su conferma: dei primi venti vini provati, un terzo abbondante aveva, più o meno accentuato, l’inconfondibile difetto. Una percentuale drammatica. A un produttore di Riesling alsaziano ch’esponeva nella vicina Naturno è andata anche peggio: dodici bottiglie «tappate» su dodici. Da spararsi: partire dalla Francia per esporre in Südtirol e non aver neppure una boccia presentabile.
Già: un problema ‘sti tappi. E mica solo per la faccenda del tricloroanisolo (in sigla tca), l’agente chimico, presente a volte (e ormai le volte son tante) chissà come e perché nel sughero e che è il vero responsabile del cattivo odore assunto dal vino. Macché. A qualche produttore negli ultimi anni è capitato di dover ritirare dal mercato qualche migliaio di bottiglie perché contaminate dalle colle, dai solventi, dai lavaggi, dai perossidi, da quant’altre diavolerie ci s’inventa nella lavorazione dei tappi. E i danni sono grandi, anche in termini di reputazione, di perdita di clientela. Insomma: brutta rogna.
Ci hanno provato, si sa, a farli sintetici, i tappi. Di materiale plastico (di silicone, s’usa dire, anche se poi silicone non è). Ma, oggettivamente son bruttini. E poi non mi pare abbiano dato gran risultato in termini di tenuta.
E allora? Allora il futuro, per me, è nel tappo a vite. Quello di nuova generazione. Quei tappi che chiamano screwcaps, e se non guardi bene la bottiglia neanche te ne accorgi che non è chiuso al solito modo tradizionale. Quei tappi insomma che non sono neppure male in fatto d’eleganza. Certo, mancherà un po’ la poesia della levatura del turacciolo. Ma che poesia c’è a buttar nel lavandino il vino perché sa di tappo?
Si parla magari di vini da bere giovani, nei due-cinque anni. Mica di più. Lasciando il (poco) sughero sano esistente alle bottiglie da far invecchiare a lungo. E qui il sughero credo sia ancora insostituibile.
All’estero si sono già svegliati da tempo, sulla questione del tappo a vite. Quest’anno è intorno al novanta per cento (novanta!) la quota di chiusure a vite utilizzate dai vignaioli della Nuova Zelanda (eh, sì, fanno il vino anche là, ed alcuni - i Sauvignon della Baia di Marlborough, per esempio – sono dei fuoriclasse). Lo diceva in giugno a MiWine, la fiera milanese, David Skalli di Wine Evolution Network. La progressione del tappo a vite in terra neozelandese è stata impressionante: nel 2000, era usata sul 2% appena delle bottiglie, nel 2005 la quota era già del 72%.
Nei giorni di MiWine, Skalli venne intervistato dal magazine on line WineNews. Diceva che all’estero, e in particolare laddove non c’è una cultura radicata in materia di vino, «il tappo a vite non è visto di cattivo occhio e in futuro potrebbe ‘sigillare’ buon parte dei vini compresi nella fascia di prezzo sotto gli 8 dollari. A facilitare la diffusione della vite ci sta pensando poi lo stesso mercato. I consumatori stanno iniziando ad apprezzare la possibilità di aprire facilmente una bottiglia e altrettanto facilmente richiuderla se non completamente terminata».
Si potrebbe obiettare: ma sì, è roba da gente che di vino non sa niente: Nuova Zelanda, Australia, Sudafrica. Invece no. Invece è ora di svegliarsi. Ché le cose stanno cambiando. In fretta. E se ne stanno accorgendo anche personaggi insospettabili. Uno su tutti: Quinto Chionetti.
Chi sia Chionetti forse non tutti lo sanno, perché non dovunque è inuso tracannare bottiglie di Dolcetto di Dogliani. Ecco, Chionetti è la tradizione del Dolcetto. Classe 1925. Ottant’anni e passa. Autore - da sempre - di bottiglie d’altissimo livello. Un mito. Se fossimo in Valpolicella, sarebbe il Quintarelli della situazione, giusto per fare un paragone. Ebbene: Chionetti passa al tappo a vite. A darne l’annuncio è mica un comunicatore qualunque, però. No: ne ha parlato, sulla Stampa, in settembre, nientemeno che Carlin Petrini, lui, il fondatore di Slow Food, altro baluardo della piemontesità. «Tra i tantissimi argomenti di cui abbiamo parlato – racconta Petrini a proposito d’un incontro col decano Chionetti -, è presto saltata fuori la novità dei tappi che lui ha iniziato a impiegare per sigillare le sue preziose bottiglie. Me l’ha anche mostrate, queste bottiglie: hanno una particolare chiusura a vite che da un parte scongiura il temuto, ormai frequentissimo ‘sentore di tappo’, dall’altro dovrebbe garantire la tenuta perfetta del vino nel tempo. Se vogliamo, la novità - che poi è tale fino a un certo punto - ha il sapore di una provocazione. Ma una provocazione bene ragionata».
