sabato 28 ottobre 2006

Che novità, ragazzi! Wine Spectator lancia i vini Euro-beautiful

Angelo Peretti
Che mito Renato Carosone. Scriveva canzonette, sì. Ma che canzonette, ragazzi! Univano tradizione e jazz, melodia e swing. Tracciavano nuove sonorità. Ed erano spesso ironiche, graffianti. Comunque geniali. Trovandomi a Napoli la scorsa primavera, non ho resistito, e ho voluto passeggiare per via Toledo, la strada dove passava «scampanianno» il ragazzotto che portava «'e cazune cu nu stemma arreto, na cuppulella cu 'a visiera aizata». E Carosone l’apostrofava: «Tu vuo' fa' ll'americano, mericano, mericano... sient'a mme chi t' 'o ffa fa'?»
Ora, mi viene in mente Carosone e il suo guappo «mericano» quando penso a quanti produttori italiani di vino da anni vogliono «fa’ ll’americano». E insistono coi bianchi legnosi e i rossi muscolosi, tutti tannino e colore e alcol e liquirizia e ciliegiona e prugna essiccata e marmellata. Proprio adesso che in America...
Ma qui devo fare un passo indietro. Da qualche settimana vado dicendo che ho l’impressione che ci sia qualcosa in rapida evoluzione nel mondo internazionale del vino. O meglio – sorry – nel mondo di chi, a livello internazionale, scrive di vino. Ho già detto dell’intervento di Denis Saverot, che sulla «Revue des Vins de France» ha posto il problema, ossia se i vini d’oggi, fedeli alla linea filoamericana, non siano troppo alcolici, artificiosamente gonfi e tronfi, «bodybuildés», e insomma imbevibili. E ho detto anche delle diverse reazioni che altri colleghi hanno avuto in giro per il mondo. E di come abbia preso autonoma posizione sulla sua guida annuale anche il grande Hugh Johnson, che scrive che «da un lato, si potrebbe definire “moderno” un vino netto, nitido, equilibrato, con fruttato pulito bene in evidenza. Ma i curatori d’uva si volgono nuovamente al terroir: cercano sempre più toni minerali per i propri vini, e il carattere del luogo». Be’, non è finita. Perché adesso gli americani vogliono mettersi a fare gli europei. E sono così convinti, che hanno coniato una nuova formula, quella dei vini Euro-beautiful, «belli come gli europei».
A scriverne nientepopodimeno che sul numero di ottobre di «Wine Spectator» - che è il periodico che fa opinione negli Usa in fatto di vino e che, guarda caso, è sempre stato anche la bibbia del vino american style – è Matt Kramer. Il quale è vero che si occupa spesso e volentieri di vini europei, ma, santiddìo, è pur sempre un opinionista del magazine statunitense, e non credo proprio che gli abbiano pubblicato un pezzo senz’approvazione editoriale e neppure che gli sia dato di volta il cervello.
Che dice dunque Kramer di tanto sconvolgente? Racconta d’una cena con due amici di Los Angeles, convinti da lungo tempo che i vini californiani siano privi d’ispirazione in confronto a quelli che vengono dall’Europa. E allora Kramer ribatte che no, anche in California ci sono vini Euro-beautiful. Sentite qua: «Quando gli ho detto – scrive l’editorialista – che la California aveva un gran numero di vini Euro-beautiful, mi sono sembrati genuinamente sorpresi. Per loro, questa appariva una novità. Che cos’è un vino Euro-beautiful, mi domandate? È quel tipo di vino che non traffica con un fruttato sopra le righe, col legno in eccesso o quel lo-capite-quando-lo-assaggiate senso di calcolo mercantile – in parole povere, non un «vino da paura». Non vengono necessariamente dall’Europa, peraltro. Gli Euro-beautiful wines, di qualunque parte siano, vi donano un senso, non solo di piacere gustativo, ma dell’impegno di un produttore verso la sua terra».
Ora, lo capite bene il significato d’un pezzo del genere? Sembra un sogno, ma anche in America si parla chiaramente ormai di terroir. Altro che vino omologato, planetario, globalizzato. Si fa marcia indietro. Verso un umanesimo vitivinicolo di stampo europeo. Classico. E lo si scrive su «Wine Specator», mica il bollettino dell’american St.-Emilion fan club o dei Langa wines friend, ammesso che sodalizi del genere esistano. «Wine Spectator», il colosso, il giornale enoico che ha la bellezza di 2.298.000 «affluent readers who love wine», duemilioniduecentonovantottomila lettori-amanti del vino. E lo possono scrivere orgogliosi: «More than any other wine magazini on earth», più di qualunque altra rivista del vino al mondo.
