giovedì 12 ottobre 2006

Il misunderstanding del Lugana

Angelo Peretti
Gli inglesi parlerebbero di misunderstanding. In italiano suonerebbe fraintendimento, ma coi tempi che corrono usare la terminologia britannica è più fashion, e allora vai col misunderstading. Quello del Lugana.
Chi mi segue da segue da più tempo – bontà sua – sa bene quale sia la mia passione per questo bianco delle argille a sud del Garda. Ci ho anche dedicato un libro, al Lugana. E credo che potrebb’ambire davvero a essere uno dei più bei vini d’Italia. Capace com’è, come pochi altri italici bianchi, d’invecchiare alla grande, crescendo man mano in complessità e nobiltade. Tirando fuori intriganti mineralità sconosciute ad altre plaghe bianchiste. Potrebbe essere, dicevo, ma non è. Non ancora, almeno, ché c’è un misunderstading dal quale il mondo luganista sembra non esser capace d’uscire. O, più banalmente, non averne voglia.
Il Lugana va, tira sul mercato. Mi diceva qualche giorno fa una produttrice e negociant d’altra area gardesana che dovrà ben pensare a mettere in listino anche un Lugana, ché i suoi distributori esteri glielo chiedono. Mi raccontano gli amici ristoratori benacensi che la gente beve Lugana, mica Soave o Custoza, quand’ordina pesce e non solo. E i prezzi delle uve del trebbiano luganista di questa vendemmia del 2006 sembrano impazziti, schizzati in alto. E i terreni valgono una fortuna, contesi oltretutto come sono fra vigna e centri commerciali e speculazioni edilizie. Insomma, ci sarebbe di che cantar di gioia a sud del lago. Invece si mette il muso lungo. Si mugugna. Ché le guide e la critica e i giornalisti non premiano i loro vini. Insomma: piace al pubblico, ma sembra andar per traverso ai wine writer. Che lo snobbano. Se non, addirittura, lo trattan male. E i vigneron della Lugana (la Lugana uguale zona, il Lugana uguale vino: nome femmina per la terra e nome maschio per il figlio di quella terra) non si capacitano, non capiscono il perché. Il perché è il fraintendimento, e vedo di spiegarmi.
Parto alla lunga. Cinque anni fa il consorzio del Lugana rispolverò un concorso vinicolo che si faceva tempo prima da quelle parti, la Stella del Garda. M’invitarono a guidar la commissione d’assaggio, che doveva selezionare un certo numero d’etichette. In realtà, ne scegliemmo ben meno del numero richiesto. E toccò a me spiegare come mai. La spiegazione fu semplice e – mi rinfacciarono allora – crudele: troppe ossidazioni, troppo legno, troppa dolcezza. Ci fu chi mi tolse il saluto.
Il fatto è che io devo esser postumo, e vedo invece adesso che quelle note vennero da taluni prese in seria considerazione. Me l’ammettono. E, ammetto io, la cosa m’inorgoglisce, m’esalta l’autostima e la vanità (mi contento di poco). Dunque, v’è stata una presa di consapevolezza sui limiti tecnici e tecnologici, talché oggidì d’ossidazioni ce ne son molte, molte meno. Eppoi si cominciò a ridurre l’uso della falegnameria, e oggi alcuni dei crû luganisti non sanno più di legno come allora e qualcheduno s’è perfino ripulito del tutto. Ma sul terz’aspetto, niente da fare: la sensazione dolce c’è, e mi verrebbe da dire che addirittura è cresciuta. Me la si giustifica argomentando che la maggior cura del vigneto porta ad un crescendo di concentrazione, e dunque o dolcezza o alcol. Io credo che la spiegazione sia più semplice: siccome lo stile morbidone del Lugana vende, e sembra vendere bene, non si vuol correre il rischio di cambiare. Cosa comprensibile e lecita e umanissima. Ma allora lo sappiano, i luganisti: i loro vini piacciono al pubblico – un certo pubblico, magari d’impronta mitteleuropea, che è poi la clientela turistica del Gardasee – ma mica tanto a chi s’occupa di vino. Ché l’idea di bianco d’eccellenza è altra.
