sabato 22 settembre 2007

Il bianco che quasi non c’è: San Martino della Battaglia

Angelo Peretti
Stavolta vorrei raccontarvi di un bianco che quasi non c’è. Nel senso che sì, di bottiglie ne trovi, ma sono pochine. E di fatto le puoi bere solo sulla terra d’origine. Perché quella terra è un pezzetto appena. Piccolissima. E ci fan vino con l’uva innominabile: tocai friulano impiantato al confine lombardo-veneto, ma dir tocai - lo sapete - è vietato, che sennò i legislatori europei piangono, avendo deciso che il nome è solo degli ungheresi. E così un tempo quel vino portava in etichetta il nome di Tocai di San Martino della Battaglia, e invece adesso è più semplicemente San Martino della Battaglia. E il nome è quello di una frazione di Desenzano del Garda. Ed ha minuscola vigna bianchista a margine dell’argille anch’esse bianchiste del Lugana. Basse colline d’entroterra gardesano.
È, quella di San Martino, terra che sembra quasi grondare ancora il sangue della battaglia - celebre - del Risorgimento. E mi domando se si scriva tuttora con la maiuscola, il Risorgimento. E se nelle scuole si studino anche adesso quei combattimenti. Lì a San Martino e a Solferino s’ammazzarono a migliaia, colpiti da palle di schioppo che spezzavano gli arti e da ferro affilato che squarciavano le carni. E fu sofferenza inaudita: 24 giugno 1859, tra morti e feriti furono 40mila. Fu anche, quel dolore assurdamente enorme, generatore di solidarietà, dalla gente del luogo. E da uno svizzero illuminato, Jean Henri Dunant, che in quei giorni di morte e di pianto maturò l’idea della Croce Rossa.
Ora, non so invece come sia maturata l’idea di piantarci vigna di tocai a San Martino. Da qualche parte ho letto che sarebbero stati proprio dei furlani a portarla, perché qui sostavano portando vacche in transumanza. Chissà.
So anche che, dopo un iniziale successo, il tocai sammartinese è lentamente caduto nell’oblio, e ormai non c’era quasi più nessuno che lo vinificasse, soprattutto nei tempi di rossi imperanti, gli anni Novanta. Ora, però, l’onda del bianco torna a montare. E magari c’è anche lo zampino del successo del cugino Lugana. E insomma, ecco che il San Martino è tornato ad uscir fuori dal guscio. Ed è un bianco che si fa rispettare. Lo fanno in pochi, ne fanno poco, ma merita attenzione, ché si bevono dei buoni bicchieri.
Qui sotto vi conto qualcosa dei tre che ho, appunto, bevuto quest’anno. Che non son tutta la produzione, ma ci siamo vicini, ché mi pare ce ne siano ancora due o tre e basta, e quelli, ahimé, non m’è capitato di tastarli.
Il prezzo? Non ce l’ho, ma - tranquilli - son pochi euro a bottiglia. E dunque son bocce da comprare con serenità.
L’ordine degli assaggi è alfabetico, per azienda.
San Martino della Battaglia Pergola 2006 Civielle Civielle sta per Cantine della Valtenesi e della Lugana. Il vino ha colore quasi dorato, traversato da vene erbacee. Naso di frutto giallo maturo. Bocca pure polposa, magari un po' dolcina, ecco. E poi note di camomilla (che son caratteristiche), e anche il the. E c’è buona lunghezza, e freschezza integrata. Non è il mio stile, con quella morbidezza, ma è ben fatto.
Due lieti faccini :-) :-)
San Martino della Battaglia 2006 Cobue Si concedono lentamente al naso i fiori bianchi, ed è dunque florealità ritrosa quella di questo San Martino. La bocca è rustica. Raspa come una carta vetrata. Ha freschezza in rilievo e sotto la camomilla e ricordi di fieno e poi frutto giallo non maturissimo, ma di buona densità. Vino apparentemente semplice, in realtà di bella lunghezza e materia. Da osservare.
Due lieti faccini :-) :-)
San Martino della Battaglia Campo del Soglio 2006 Colli a Lago Mi piacerebbe riprovarlo adesso il San Martino dei Formentini, ché quando l’ho bevuto, a fine giugno, era da troppo poco in bottiglia, e quindi ancora chiuso e scosso. E invece sappiate che il Campo del Soglio è sempre bel vino, appagante (buonissimo trovai il 2004). Fresco. Sapido. Ha polpa. E nitida memoria di pesca bianca.
Due lieti faccini :-) :-)

venerdì 14 settembre 2007

Chi salverà il Valpolicellino?