Ora, il fatto è che di terror gli americani non ne parlano mica soltanto. Nossignori: hanno cominciato a lavorarci sopra con cocciuta determinazione. E hanno preso a far vini che descrivono uomini e terre d’oltreoceano. Kramer ne cita parecchi di vini Euro-beautiful a stelle e strisce. Qui se non drizziamo le antenne ci superano anche sulle cose su cui dovremmo essere leader.
Del resto, che la svolta sia in atto di là dell’Atlantico lo si era già capito a marzo, quando a Davis, Usa, l’Università della California ha organizzato un convegno dal titolo esplicito: «Terroir 2006». Quattro giorni di lavori. Duecento produttori e tecnici paganti. Tutti lì a parlare e sentir dire di terroir. Lo racconta un agronomo italiano che a quel convegno c’è andato come relatore. È Maurizio Gily. Ne scrive sul numero d’ottobre di «Slowfood». Narra come si sia trattato d’un summit teso appunto «all’inquadramento di un concetto, quello di terroir, che fino a pochi anni fa si sentiva spesso liquidare, in quel paese, con due sole parole: French bullshits, stronzate francesi». Invece, altro che stronzate. Bisogna finirla di pensare che ‘sti americani facciano solo vinoni omologati al gusto cosiddetto internazionale. «La novità – sottolinea Gily – è che, almeno per i vini destinati a consumatori più attenti e raffinati, si assiste, anche nel Nuovo Mondo, al fenomeno opposto: cioè la rivendicazione dei valori del terroir, quindi della diversità e dell’originalità».
Ragazzi, adesso sì che si fa dura. Ma, animo! questa qui è anche un’opportunità. Purché i vigneron del vecchio continente tornino ad essere fedeli alla loro storia, alla loro terra, alla loro umanità.
Caro Italian wine producer, «tu vuo' fa' ll'americano, mericano, mericano... ma si' nato in Italy! sient' a mme: nun ce sta niente 'a fa'...» È ora di tornare a casa. Adesso. Con orgoglio e passione.

sabato 21 ottobre 2006

Il vino ai tempi di Truciolo Bill

Angelo Peretti
Da piccolo facevo la raccolta delle figurine. Alzi la mano chi non l’ha mai fatta. Mi ricordo un album che mi piaceva un sacco, sulla conquista del West. Storie di indiani e cow boy. Allora erano quelli gli eroi. Con le mirabolanti avventure di Bufalo Bill. Be’, ora che invece colleziono bottiglie, mi toccherà affrontare le storie di Truciolo Bill. Già, perché oggidì si può anche in Europa. Si può fare vino, intendo, in stile nuovomondista, come in Australia, in California o in Sudafrica. Aromatizzando il liquido alcolico coi trucioli di legno. Adesso è legale. Basta che i trucoli siano di quercia.
Pare che l’intervento non sarà possibile coi doc, i docg e gli igt, ma tu vallo a sapere. Unica «salvaguardia» del consumatore: se il vino è fatto coi trucioli non si può scrivere in etichetta che è invecchiato in botte. Tutto qui. Il che, francamente, sembra una presa in giro.
Della faccenda se ne parla da tempo. O meglio, se n’è fatto un gran can-can che mi pare abbia soltanto messo in confusione la casalinga di Voghera che acquista il vino al supermercato e il bevitore occasionale, ma anche, a dire il vero, quello un pochettino più esperto. E forse perfino qualche addetto ai lavori.
La questione è questa: nei paesi di nuova enologia, è pratica abbastanza diffusa quella di dar sapore di legno al vino mediante l’utilizzo dei chips. Già: chi vuol esser più figo, invece di trucioli usa dire chips, che sono poi, appunto, pezzetti di legname. Il vino in questa maniera diventa più tondo, morbido, vellutato. Un bibitone alcolico, piacione al punto giusto. Che però costa meno - parecchio meno - di quanto sarebbe potuto costare se fosse vino invecchiato in botte o in barrique.
Sia chiaro: sono - dovrebbero essere - solo vini di massa, industriali. Siccome però questo modo d’agire ha creato di fatto una situazione di concorrenza difficile da fronteggiare per i produttori europei, nel vecchio continente s’è passati ai ripari autorizzando un’identica pratica. E d’ora in poi anche in Europa è lecito dar sapore di legno al vino con l’uso del truciolame. Lo stabilisce il regolamento europeo numero 1507 dell’11 ottobre 2006. È legge.