Ora, se uno come Chionetti se la sente di fare il salto, e se uno come Petrini non lo disapprova manco per niente, non è che agli altri piccoli produttori nostrani possa venire in mente che quest’è la strada giusta? Invero, qualche segnale l’avverto. Un noto consulente veronese m’ha confidato – proprio a Merano – che sta pensando a un bianco, importante, da imbottigliare col tappo a vite. Da un’aziendina tra le migliori che ci siano in area gardesana mi viene la notizia del (probabile) passaggio alla vite per la nuova annata del rosè. Bene, benissimo. Se non ci pensano le realtà maggiori dimensionalmente (ché quelle tappano già a vite, ma solo per il mercato estero), la rivoluzione la facciano i piccoli. A vantaggio dei consumatori, che spenderanno i loro quattrini senza il rischio di dover buttare via la bottiglia perché puzza di tappo. A vantaggio anche dei sughereti, che, sfruttati all’eccesso come sono oggi, rischiano la scomparsa.
Qui da noi, in Italia, c’è un duplice blocco. Il primo è culturale: facciamo fatica a rinunciare alla tradizionale chiusura col sughero. Il seconso è la legge: il disciplinare di molte doc italiche non prevede il tappo a vite, e per di più la normativa sui vini docg li esclude proprio. Ma fuori dai patrii confini scalpitano. Al punto che uno che conta – parecchio - sul mercato britannico del vino, David Gleave, leader di Liberty Wines (badate: l’azienda commercializza marchi italiani come Allegrini, Pieropan, Isole Olena, mica roba da poco), ha preso carta e penna e ha scritto una lettera al Ministro per le politiche agricole Paolo De Castro, perché riveda il decreto ministeriale del ‘93 che obbliga all’uso del sughero per i vini docg. E adesso invita tutti a far la stessa cosa.
Sul sito di Liberty Wine mette a disposizione il testo della lettera da spedire a De Castro: la trovate, anche in italiano, cliccando qui. E spiega così la faccenda: «Riteniamo che ai produttori italiani di vini docg dovrebbe essere data la stessa libertà che hanno i produttori di vino di ogni altra parte del mondo di usare il tipo di chiusura (sia questa realizzata in sughero naturale, tappo a vite, vinolok o a corona etc.) che ritengono si adatti meglio al loro vino. Come probabilmente sai, a questi produttori tale scelta è attualmente proibita da un decreto ministeriale. Non importa da quale parte del ‘dibattito sul sughero’ tu sia schierato, noi crediamo che ai produttori dovrebbe essere consentito scegliere il tipo di chiusura che prediligono, senza che questo li porti ad infrangere la legge; chiediamo quindi alle persone di scrivere al Ministro italiano dell’agricoltura per chiedere che questo decreto venga revocato».
Non è una richiesta da poco. Aggiunge Gleave che dall’autunno del 2000, da quando cioè ha cominciato a commercializzare vini con chiusure alternative, le vendite son cresciute in modo esponenziale. I consumatori britannici le chiedono, le vogliono. Soprattutto, le comprano. Facciamolo anche noi.
Se proprio non volete andare a cercarvela, ‘sta benedetta lettera proposta da Gleave, ve la riporto qui sotto (in italiano, che correggo un pochetto da un paio di errorucci di traduzione). Così la leggete meglio. Io, comunque, ci sto, e scrivo al Ministro.
Libertà di tappo, vivaddìo.

Fac simile della lettera da inviare al Ministro De Castro
Att. Dr Paolo De Castro
Politiche Agricole Alimentari e Forestali
Via XX Settembre, 20
00187 ROMA

Egregio Dr. De Castro
Con la presente desidero sottoporLe un problema che ha e continua ad avere un effetto negativo sulle vendite e sull’immagine del vino italiano sui mercati esteri.