Angelo Peretti
Ma guarda te se ci si doveva mettere la grandine per salvare il Valpolicella d’annata. Già, perché chi ha preso la tempestata di fine agosto, almeno in (buona) parte l’uva l’ha potuta raccogliere lo stesso, ché già aveva confortanti indici di maturazione, ma mica l’ha potuta destinare all’Amarone, acciaccata com’era. E allora, credo (spero), via a produrre (anche) il tanto bistrattato Valpolicellino d’annata, che altrimenti rischiava la scomparsa. Già, perché ormai è da un paio d’anni che gira voce insistente d’un possibile abbandono quasi radicale del piccolo della doc valpolicellista, sopraffatto dall’impetuoso successo commerciale di sua maestà l’Amarone e del principe Ripasso, che amaroneggia vieppiù. E dunque tutti a destinar l’uva ai super-red valpolicellesi. Appassire, appassire, è la parola d’ordine. Tutti a far cassettine di grappoli destinati al fruttaio. Ad onta del vino giovane, per il quale si adopera magari solo l’uva dei vigneti più giovani, oppure quel che resta (se ne resta) dopo la vendemmia per l’Amarone, per il Recioto, per il Superiore, per il Ripasso.
Perché l’abbandono del piccoletto in favore dei parenti più prestanti? Perché pecunia non olet, come dicevano i latini. Tradotto e adattato in lingua locale: Schèi fa schèi. E c’è da capirli (e di schèi, in Valpolicella, ne hanno fatti, sull’onda amaronista che sembra non conoscere scoglio, il che ha davvero del sensazionale).
Piuttosto, ci sarebbe da chiedersi se nel medio-lungo periodo si dimostri davvero azzeccata la scelta di puntare tutto su due tipologie di vino prettamente tecniche (son tutt’e due figli diretti o indiretti dell’appassimento), orientando per di più la comunicazione sui soli nomi per l’appunto della tecnica, e mettendo invece in secondo piano la denominazione di terroir: chi dice più Amarone della Valpolicella o Valpolicella Ripasso? Si semplifica, si abbrevia: Amarone, Ripasso, stop. E la Valpolicella tende quasi a scomparire dalla lingua enoica. Talché in un’indagine commissionata dallo stesso Consorzio è emerso che taluni identificano l’Amarone come vino del Piemonte o d’altre terre ancora.
Detto questo, l’interrogativo che qualcheduno mi pone è: «Ma esiste ancora un buon Valpolicella d’annata?» Che si possa bere senza tanto rotear di calice, decanter et similia. Con qualche disimpegno e una fetta di soppressa e una di polenta brostolà. E io dico: nonostante tutto, sì, qualche piacevole vino fresco c’è. Di quelli franchi di beva e fruttati e succosi. E qui sotto fornisco l’indicazione d’una cinquina d’interessanti 2006 che ho assaggiato nei mesi estivi. E non sono solo questi i Valpolicellini da bere, ma mica tutto ho potuto tastare (ad esempio, non ho provato quello dei Venturini da San Floriano, che di solito mi piace).
Valpolicella Colli Neri 2006 Cantina di Montecchia Colli Neri è la linea. E il vino non ha altra pretesa se non quella, vivaddìo, di farsi bere, e bene anche. Il naso è fruttato: ciliegia in primis. Senza eccessi, ma con pulizia notevole. E c’è sotto spezia leggera. In bocca è beverino e fresco e snello. Se solo avesse un pelo di lunghezza in più, potrebb’essere un piccolo fuoriclasse...
Due lieti faccini :-) :-)
Valpolicella Classico 2006 Corte Rugolin I Coati fanno bell’Amarone, elegante. Ma anche il loro baby Valpolicella è di quelli che lasciano il segno. In direzione opposta all’Amarone, ovvio: di qui snellezza, di là concentrazione. Ma c’è bel naso tra il fruttatino e lo speziato. E bocca fresca, verde, floreale (memorie di ciclamino). E c’è, sotto, una base di ciliegia e anche discreto tannino. Beverino, piacevole.
Due lieti faccini :-) :-)
Valpolicella Classico 2006 Allegrini Be’, sì, m’era piaciuto di più in precedenti annate il Valpolicella basic degli Allegrini, ma è mica male neanche questo 2006. Fatto con mestiere. Naso di frutto e spezia. Bocca fruttata e tannica e fresca. Note intriganti di ciclamino insieme a quelle della ciliegia. Materia parecchia. Ecco, altri anni ci trovavo più beva, però resta un bel bicchiere.
Due lieti faccini :-) :-)
Valpolicella Classico Il Valpolicella 2006 Buglioni Ecco: qui la ciliegia c’è. Magari non è esattamente un’esplosione di frutto, ma è nitida, pulita. E in bocca questo valpolicellino targato Buglioni si presenta semplice sì, da tracannare con disimpegno, ma anche ben modulato. Magari un po’ verde, ecco, ma ha frutto e vena acida in bell’evidenza e qualche nota tannica ben integrata.
Un lieto faccino e quasi due :-)
Valpolicella Classico 2006 Camporeale Probabilmente c’è chi lo troverà un po’ dolcino, un po’ morbidosetto, però ha fruttino (la ciliegia, la fragola) e caramellina al lampone. Al naso e in bocca. Punta molto a un approccio morbido, confidenziale, questo piccolo rosso di Mario Lavarini. Ma ha discreta lunghezza e, insomma, un buon bicchiere con una fetta di soppressa giovane ci sta.
Un lieto faccino e quasi due :-)