Lo ricorderete: appena s’era sparsa la voce che l’Unione europea s’accingeva al fatal passo della libertà di truciolo, qui da noi era scoppiata la battaglia mediatica contro «l’invecchiamento artificiale del vino». Così si diceva: «invecchiamento artificiale». Si sono attivate petizioni. Ci sono state mozioni parlamentari. Son volati pacchi di comunicati stampa. C’è stato un sindaco che ha decretato che il suo comune è «detruciolizzato»: con un’ordinanza ha vietato l’uso dei chips sul territorio municipale. Ma tutto questo bailamme ha finito per confondere la solita casalinga vogherese. «Invecchiamento che?» L’invecchiamento non c’entra niente. Semplicemente, si dà sapore di legno al vino, e in genere è vino giovane e di poca sostanza, se c’è bisogno di doparlo col sentor di falegnameria. Occorreva proprio parlare di «invecchiamento artificiale»?
In fondo, la questione è soprattutto economica. Mettiamo che il produttore Pinco Pallino faccia il suo vino utilizzando la barrique di rovere. Mettiamo che le abbia acquistate attorno ai mille euro l’una. Vuol dire che se le usa una volta sola, il vino che se caverà fuori costerà 4 euro al litro di solo uso della botticella. Il che significa che la bottiglia finale non potrà essere venduta a pochi soldi. Se invece della barrique si usano i trucioli di legno, il costo finale sarà molto, molto più basso. Ma, ripeto, il paragone vale solo se il vino è così così, senza infamia e senza lode, ché altrimenti non c’è confronto che tenga. Delle due l’una: o il vino di partenza è buono, e allora non serve aromatizzarlo, oppure è una mezza ciofèca e tale resta anche se sa di falegname.
Piuttosto, c’è chi teme la truffa del consumatore ventilando il rischio che gli si rifili del vino aromatizzato coi trucioli al prezzo di un altro affinato per davvero in barrique o in botte. Ma la faccenda è talmente ovvia che i legislatori di Bruxelles ne han tenuto – a modo loro – conto. Il regolamento approvato dalla Commissione Ue dice infatti così: «L’uso dei pezzi di legno di quercia nell’elaborazione dei vini conferisce al prodotto un gusto di legno identico o simile a quello di un vino elaborato in botti di quercia. È quindi molto difficile per il consumatore medio stabilire se il prodotto sia stato ottenuto con l’uno o con l’altro metodo. Il ricorso ai pezzi di legno di quercia nell’elaborazione dei vini è economicamente molto interessante per i produttori vinicoli e si riflette sul prezzo di vendita del prodotto. Può esserci quindi il rischio che il consumatore venga tratto in inganno, se l’etichettatura di un vino elaborato usando pezzi di legno di quercia contiene termini o espressioni che potrebbero indurlo a credere che si tratti di un vino elaborato in botte di quercia. Per evitare che il consumatore venga ingannato e che si producano distorsioni della concorrenza fra i produttori, occorre definire norme di etichettatura appropriate». E allora che cosa ti han pensato i signori legiferanti d’Europa? Hanno deciso che sulle etichette si può scrivere che il vino è invecchiato in botte solo se si è adoperata la botte per davvero. Insomma, se il vino è fatto in fusti di legno, allora si può scrivere così: «fermentato in barrique/in botte/in botte di quercia», «maturato in barrique/in botte/in botte di quercia», «invecchiato in barrique/in botte/in botte di quercia». Le stesse diciture sono vietate se invece si sono adoperati i chips: ci mancherebbe altro. Occhio però: se il vino è fatto coi trucioli, non c’è alcun obbligo di dichiararlo, checché sostengano certe affrettate interpretazioni che si son lette qui e là. Almeno così mi pare: mica sono un esperto di cose legali, vivaddìo.
Bontà sua, il legislatore ha anche deciso che i trucioli devono essere di quercia. «I pezzi di legno di quercia – scrive il regolamento - sono utilizzati per l’elaborazione dei vini e per trasmettere al vino alcuni costituenti provenienti dal legno di quercia. I pezzi di legno debbono provenire esclusivamente dalle specie di Quercus. Essi sono lasciati allo stato naturale oppure riscaldati in modo definito leggero, medio o forte, ma non devono aver subito combustione neanche in superficie e non devono essere carbonacei né friabili al tatto. Non devono aver subito trattamenti chimici, enzimatici o fisici diversi dal riscaldamento. Non devono essere addizionati con prodotti destinati ad aumentare il loro potere aromatizzante naturale o i loro composti fenolici estraibili». Ecco: così dice la legge.
La questione dei trucioli non è ancora pacifica. C’è chi vuol salire sulle barricate. L’associazione delle Città del Vino ha annunciato l’intenzione di impugnare il regolamento comunitario davanti Corte Giustizia europea. Vabbé, vedremo come andrà a finire. Personalmente sono scettico: la grande industria finisce sempre per spuntarla, la multinazionale del gusto domina, e cercar di fermare il treno con il culo non è mai conveniente, ché il treno finisce inevitabilmente per schiacciarti.