(se siete operatori, inserite qui la vostra presentazione e l’indicazione dell’attività)
Abbiamo assistito nell’ultimo decennio, da parte di numerosi produttori di vino in tutto il mondo, all’adozione di chiusure alternative al sughero, movimento stimolato ed incoraggiato da due principali fattori:
- il continuo elevarsi del tasso di incidenza di vini con sapore di tappo
- la migliore garanzia di freschezza offerta dal tappo a vite.
Il movimento, voluto e promosso originariamente da produttori australiani e neozelandesi di vini di alta qualità, è stato accolto favorevolmente da altri produttori in Francia, Germania, Cile e gli Stati Uniti. Il valore medio dei vini confezionati con tappo a vite in commercio sul mercato inglese varia dalle 5 alle 50 Sterline, questo a indicare la collocazione di questi vini nella fascia di prodotto di alta qualità.
I produttori italiani, solitamente tempestivi nell’adozione di tecnologie migliorative, sono stati molto lenti nell'approccio a questa innovazione, principalmente per le restrittive norme italiane in materia.
I produttori delle zone doc come Isonzo e Soave sono riusciti, attraverso i Consorzi di Tutela, a modificare i loro disciplinari di produzione così da poter essere autorizzati all’uso del tappo a vite. Altri Consorzi di Tutela, come il Gavi ed il Chianti, non riescono ad avere libera scelta in questo caso, in quanto il Decreto Ministeriale del 7 luglio 1993 obbliga l’uso del tappo di sughero per i vini con classificazione docg.
L’attuale situazione va a discapito dei produttori italiani, che, non avendo la possibilità di scegliere, non riescono a concorrere ad armi pari sul mercato internazionale ed a soddisfare le richieste del consumatore, che allo stato attuale richiede sempre maggiormente il tappo a vite.
Per quanto riguarda il consumatore, la situazione e ancora più complicata. Non ha senso che i vini docg in bottiglie da 50cl o meno possano essere chiuse con tappo a vite, mentre quelle da 75cl ed oltre no!
Con la presente La prego di prendere in considerazione la possibilità di modificare il DM del 7 luglio 1993, dando libera scelta ai produttori italiani sul metodo di chiusura da utilizzare per i propri vini.
Distinti Saluti.
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domenica 12 novembre 2006

Rambo, le buone vibrazioni e l’eterno problema delle carte dei vini

Angelo Peretti
La cosa dicono sia andata così. Protagonista Sylvester Stallone. L’attore: Rocky, Rambo, eccetera. Ebbene, arriva a Milano. Con la moglie. Chiede di cenare nell’albergo (grand’albergo) in cui ha preso stanza. Il responsabile, imbarazzatissimo, deve dirgli che, però, posto in sala non ce n’è. Gli ultimi tavoli li hanno occupati Leonardo D i Caprio con la fidanzata e Inés Sastre col marito. Allora Sly deve trovare ospitalità in un altro ristorante. Dove mangia – pare – le tagliatelle al ragù. Così la racconta Panorama.
Ora, si dà il caso che al ristorante di ripiego ci sia stato, grosso modo negli stessi giorni, anch’io. Insieme con alcuni produttori di vino, al termine d’un wine tasting. Eravamo mezzi bagnati di pioggia, ma vabbé, la compagnia era buona e bella per davvero. Eppoi ci siamo divertiti. Leggendo la carta dei vini. Ma mica perché ci abbiamo trovato chissà quali bocce da stappare (in effetti, un po’ d’aspettativa ce l’avevamo: si beve volentieri un bicchiere di vino intrigante dopo ore a testare e sputare campionature). Nossignori: la lista era scontata, i soliti nomi (nelle città capita). Il divertimento stava nel testo. O meglio, nelle parole dell’ultima paginetta. Che non resisto alla voglia di trascrivervi.
La pagina era titolata «Le stelle». Diceva, testuale: «Il mondo del vino ha oggi nuovi confini. Accanto alle nazioni tradizionalmente all’avanguardia, ecco affacciarsi quasi ad ogni vendemmia altre emergenti. Quindi c’è parso importante rendere omaggio ai grandi apripista, a quelle stelle che, con costanza indiscutibile, tengono altissima la bandiera dei rispettivi territori di provenienza. Sette Super-Vini per ora. I Grandi di Bordeaux, la gemma Yquem, lo spagnolo Unico, il Grande campione del nuovo mondo. Pronti ovviamente ad ampliare la hit parade con altre stelle di pari splendore».