Prendiamo il Soave. Com’è il Soave di grido? Apre sul frutto, talvolta certamente morbido, ci mancherebbe, ma poi tira fuori la grinta nervosa d’una acidità ben calibrata che esalta ancora frutto e insieme fiore e vegetalità e vena minerale, e dopo c’è il finale quasi tannico, bellissimo, pulente, asciutto. Ecco l’archetipo, il prototipo, il benchmark, il riferimento. È questo il percorso gustativo del bianco di prestigio. Ecchetifà invece il Lugana? Chiude morbido e dolce, accidenti.
Ora, mi si dirà che potrebbero esser solo fisime mie e di qualche minuscolo manipolo di giornalisti e degustatori affetti da onanismo intellettuale. Invece no. Alla lunga, lo capisce anche il bevitore semplice, che è poi quello che conta davvero, quello che compra il vino. E racconto d’un episodio occorsomi pochi giorni fa a Mantova. Eravamo a cena in centro. Bella serata. Nei piatti, immancabili, i tortelli di zucca, che son dolcini, com’è noto, ché è dolce la zucca e anche l’amaretto e la mostarda che alla zucca fan complemento nella farcia del raviolo. In tavola ho fatto portare un Lugana, uno di migliori, dei più noti. Uno di quelli che in degustazione vanno meglio degli altri, per capirci, e anzi si piazzano in testa alle graduatorie. Ebbene: la morbidezza del Lugana finiva per sovrastare la dolcezza del piatto. Tant’è che la boccia è rimasta lì semipiena: bicchiere appena scolmo il mio, ed altrettanto il commensale che di vino non s’occupa affatto. Col pesce, d’accordo, sarebbe potuta anche finire in un lampo, soprattutto s’era pesce lacustre grassoccio. Ma col tortello niente, è andata male.
Eccolo qui, ordunque, il misunderstanding: pretendere che la formula ora vincente sul mercato sia comunque quella giusta. Invece no, ché il mercato del Lugana è in realtà piccola cosa, piccolissima. Tutto il bianco luganista, mess’insieme, è grosso modo una goccia nell’oceano, tant’è piccola la quantità. E dunque non fa e non può far testo. Ma proprio perché la quantità è piccola, meglio sarebbe orientarla tutta quanta alla qualità del grande bianco.
Eppoi anche sul successo commerciale rischia d’esserci un misunderstading. E viene fuori, ahimè, leggendo un comunicato consortile – o qualche cosa del genere – che ho visto qualche settimana fa sul web, sul GardaNotizie.it dell’amico Luigi Del Pozzo. Vi si diceva che «Quest’anno, per la prima volta in tutte le cantine produttrici di Lugana si registra il tutto esaurito». Bella notizia, da cantar vittoria? No, purtroppo: è boomerang. Ché, diciamocelo chiaro, il 2005 è stato quantitativamente un’annata di magra, e magra tanto, per il Lugana. Troppe piogge, e a uva matura anche una doppia grandinata che ha ridotto all’osso la produzione. Vendemmia povera: c’è chi ha fatto il trenta per cento circa della produzione media dell’altre annate. Dunque di Lugana dell’annata ce n’era ben pochetto da tirar fuori di cantina. E se il Lugana da vendere stavolta era pochino, è inquietante sbandierare che è la prima volta che si fa il sold out: verrebbe da pensare che allora nelle annate normali le bottiglie restano lì. In realtà, so che non è così, e che il Lugana comunque si piazza, ma senza marce trionfali: ci vuol fatica, e tanta. Allora, dico io, fatica per fatica, fatevi animo, uomini e donne di terra luganista, e marciate impettiti nell’altra direzione, ché quella dell’esaltazione del terroir, dell’affermazione del trebbiano vostro e dell’argille che l’accolgono e degli umidori invernali del lago e delle calure estive e delle brezze e della storia del luogo. Fate il grande Lugana, e so che ne siete capaci. Uscite dal fraintendimento, coraggio. Fate che la vendemmia 2006 – che è buona, parecchio – sia quella della svolta.

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