Dico invece che a questo punto è urgente che i vignaioli facciano una precisa scelta di campo. Che decidano se stare dalla parte del gusto omologato internazionale o se invece optino alla buon’ora per la precisa proposizione del terroir. Se preferiscano fare il vino con lo stampo o se invece credano davvero che sia un valore il legame fra vitigno (preferibilmente autoctono), terreno, clima, ambiente, storia, passione, intelligenza. Se insomma nel vino sia meglio metterci truciolo o anima.
Eppoi, scusatemi, ma quello dell’aromatizzazione del vino coi trucioli è un problema, ma non è mica l’unico. Ché in cantina troppe volte imperversa il piccolo chimico. Legalmente. E per dirla come si deve, m’impossesso di quant’ha scritto Alessandro Masnaghetti, wine writer coi fiocchi, nell’editoriale della sua eno-newsletter indipendente Enogea (il numero è quello di settembre-ottobre). Una staffilata. Eccola qui:
«Arieggiamento.
Trattamenti termici.
Centrifugazione e filtrazione.
Utilizzo di anidride carbonica.
Utilizzo di lieviti per vinificazione.
Aggiunta di fosfato bibasico o di solfato di ammonio.
Aggiunta di solfito di ammonio.
Aggiunta di dicloridrato di tiamina.
Utilizzo di anidride solforosa (in varie forme).
Chiarificazione con gelatina alimentare.
Chiarificazione con colla di pesce.
Chiarificazione con caseina o caseinato di potassio.
Chiarificazione con ovalbumina e/o lattalbumina.
Chiarificazione con bentonite.
Chiarificazione con diossido di silicio.
Chiarificazione con tannino.
Chiarificazione con enzimi pectolitici.
Chiarificazione con preparato di betaglucanasi.
Utilizzo di acido sorbico.
Utilizzo di acido tartarico.
Utilizzo di tartrato neutro di potassio.
Utilizzo di bicarbonato di potassio.
Utilizzo di acido sorbico.
Utilizzo di carbonato di calcio.
Utilizzo di tartrato di calcio.
Utilizzo di preparati di scorze di lieviti.
Utilizzo di polivinilpolipirrolidone.
Utilizzo di batteri lattici.
Aggiunta di lisozima.
Aggiunta di acido citrico.
Aggiunta di acido L-ascorbico.
Aggiunta di tannino.
Utilizzo di gomma arabica.
Per chi non lo sapesse, queste sono solo alcune delle pratiche e dei trattamenti enologici autorizzati dalla Comunità Europea. Detto ciò, siamo sicuri che i trucioli di cui tanto si è discusso siano il problema?»
Sic dixit il Masna, e sottoscrivo.
A proposito, l’ho già suggerito un’altra volta, ma lo ripeto: leggetela Enogea. In edicola non la trovate: dovete abbonarvi. Sei numeri a 55 euro. Potete scrivere direttamente all’one-man-band che la dirige, scrive e compone: la mail è almasnag@tin.it.
E qui mi fermo.
Prosit.

giovedì 12 ottobre 2006

Il misunderstanding del Lugana

Angelo Peretti
Gli inglesi parlerebbero di misunderstanding. In italiano suonerebbe fraintendimento, ma coi tempi che corrono usare la terminologia britannica è più fashion, e allora vai col misunderstading. Quello del Lugana.
Chi mi segue da segue da più tempo – bontà sua – sa bene quale sia la mia passione per questo bianco delle argille a sud del Garda. Ci ho anche dedicato un libro, al Lugana. E credo che potrebb’ambire davvero a essere uno dei più bei vini d’Italia. Capace com’è, come pochi altri italici bianchi, d’invecchiare alla grande, crescendo man mano in complessità e nobiltade. Tirando fuori intriganti mineralità sconosciute ad altre plaghe bianchiste. Potrebbe essere, dicevo, ma non è. Non ancora, almeno, ché c’è un misunderstading dal quale il mondo luganista sembra non esser capace d’uscire. O, più banalmente, non averne voglia.