sabato 8 settembre 2007

Quei dieci Soave che fanno felici i miei faccini

Angelo Peretti
A volte t’incastrano. Se scrivi sui giornali, capita che ti chiamino a fare il moderatore a convegni, dibattiti e tavole rotonde. Spesso riesci a schivare, altre volte no. E quasi sempre ti trovi a non moderare un bel niente, ma tutt’al più a fare da timer ai relatori, che mica sempre sono fedeli ai tempi che gli hanno assegnato. E insomma, ti senti una specie di soprammobile, e basta, che apre la bocca solo per dare e togliere la parola ad altri. Succede, e non è che uno ci si senta gratificato.
L’ultima volta in ordine di tempo m’è accaduto di fare il moderatore al Soave Versus, la rassegna annuale che il Consorzio di tutela del Soave dedica ai bianchi della denominazione. E devo dire che non è stato neanche così difficile, perché chi doveva intervenire l’ha fatto sostanzialmente nei tempi prefissati, e così il convegno - troppo lungo, come tutti i convegni, ma non per colpa di chi ci doveva parlare - è finito pressoché all’orario programmato: appena sei minuti di sforamento sono una specie di record, soprattutto se si pensa che si era partiti col solito quarto d’ora di ritardo.
Ora, è stato un peccato non aver potuto approfondire l’ultimo intervento, quello di Stefano Raimondi, responsabile della linea «vini alcolici e bevande» dell’Ice, l’Istituto per il commercio estero. Ché delle numerose slide che aveva preparato sul pc non ne ha presentate che un numero limitato, e dentro ci si leggevano dati che probabilmente era il caso d’approfondire. Dati di vendita e di posizionamento commerciale dei vini bianchi veneti nel mercato globale.
Cercherò di riassumere per sommi capi qualcuno dei trend illustrati, e sono grato a Raimondi d’avermi lasciato una stampata delle sue diapositive.
In primis: il divario fra export è italiano di vini rossi e bianchi si sta colmando. Ma nello stesso tempo i vini a denominazione sono da anni sostanzialmente sugli stessi volumi di vendita all’estero, mentre crescono, e parecchio, i vini da tavola. Insomma: si esporta vino che costa poco. E quest’osservazione vale tanto più per i bianchi del Veneto, ch’è la prima regione esportatrice: i prezzi medi praticati sono a quota 1,92 euro, contro un valore di 2,55 euro per la media italiana. E se proprio si vuol farsi del male con qualche altra osservazione, be’, preoccupa un pochettino vedere che quasi l’80 per cento circa dell’export vinicolo veneto è concentrato su quattro paesi: la Germania (col 41 per cento), il regno Unito (19 e passa), gli Stati Uniti (con l’8 per cento, che è dato buono, ma miserello se si pensa alla dimensione del mercato a stelle&strisce) e il canada (e lì siamo al 7 e più). Vien quinto il Giappone, che è quasi al 6 per cento. Si dirà: sì, ma son mercati floridi, e la Germania è partner commerciale ben piazzato. Certo, ma i tedeschi pagano poco poco il nostro vino, e concentrar le vendite lì non dà grande valore aggiunto. Meglio sarebbe convincere gli americani, ma a quello ci pensano di già i toscani, che hanno nell’America del Nord il loro mercato di sbocco prevalente, sul quale superano di molto per fatturato le vendite che fanno nell’intera Europa. E c’è da meditare.