Ci siam passati la lista di mano in mano. Tanta prosopopea per presentare sette bottiglie non l’avevamo mai vista. E poi... E poi ecco l’elenco dei vini, così com’era scritto:
Chateau Lafite 1er Cru Classè 2001 Rothschild Francia 640,00
Chateau Latour 1er Cru Classè Pauillac Bordeaux 2001 Latour Francia 680,00
Château Margaux 1er Cru Classè Bordeaux 2001 Margaux Francia 660,00
Château Mouton Rothschild 1er Cru Classè 2001 Bordeaux Rothschild 660,00
Château d’Yquem (0,375 cl) 1998 Lur Saluces Francia 320,00
“Unico” 1994 Vega Sicilia Spagna 640,00
Penfolds Grange Shiraz 1999 Penfolds Australia 780,00
Et voilà: la lista dei sogni e delle contraddizioni è servita.
Ora, non si pensi che voglia prendermi gioco di quel ristorante, dove oltretutto non abbiamo mangiato male e per di più abbiamo trovato, alla prenotazione, gran cortesia. Ma un commentino ci vuole. Magari facendo i pedanti. Ma insomma, quando ci son vini che stanno oltre i 600 euro, qualche pelo nell’uovo lo si potrà pur cercare, no? E di peli quest’ovetto è proprio pieno.
Da dove comincio?
Primo. Le annate dei bordolesi. D’accordo, a me di spendere certe cifre per una bottiglia di vino non passa neanche per l’anticamera del cervello, ma se proprio avessi da scialare, be’, lo farei per qualcosa che sia effettivamente bevibile. Ma stappare un 2001 per rossi di quella tal fatta è infanticidio. Saranno pronti da bere fra una decina d’anni almeno. Giusto per dire: Chateauonline.com, un sito francese che vende vini, per il Lafite dà l’apogeo nel 2020 (per inciso: il vino, che ha avuto una valutazione di 96 centesimi da Wine Spectator, viene venduto on line a 175 euro la bottiglia, e da qui ai 600 e passa ammetterete che di ricarco ce n’è abbastanza). Capisco comprarli adesso, questi vini, per investirci (ma allora era meglio prenderli en primeur) o per farli affinare in cantina, ma metterli in lista al ristorante mi pare decisamente prematuro. A quelle cifre, poi.
Secondo. Le scelte bordolesi. Capisco, si è voluto puntare ai premier crû. Ma se hai fatto trenta fai anche trentuno, e mettici pure il quinto: l’Haut-Brion, niente male. Così almeno c’è la collezione completa. E oltretutto non è una lista monopolizzata dai Pauillac (Lafite, Latour e Mouton son tutt’e tre della stessa denominazione comunale). Ma poi, siamo proprio sicuri che fuori dal quintetto non c’è niente di Grande (con la g maiuscola, com’è scritto in carta)? Giusto per dire, mi risulta che dalle parti di Pomerol ci sia un certo merlot: si chiama Petrus, mai sentito? Eppoi qualcosa di buono lo si trova pure a Saint-Emilion, a Saint-Esthepe, a Sain-Julien...
Terzo. Le scritture bordolesi. Almeno scriverli giusti ‘sti quattro premier crû. Il Lafite è da parecchio che si chiama Lafite-Rothschild. E poi non capisco perchè, come sono scritti in lista, dei primi tre si dica che vengono dalla Francia, e il quarto da un posto di nome Rothschild: la famiglia è di quelle che contano, ma mica hanno fatto la secessione. Che poi del Latour e del Lafite si dica correttamente che sono della denominazione di Pauillac sta bene, ma allora non ci sta che si legga che il Margaux e il Mouton sono dei Bordeaux: roba quasi offensiva, ché questa è la denominazione generica, quella dei vini d’annata più semplici, senza specifico lignaggio comunale.
Quarto. I Grandi francesi (g maiuscola, ancora). I bordolesi, d’accordo, sono spesso grandi per davvero, e i quattro rossi prescelti, più l’Yquem, il più celebre dei Sauternes (a proposito: perché anche qui manca la denominazione d’origine?), non c’è dubbio che siano fantastici. Ma la Francia dei Grandi si ferma davvero qui? I cabernet, il merlot. E il pinot nero? In Borgogna in fin dei conti qualche rosso di valore lo si trova. Per esempio, col pinot noir al Domaine de La Romanée Conti fanno un vinello che si chiama La Tache. Qualcuno lo considera uno dei migliori rossi del mondo.