Il Lugana va, tira sul mercato. Mi diceva qualche giorno fa una produttrice e negociant d’altra area gardesana che dovrà ben pensare a mettere in listino anche un Lugana, ché i suoi distributori esteri glielo chiedono. Mi raccontano gli amici ristoratori benacensi che la gente beve Lugana, mica Soave o Custoza, quand’ordina pesce e non solo. E i prezzi delle uve del trebbiano luganista di questa vendemmia del 2006 sembrano impazziti, schizzati in alto. E i terreni valgono una fortuna, contesi oltretutto come sono fra vigna e centri commerciali e speculazioni edilizie. Insomma, ci sarebbe di che cantar di gioia a sud del lago. Invece si mette il muso lungo. Si mugugna. Ché le guide e la critica e i giornalisti non premiano i loro vini. Insomma: piace al pubblico, ma sembra andar per traverso ai wine writer. Che lo snobbano. Se non, addirittura, lo trattan male. E i vigneron della Lugana (la Lugana uguale zona, il Lugana uguale vino: nome femmina per la terra e nome maschio per il figlio di quella terra) non si capacitano, non capiscono il perché. Il perché è il fraintendimento, e vedo di spiegarmi.
Parto alla lunga. Cinque anni fa il consorzio del Lugana rispolverò un concorso vinicolo che si faceva tempo prima da quelle parti, la Stella del Garda. M’invitarono a guidar la commissione d’assaggio, che doveva selezionare un certo numero d’etichette. In realtà, ne scegliemmo ben meno del numero richiesto. E toccò a me spiegare come mai. La spiegazione fu semplice e – mi rinfacciarono allora – crudele: troppe ossidazioni, troppo legno, troppa dolcezza. Ci fu chi mi tolse il saluto.
Il fatto è che io devo esser postumo, e vedo invece adesso che quelle note vennero da taluni prese in seria considerazione. Me l’ammettono. E, ammetto io, la cosa m’inorgoglisce, m’esalta l’autostima e la vanità (mi contento di poco). Dunque, v’è stata una presa di consapevolezza sui limiti tecnici e tecnologici, talché oggidì d’ossidazioni ce ne son molte, molte meno. Eppoi si cominciò a ridurre l’uso della falegnameria, e oggi alcuni dei crû luganisti non sanno più di legno come allora e qualcheduno s’è perfino ripulito del tutto. Ma sul terz’aspetto, niente da fare: la sensazione dolce c’è, e mi verrebbe da dire che addirittura è cresciuta. Me la si giustifica argomentando che la maggior cura del vigneto porta ad un crescendo di concentrazione, e dunque o dolcezza o alcol. Io credo che la spiegazione sia più semplice: siccome lo stile morbidone del Lugana vende, e sembra vendere bene, non si vuol correre il rischio di cambiare. Cosa comprensibile e lecita e umanissima. Ma allora lo sappiano, i luganisti: i loro vini piacciono al pubblico – un certo pubblico, magari d’impronta mitteleuropea, che è poi la clientela turistica del Gardasee – ma mica tanto a chi s’occupa di vino. Ché l’idea di bianco d’eccellenza è altra.
Prendiamo il Soave. Com’è il Soave di grido? Apre sul frutto, talvolta certamente morbido, ci mancherebbe, ma poi tira fuori la grinta nervosa d’una acidità ben calibrata che esalta ancora frutto e insieme fiore e vegetalità e vena minerale, e dopo c’è il finale quasi tannico, bellissimo, pulente, asciutto. Ecco l’archetipo, il prototipo, il benchmark, il riferimento. È questo il percorso gustativo del bianco di prestigio. Ecchetifà invece il Lugana? Chiude morbido e dolce, accidenti.
Ora, mi si dirà che potrebbero esser solo fisime mie e di qualche minuscolo manipolo di giornalisti e degustatori affetti da onanismo intellettuale. Invece no. Alla lunga, lo capisce anche il bevitore semplice, che è poi quello che conta davvero, quello che compra il vino. E racconto d’un episodio occorsomi pochi giorni fa a Mantova. Eravamo a cena in centro. Bella serata. Nei piatti, immancabili, i tortelli di zucca, che son dolcini, com’è noto, ché è dolce la zucca e anche l’amaretto e la mostarda che alla zucca fan complemento nella farcia del raviolo. In tavola ho fatto portare un Lugana, uno di migliori, dei più noti. Uno di quelli che in degustazione vanno meglio degli altri, per capirci, e anzi si piazzano in testa alle graduatorie. Ebbene: la morbidezza del Lugana finiva per sovrastare la dolcezza del piatto. Tant’è che la boccia è rimasta lì semipiena: bicchiere appena scolmo il mio, ed altrettanto il commensale che di vino non s’occupa affatto. Col pesce, d’accordo, sarebbe potuta anche finire in un lampo, soprattutto s’era pesce lacustre grassoccio. Ma col tortello niente, è andata male.
Eccolo qui, ordunque, il misunderstanding: pretendere che la formula ora vincente sul mercato sia comunque quella giusta. Invece no, ché il mercato del Lugana è in realtà piccola cosa, piccolissima. Tutto il bianco luganista, mess’insieme, è grosso modo una goccia nell’oceano, tant’è piccola la quantità. E dunque non fa e non può far testo. Ma proprio perché la quantità è piccola, meglio sarebbe orientarla tutta quanta alla qualità del grande bianco.