Quinto. Il fantomatico “Unico”, così, fra virgolette. Viene di Spagna, giusto. Ma più correttamente si dovrebbe dire che fa da punto di riferimento d’una denominazione d’origine, la Ribera del Duero. E nelle carte di mezzo mondo lo indicano com’è scritto in etichetta: Vega-Sicilia Unico, senza virgolette. Si dirà: ma almeno qui l’annata è di quelle vecchie, già bevibili. Invece no, ché in Spagna hanno un sistema diverso nelle uscite. I vini li mettono in commercio secondo la maturazione, per cui può essere che esca prima un’annata più recente di una più remota. Il ’94 è giovane.
Sesto. Il «campione del nuovo mondo», il Grange. Certo, è lo Shiraz più celebre che ci sia, fuori di Francia. Ma il campionato del nuovo mondo è tutto da giocare. Perché è vero, «il mondo del vino ha oggi nuovi confini» e certamente ci sono «i grandi apripista», ossia «quelle stelle che, con costanza indiscutibile, tengono altissima la bandiera dei rispettivi territori di provenienza». Però che esista solo l’Australia... Dico per dire: e la California? Da quelle parti Robert Mondavi e la baronesse Philippine de Rotshschild firmano un rosso la cui costanza mi par proprio indiscutibile. È l’Opus One. Un mito - il mito - della Napa Valley. Mica degno della lista dei Super-Vini?
Settimo. E i bianchi? Possibile che l’unico super-bianco sia un Sauternes? E gli chardonnay di Borgogna? E i riesling di Germania?
Insomma: un pasticciaccio. E tutto in una paginetta.
L’ho già detto: non ce l’ho con quel ristorante, tant’è che non ne ho nemmeno detto il nome. Solo che questa è l’ennesima prova di come vengano trattati i vini dalla ristorazione italiana. Ovvio, ci son le eccezioni, luminosissime. Ma sono, appunto eccezioni, ché spesse volte è roba da brividi: ignoranza, noncuranza, superficialità trasudano dalle liste. Compilate non dico facendo lo sforzo della ricerca degli emergenti, che forse è chieder troppo (tanto lo so che la scelta ai ristoratori gliela fa il distributore), ma senza neppure legger l’etichette. Almeno li scrivessero giusti.
Il vino al ristorante è un problema. Pensando poi a certi ricarichi. Son d’accordo che il ricarico ci sta, ma a fronte ci dev’essere servizio. Ma tante volte – troppe – il servizio non c’è: cattive conservazioni, temperature sballate, bicchieri inadeguati.
Primi mesi dell’anno. Vado in un ristorante d’ottima cucina. Siccome voglio spassarmela, ordino – bando alla spesa – un vino per ciascun piatto. L’ordine è dato all’inizio, insieme a quello dei piatti. Be’, volete sapere? Nessun vino m’è arrivato col piatto richiesto. E nessuno alla giusta temperatura. Roba che uno un pochettino ci si incazza.
Secondo: la conservazione. E qui la prendo un po’ da lontano.
Li ricordate i Beach Boys? Sembrava (erano) l’alternativa ai Beatles e ai Rolling Stones. Anni Sessanta. Cantavano: «I'm picking up good vibrations», «sto raccogliendo buone vibrazioni». Mi sono tornati in mente perché m’accorgo che nel descrivere i vini – quelli che mi piacciono - uso spesso l’aggettivo «vibrante». Già: nel vino cerco le «good vibrations», le buone vibrazioni.
Quand’è che un vino lo trovo davvero «vibrante»? Potrei dire, in prima battuta, quand’ha quell’equilibrio che derivi da una freschezza, da una vena acida che sostenga il frutto, il corpo, il tannino, l’alcol. Che faccia insomma da substrato alle diverse componenti del vino, tenendole legate e dando loro slancio. Ottenendo così due risultati: aumentare la piacevolezza di beva e dare chance di longevità (al vino, of course).
Mi piace, bevendo, che la bocca venga rinfrescata da una piccola alluvione di saliva. Che quest’offra contributo a rendere snella la beva. Contenendo, ove ci siano, gli eccessi di tannino, frutto, alcol, zucchero. Eccessivi non sono se l’acidità li rimette in carreggiata.
Guai se non trovo questa sensazione. Posso accettare qualche vena ossidativa, se la bottiglia è di vecchia annata, ma non sopporto il palato che s’asciuga dopo pochi secondi dall’aver deglutito un sorso. Ma è una sensazione che, purtroppo, capita di trovare. In due tipologie di vini: quelli troppo moderni, artificiosi e palestrati, e quelli mal conservati, e il luogo della cattiva conservazione è troppo spesso il ristorante.
Per i vini fantoccio, la soluzione è semplice: basta non berli. Per i vini mal conservati, è un bel guaio. Perché, come fai a contestare al ristoratore una bottiglia che non ha difetti apparenti al naso e che in bocca comunque si presenta col suo frutto? Come fai a dirgli ch’è questione di piacere mancato? Eppure...
L’ultima disavventura in una trattoria gestita da volenterosi giovani. Ordino, da una lista piccolina e un po’ scontata, un rosso valpolicellese. Lo portano caldo, alla temperatura quasi del brulè, e pazienza. Naso a posto. Ok. Al primo sorso, la spiacevole sorpresa: fruttone immediato e subito dopo - zac! - lingua asciutta. Riprovi, idem. Risultato: la bottiglia resta lì, quasi piena.
Ho guardato il tappo: compresso e per nulla bagnato dal vino. Il che conferma la tesi: bottiglia conservata al caldo all’inpiedi, in ambiente asciutto, e tappo che s’asciuga anch’esso facendo passare ossigeno. Ossidazione incipiente. Come accade in tanti, tanti ristoranti. Che però ti ricaricano il prezzo del vino come se te l’avessero affinato con tutti i crismi e te lo servissero a regola d’arte.
A volte ho provato a contestarlo. Ma è inutile: se una bottiglia è così, è probabile che tutte le altre abbiano la medesima magagna. M’è successo: ordino un ottimo bianco veronese e m’accorgo del problema, chiedo un’altra bottiglia ed è uguale, una terza ed è la sorella. Rinuncio e bevo acqua. Tornato a casa apro una mia bottiglia dello stesso vino e della stessa annata, ed è tutt’altra musica. Sono andato di nuovo a far visita a quel ristorante e ho visto il locale dove conservano i vini: hanno il deumidificatore!
Può succedere. È capitato anche a me di sprecar bottiglie tenendole all’asciutto. Risultato: il vino lo butti nel secchiaio. Ma non fate la spia, ché non credo che il regolamento comunale lo consenta di buttar vino negli scarichi.
Mi resta un dubbio: chissà che ha bevuto Stallone con le sue tagliatelle. Panorama non lo dice, mentr’informa che Di Caprio ha affondato il coltello in una gigantesca cotoletta, accompagnata da litri di Coca-Cola: non ci sono più le star di una volta.

sabato 4 novembre 2006

Del Bardolino e dei progetti che (forse) verranno

Angelo Peretti
L’Arena è il quotidiano di Verona. Mi verrebbe da dire che è anche il «mio» giornale, perché ci collaboro suppergiù dal novembre del ’79, che non è mica esattamente ieri mattina. Bene: sulle pagine dell’economia del «mio» quotidiano è uscito il 2 di novembre un pezzo che ho trovato, ahimè, interessante già dal titolo. Diceva così: «Ripresa di Soave e Custoza Valpolicella e Amarone super», ma poi anche, nell’occhiello: «Continua la crisi del Bardolino». Ahimè, sì: crisi del Bardolino.
Se m’impunto a parlar del rosso bardolinista è perché, come ho scritto sul libro che gli ho dedicato, questo è per davvero il «mio» vino. Perché a Bardolino sono nati mio padre e mia madre. Perché passavo le estati sulla Rocca, fra le vigne, e vendemmiavo le corvine e le rondinelle e le molinare. Perché nonno Piero lo tracannava di gusto. Dunque, non ci rinuncio – non posso - a considerarlo il vino del cuore. Lo considero anzi potenzialmente gran vino nel genere suo, per la sua duttilità d’abbinamento in tavola. I love Bardolino. E sui miei amori son cocciuto, ché sennò non m’innamoro proprio: non avrebbe senso.
Ma torno all’articolo areniano del 2 di novembre. Raccoglieva il parere del responsabile dell’ufficio economico veronese di Confagricoltura, che informava che «si nota una ripresa nelle quotazioni dei bianchi, in particolare Soave e Custoza, un ottimo trend per il Valpolicella - soprattutto quello da riposo per la produzione di Amarone - mentre continua la crisi del Bardolino, dovuta essenzialmente alla mancata promozione dopo anni di surplus produttivo e dopo che il Consorzio di tutela, avendo avuto il riconoscimento erga omnes non fa più promozione».