Eppoi anche sul successo commerciale rischia d’esserci un misunderstading. E viene fuori, ahimè, leggendo un comunicato consortile – o qualche cosa del genere – che ho visto qualche settimana fa sul web, sul GardaNotizie.it dell’amico Luigi Del Pozzo. Vi si diceva che «Quest’anno, per la prima volta in tutte le cantine produttrici di Lugana si registra il tutto esaurito». Bella notizia, da cantar vittoria? No, purtroppo: è boomerang. Ché, diciamocelo chiaro, il 2005 è stato quantitativamente un’annata di magra, e magra tanto, per il Lugana. Troppe piogge, e a uva matura anche una doppia grandinata che ha ridotto all’osso la produzione. Vendemmia povera: c’è chi ha fatto il trenta per cento circa della produzione media dell’altre annate. Dunque di Lugana dell’annata ce n’era ben pochetto da tirar fuori di cantina. E se il Lugana da vendere stavolta era pochino, è inquietante sbandierare che è la prima volta che si fa il sold out: verrebbe da pensare che allora nelle annate normali le bottiglie restano lì. In realtà, so che non è così, e che il Lugana comunque si piazza, ma senza marce trionfali: ci vuol fatica, e tanta. Allora, dico io, fatica per fatica, fatevi animo, uomini e donne di terra luganista, e marciate impettiti nell’altra direzione, ché quella dell’esaltazione del terroir, dell’affermazione del trebbiano vostro e dell’argille che l’accolgono e degli umidori invernali del lago e delle calure estive e delle brezze e della storia del luogo. Fate il grande Lugana, e so che ne siete capaci. Uscite dal fraintendimento, coraggio. Fate che la vendemmia 2006 – che è buona, parecchio – sia quella della svolta.

sabato 7 ottobre 2006

Se il futuro saranno finezza, eleganza e terroir

Angelo Peretti
Basta coi vini palestrati. È ora di tornare alle bottiglie da bere. Il tema l’ho accennato l’altra settimana, riprendendo una circolare del segretario generale della federazione internazionale dei giornalisti e scrittori del vino, Hervé Lalau. Il quale rilanciava a sua volta l’editoriale di Denis Saverot sulla Revue des Vins de France (fra gli addetti ai lavori è chiamata, confidenzialmente, RVF) di ottobre. Nel quale si domandava: i vini d'oggi non sono troppo alcolici? E la risposta era: sì. Perché, secondo Saverot, dopo i vini esili delle annate «produttiviste», s’è voluto strafare, e l’equilibrio è scappato di mano.
Il mio pensiero è comunque in sintonia: è vero, verissimo: dobbiamo ritornare a far vini che si bevono per davvero, che ti permettono di finire la boccia. Mica solo da degustazione, da concorso. Da guida.
Ora, a parte il mio commento, che conta quel che conta, l’intervento del capo della federazione non poteva di cero passar sotto silenzio. Perché invitava apertamente i giornalisti a occuparsi dei vini bevibili, a promuoverli. A farli tornare d’attualità, insomma. Così ecco che sono arrivate le prese di posizione - pro e contro – d’altri colleghi da vari angoli del pianeta enoico. E lui, il capo, ha rilanciato i pareri dei confrère. Una parte, intendo, ché sennò temo ci sarebbero volute circolari-fiume. E dunque li riporto, alcuni di quest’interventi, ché mi sembrano buona materia d’approfondimenti. Perché, non c’è dubbio, il tema dei vini da bere contrapposti a quelli palestrati è d’attualità. Urca, se è d’attualità. E i produttori s’interrogano su quale sia la via da seguire. Magari aspettando il nuovo verbo del giornalista-guru di turno. Per prendere un nuovo abbaglio. Che però può rendere quattrini nel breve periodo. Come diceva il buon Giulio, a pensar male si fa peccato, ma quasi sempre ci si indovina.
Certo, c’è il sospetto che ognuno tra i commentatori tiri l’acqua al proprio mulino. E così chi vive nella vecchia Europa vede con estremo piacere il tornar di moda dei vini che giocano più sulla finezza che sulla potenza. Ma i wine writer del nuovo mondo la pensano esattamente al contrario. E insomma la querelle sembra lontana dal trovar soluzione.