Già, Bardolino che flette. Anche nell’ultima vendemmia le uve sono state pagate poco, pochissimo. Mi domando come abbian fatto certuni a coprire i costi. Il vino non va: le scorte si sono ridotte, ma il mercato non tira. Però non sono d’accordo che la crisi sia legata solo alla mancata promozione. Certo, questo è un problema. Grosso. Ma ci sono, a mio avviso, altre concause. Che cerco di raccontare, pur sapendo che rischio d’esser tacciato per quello che tira fuori castronerie. Eppoi tento di scrivere del Bardolino per parlare (anche) del Valpolicella, che per certi versi potrebbe rischiare di percorrere la stessa china del rosso bardolinista. Per certi versi, mica per forza.
Dunque, partiamo.
Prima lagnanza, s’è detto, è quella della promozione. Il Bardolino in questo momento non gode di gran visibilità. Anzi. Ha immagine offuscata. O semplicemente non ha immagine. S’è forse ritenuto in passato di poter vivere di gloria, ma il mondo del vino è in continuo movimento. Ci si è poi quasi rassegnati, nei giorni – e sono giorni recentissimi – dei rossi muscolosi, iperalcolici, iperconcentrati, ipertannici, a pensare che per il Bardolino non ci fossero (più) chance da giocare. Dunque, inutile promuoverlo, ci si è forse detti: malato senza speranze. Ma i mercati sono ciclici, ed era logico che una qualche inversione di tendenza ci potesse (dovesse) essere, prima o poi. Il poi è adesso.
Oggi si torna a dire della necessità d’avere vini che si bevono, che siano sì piacevolmente fruttati e morbidi, ma che possano anche accompagnare la tavola senz’eccessivo impegno. Che non abbiano troppo alcol (ah, la patente a punti! ah, le scuole salutistiche!). Che siano abbordabili in fatto di prezzo. È il ritratto del Bardolino, che potrebb’essere il vino «quotidiano» del momento. Potrebb’essere e non è, perché quest’identità di «quotidianità di valore» non è stata consolidata, cullata, coccolata. E la si è smarrita.
La promozione è mancata, sì. Ed è una rogna. Ma, insisto, non è l’unica.
Un’altra grana, a mio avviso, è un malinteso ormai «storico», perché data un quinquennio: aver fatto nascere il Bardolino Superiore docg nel momento e nel modo sbagliato. In termini di strategia. Lo capisco: il mercato chiedeva vini pieni, corposi, e il Bardolino non lo era. Dunque, s’è ritenuto di dover creare un «nuovo» Bardolino che rispondesse ai canoni stilistici di stampo «internazionale», americaneggiante. Ecco dunque scaturire il progetto d’un Bardolino Superiore a denominazione controllata e garantita. Un vino più denso, più marcato nei toni, carico nei colori, concentrato il più possibile. Uscito per la prima volta con la vendemmia del 2001, ci si è accorti che finiva coll’essere quasi una duplicazione del Valpolicella Superiore, senz’averne però la fascinazione indiretta – e il traino - dell’Amarone. Innescando lo smarrimento dell’unico requisito sin lì identitario del Bardolino, l’essere «easy wine», piacevolmente, maliziosamente beverino. Ma fin qui, passi: ci poteva stare. Il fatto è che il «nuovo» docg non aveva, a mio avviso, le caratteristiche per ambire ad un corretto posizionamento in termini di prezzo. Ed è l’obiezione che sollevai allora, e per la quale venni tacciato d’essere «nemico» del Bardolino. Io, proprio io nemico delle mie radici? Suvvia!
Cosa intendevo e intendo? Semplicemente questo: o il Bardolino Superiore docg riusciva a spuntare quotazioni significativamente più alte dello storico Bardolino, oppure la sua nascita avrebbe finito col cannibalizzare il doc, spingendone in giù i prezzi. E così è stato. Purtroppo. D’accordo, i produttori mi dicono che il Superiore si vende. Ma è poca cosa, rispetto ai quantitativi (e alle potenzialità) del doc.
Perché è accaduto? Credo sia successo perché sul mercato esistono quelli che ho il vezzo di definire «prezzi di supporto». Sono i prezzi «base», quelli che effettivamente supportano una certa filiera di prodotto. Con la nascita del Bardolino Superiore docg, il «prezzo di supporto» della filiera bardolinista restava, ovviamente e inevitabilmente, quello del doc. E questo prezzo «base» avrebbe potuto resistere alle quotazioni usuali solo se il valore commerciale del docg fosse stato sensibilmente più alto, in modo da far emergere un chiaro spread fra le due tipologie. Nel momento che invece il Bardolino Superiore è uscito con quotazioni oggettivamente poco discoste da quelle del doc, era inevitabile che, per garantire lo spread, la quotazione del doc venisse spinta in basso. Così la pensavo (e la penso). Sarà anche stato casuale, ma si è verificato proprio questo problemuccio. Ma non voglio atteggiarmi a esperto d’economia, né a profeta (quelli, poi, fan quasi tutti una brutta fine), e dunque ammetto: è stato un caso.