Prendiamo Sue van Wyk. Giornalista free lance, consulente e giudice di concorsi, wine master dall’89: una che se n’intende. E che ha fatto conoscere nel mondo i vini dell’emisfero sud, quelli delle sue terre: la tesi del master, giusto per dire, era dedicata al Pinotage sudafricano. Lei è piuttosto critica con l’idea di Saverot e Lalau. E ribatte in maniera pungente. Quasi stizzita, direi. Scrive: «Cos’è che è troppo alto? Se c’è sole, ci dev’essere alcol! I produttori del nuovo mondo non aggiungono zucchero per spingere in alto i livelli alcolici. Il mio sospetto è che questo non sia che un altro tentativo dei wine writer francesi di sminuire i vini del nuovo mondo per distogliere da questi l’attenzione dei consumatori e orientarli di nuovo a quelli francesi, nel tentativo di sospingere in alto le vendite dei loro vini, che stanno calando da ogni parte del mondo». E potrebbe starci, come obiezione, visto che il contendere ha origine in Francia.
Ma c’è l’antitesi. «Je suis entièrement d'accord avec Denis Saverot!» esclama - e non serve traduzione - la parigina Nathalie Le Foll, fondatrice e caporedattrice di Elle à Table, nonché autrice di vari libri di cucina. Ma qui è lotta - femminile contesa, ché le donne mica tirano di fioretto quando si tratta di prender posizione - fra sostenitrici delle opposte visioni dei vecchi e nuovi mondi vinicoli.
Allora andiamo dove tradizione enoica non ce n’è quasi (ancora). In Danimarca, ad esempio: lì mica ce le hanno, le vigne, e il vino lo conoscono da poco. A farsi interprete della cultura bacchica in terra danese è ad esempio Jörgen Aldrich, giornalista del Fyens Stiftstidende. Che interviene con parole che credo vadano lette anche alla luce del suo essere divulgatore in un mondo di bevitori praticamente del tutto nuovo, che si sta solo da poco aprendo alla seduzione del vino. «Sono lieto di vedere - scrive Aldrich - che il problema dell’alcol è preso seriamente in considerazione. Come wine writer danese, sto da qualche anno affrontando sia nei miei scritti che nei dibattiti coi colleghi e soprattutto coi produttori d’oltreoceano il tema dei vini quotidiani sopra i 13,5 gradi di alcol. A parte quanto già sottolineato, c’è anche un aspetto che riguarda la salute. Che il vino abbia 14-15 gradi o che ne abbia 12-12,5, la gente ne beve la stessa quantità. Non ho dubbi che questo nel lungo tempo sia dannoso per la loro salute. Nessuno discute i grandi vini (Châteauneuf-du-Pape, Amarone e cose del genere) che sono da sempre bombe alcoliche. Questi non sono vini destinati al consumo di tutti i giorni. Il problema è quello dei vini più economici, che seducono i consumatori (e i giornalisti?) perché sono così bevibili e disponibili. Sfortunatamente, mi sento abbastanza solo nel trattare questo tema. I colleghi non sembrano pensare che abbiamo un problema».
«Che vini serviremo domani?» è il titolo d’un intervento del francese Paul Brunet su L’Hôtellerie Restauration. Dove prende in esame quello che lui chiama «il grido d’allarme di molti professionisti della ristorazione». La prima a sollevargli la questione - racconta - era stata proprio una ristoratrice, Liliane, che gli aveva fatto arrivare un messaggio sul sito del giornale: «Monsieur Brunet - gli diceva -, davanti all’ansia dei clienti che devono riprendere il volante, faccio appello a lei. Creda, sono sempre di più quelli che rifiutano i vini che superano i 12,5 gradi di alcol». E poi di mail gliene sono arrivate altre ancora. Al che lui ha tentato di coinvolgere il mondo produttivo francese, mettendolo di fronte all’evidenza, suffragata per di più da una previsione di mercato. Autorevole. «C’è una domanda sempre più insistente per i vini da bere, a bassa gradazione - ha scritto -, ma il fatto è che nel corso degli ultimi vent’anni, la gradazione media dei vini è aumentata di due gradi!» Ed ha citato a tal proposito un rapporto del Senato transalpino, nel quale si legge che esiste almeno un segmento di mercato per il quale la domanda non è al momento soddisfatta dall’offerta francese: è quello dei vini quotidiani a bassa gradazione. Secondo quest’indagine, il 50% delle vendite di vini quotidiani interesserà in futuro prodotti con un tenore alcolico che non superi i 12 gradi. «In ragione dell’insufficienza di questo tipo di mercato in Francia - dice il documento del Senato -, questa parte di mercato è catturata dai vini importati dalla Spagna o dall’Italia».