Qui entra in ballo il Valpolicella. Già, perché quest’anno, in quest’ultima vendemmia, ha cominciato a circolar la voce di quantità grosse d’uva in appassimento, di aziende che hanno deciso d’abbandonare il Valpolicella base per puntar tutto sul Superiore, magari di Ripasso, e sull’Amarone. Non so se risponda al vero. Ma dico: attenti, ché si rischia l’effetto Bardolino. Se sparisce il Valpolicella «basic», scompare anche il suo riferimento come «prezzo di supporto». E dunque dovrà scendere la quotazione del Superiore, perché sarà questo il nuovo prezzo su cui poggia la filiera. Spero di sbagliarmi. Anzi, sono sicuro che mi sbaglio, che son solo fantasie (malinconie) mie, dato che non ha cognizione di macroeconomia. Però le scrivo.
Ritorno al Bardolino. Ché c’è, mi spiegano, anche un grattacapo strutturale. Questo: tante vigne lacustri e d’entroterra sarebbero di proprietà di gente che ci ha investito per fini diversi dalla produzione dell’uva e del vino. Attenti: tutto lecito. Semplicemente, s’è trattato d’investimenti fatti per diversificare le immobilizzazioni in tempi di caduta dei tassi. Magari sperando – ed anche questo è comprensibile e lecito - che prima o poi il piano regolatore trasformi l’area da agricola a residenziale. Oppure puntando tutto sul caseggiato rurale da trasformare in villetta, che ha quotazioni, queste sì, siderali. Se quest’è vero, è chiaro che su quelle terre si fa uva giusto per non tagliar per terra le piante. Dunque c’è in giro tanta roba che non mira alla qualità, che si trasforma in massa di vino di livello magari semplicemente decoroso. Da destinare all’esigenze d’una rete di commercianti che non hanno nelle vene spirito bardolinista, passione di terroir. Gente che, lecitamente pur’essa - ci mancherebbe -, compra cisterne e le piazza là dove c’è richiesta, al prezzo che trova. E i prezzi scendono. E se a servirgli è il Bardolino, perché ha il prezzo «giusto», compra e vende Bardolino, e sennò fa lo stesso piazzare Nero d’Avola o Montepulciano o insomma quello che vuole il mercato di sbocco di quel preciso momento a quel preciso prezzo.
Se quest’è vero, è chiaro che qui serve ridar ordine all’intera filiera. Serve un nuovo patto fra le parti. O forse serve pattuire quanto non è mai stato prima pattuito. Occorre trovare il punto d’equilibrio, di convergenza, fra vignaioli «puri», proprietari di vigna «per caso», piccoli produttori, negociants di qualità, cantine sociali, cisternisti, ché tutti han dignità su un mercato complesso come quello del vino. E questo patto non è dilazionabile, pena la prosecuzione del loop, dell’avvitamento, della crisi.
C’è adesso l’altro tema, quello della qualità. Anche qui ci sarebbe da discutere. O meglio, da fare. Ché manca – ed è mancato troppo a lungo – un tavolo in cui si progettasse davvero la «giusta» qualità del Bardolino. La riprogettazione, intendo, dei cratteri somatici del Bardolino e del Superiore. E se oggi sono parecchi i Bardolino di cui non disdegni il bicchiere – e quest’è un bene, ovvio, ed è anche un bel punto di partenza – son per converso pochissimi quelli che puntano davvero in alto, che hanno personalità e classe e finezza. Ed anche questa convergenza verso l’alto non è dilazionabile. Qui un’idea ce l’avrei, ma forse non è il momento e la sede.
Dico ancora però – e infine - che manca uno studio. Quello dell’effettiva percezione che del Bardolino hanno i mercati di sbocco. Attuali e potenziali. Perché non si può progettare senza conoscere. Mi si obietterà che con le quotazioni d’oggi mancano i quattrini per fare una ricerca del genere, così come latitano i denari per la promozione. Balle: io non ci credo che il cane si mangi la coda. A latitare è la progettualità. Se c’è un progetto serio, i schèi saltano fuori. Ci credo.