Poi, è arrivato Saverot sulla Revue des Vins de France. Che trova, s’è visto, consensi e dissensi. Come quello sinteticamente (ben) espresso dal belga Bernard de Nivelles: «C’è stato un tempo in cui la RVF - ha osservato - ha spinto verso la concentrazione, ed ha dunque contribuito, al pari di Parker, a quest’eresia. È un bene che oggi il suo capo redattore riconosca quest’errore». E già: tutti ci siamo più o meno infatuati dei vini muscolosi che piacevano a Parker e a Wine Spectator. Ma adesso è ora di trovare la nostra via. Che potrebbe essere un ritorno al passato. Ai concetti di terroir, di finezza, d’eleganza. E chi mi legge sa (forse) che sono il mio credo.
E qui finisce la cronaca, se cronaca è definibile il dibattito (in)sorto fra gli addetti ai lavori del giornalismo vinicolo dopo l’uscita della RVF. Però è vero che ci s’interroga sul futuro. Che si cerca di capire quale sarà il vino di domani. Dove andremo a finire, insomma, nell’epoca della globalizzazione. Orbene: su quest’argomento mi pare illuminante - come su tant’altre questioni enoiche - quanto scrive Hugh Johnson, che fra i wine writer del mondo occupa il ruolo che spetta alle star. Ebbene, è appena uscita l’edizione 2007 del suo «Libro dei Vini», utilissimo tascabile. In Italia è per i tipi di Rosenberg & Sellier: lo trovate (16,30 euro ben spesi) in qualunque libreria che abbia un minimo d’assortimento. Dunque, chiederete. che cosa scrive ‘sto Johnson? Calmi: di seguito riporto un paio di passaggi. Da meditare.
Primo stralcio: «Livelli inferiori di acidità, tannini meno astringenti e gradazione alcolica più elevata sono tutti elementi - scrive il sommo Hugh - molto facili da ottenere e molto diffusi. La tentazione di fare vini secondo questo gusto è grande, e i critici americani ripagano con le loro lodi i produttori che si lasciano tentare. In fin dei conti, il punto cruciale è quel che si vuole dal vino. Una bevanda per soddisfare la sete? Un bene di investimento? Un trofeo da mettere in bella mostra? Il perfetto compagno del pasto, un oggetto fatto ad arte, sviluppato da francesi e italiani nel corso dei secoli di amorevoli ricerche? Apparentemente c’è poca concordia sulla risposta, sia per chi il vino lo beve che per chi lo produce. In ogni altro settore, lo spettro della scelta si va restringendo. Con la globalizzazione, si dice, la varietà è al capolinea: tutti i vini, alla fine, avranno lo stesso medesimo gusto».
Come dite? Che è uno scenario da far accapponare la pelle? Certo, ma molti profeti di sventura la pensano esattamente così. Non Johnson, però, che saggiamente annota: «A mio parere, l’esplorazione dei significati che un vino può avere per ogni persona è solo all’inizio. Le risorse in termini di stile e sentori sono ben più ampie di quanto possiamo immaginare». E nel tracciare gli «appuntamenti per il 2007, sembra delineare una via. Dice infatti - e sono parole da leggere e rileggere - così: «La modernità del vino, in effetti, è un aspetto curioso. Da un lato, si potrebbe definire “moderno” un vino netto, nitido, equilibrato, con fruttato pulito bene in evidenza. Ma i curatori d’uva si volgono nuovamente al terroir: cercano sempre più toni minerali per i propri vini, e il carattere del luogo. Persino in California, dove il suolo è stato a lungo visto come quella cosa che serve a far stare in piedi la vite, i reimpianti forzati in seguito agli attacchi di fillossera degli anni Novanta hanno rivelato un interesse tutto nuovo per quanto c’è anche sotto il terreno: quale è la struttura del suolo in ogni parte del vigneto, e di conseguenza la sua importanza. È vero, gli americani sono ancora molto sospettosi della parola terroir, ma ancora un po’ di tempo e possono farcela anche loro. Alcuni vinificatori stanno anche cominciando a guardare con molta preoccupazione all’aumento del contenuto alcolico dei vini. Cercano di capire come vincere la sfida del clima e riuscire a produrre vini più leggeri, a dispetto dei voleri della natura. Così, il concetto di modernità sembra assumere un nuovo significato e non è lontano il giorno in cui le parole chiave saranno di nuovo “eleganza” e “finezza”. Per alcuni di noi, naturalmente, queste parole non si erano mai zittite». Già, ed è tempo che, senza timori d’essere tacciati per retrogradi, cominciamo a gridarle nuovamente. Non è tardi. Anzi: è il futuro.
Leggetele, produttori, le parole di Hugh Jonhson, il «grande vecchio» (alla fine fine, si spende poco per possederle, poco più di 16 euro all’anno per leggere le preziosissime - distillate - parole d’introduzione della sua guida). Se possibile, metabolizzatele. E mettetele in bottiglia. Tocca a voi.