E la fonte è autorevole. L'Ice s’occcupa di promozione del made in Italy sui mercati internazionali. Ed ha, nel settore del vino, lunga tradizione. L’ufficio di Raimondi supporta la presenza delle imprese del settore sui mercati internazionali: fiere, workshop, comunicazione, azioni presso i punti vendita, formazione degli operatori esteri. Eppoi monitora i mercati, attraverso l’analisi dei flussi statistici (volumi, valore, tipologia, provenienza, destinazione ecc). Mica poco davvero.
Detto questo, so che a qualcheduno fra chi legge quest’InternetGourmet gli è già venuto il mal di testa, e allora meglio darsi al vino. Nel senso di descriver qualche vin di Soave. E siccome però non ho avuto modo & tempo d’assaggiar tutto al Soave Versus (ed anzi mi son limitato a tastare qui e là, per provar cose nuove o per aver qualche conferma), faccio come l’anno passato e riprendo gli appunti di degustazione soavisti dell’ultimo paio di mesi, e adopero quelli, prendendo in considerazione anche aziende che al Versus non c’erano. In miscellanea, dunque. E sono una decina i Soave che (sin qui) mi son tanto piaciuti. Al punto che è diecina cui assegno, d’ufficio, i miei tre faccini gaudenti.
Soave Classico Monte Fiorentine 2006 Cà Rugate Et voilà, altra annata ed altro Fiorentine in grande spolvero. Un bianco che ha un marchio di fabbrica, con quel suo bel frutto giallo pulitissimo, croccante, succoso. Quella beva appagante. Quella snellezza. E quegli accenni di sottilissima mineralità. E quell’accenno di noce sul fondo.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Pressoni 2006 Cantina del Castello Il Pressoni m’è piaciuto parecchio anche in annate passate, e questo 2006 m’ha confermato, se bisogno ce ne fosse stato, la bellezza di questo crû soavista. All’olfatto ha impronta estremamente citrina. E agrumata è pure la bocca. E fresca. E vene d’ananasso e ortica e frutto bianco.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Cà Visco 2006 Coffele Be’, che dire del Cà Visco che io non abbia già detto in passato? È un gran bel vino. Con tutto quel frutto giallo al naso. E quella polpa fruttuosa densa che t’invade il palato. E quella ruvidità da carta vetrata che ti raspa sulla lingua. E quelle vene vegetali che rinfrescano. E via lunghissimo. Ed elegante.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Superiore Vecchie Vigne Contrada Salvarenza 2005 Gini C’è un prato fiorito che s’apre nel bicchiere quando annusi il Salvarenza del 2006. E floreale si porge al palato. E c’è in di più freschezza e mineralità in bel rilievo, e cenno d’erba officinale. Il finale è quello asciutto, quasi tannico, che mi piace trovare in un Soave importante.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Superiore Monte Sella 2005 Le Mandolare Non ricordo se ho mai scritto prima d’un vino della Mandolare. Eppure ricordo che il loro Monte Sella m’era piaciuto già nell’edizione 2004 e parecchio di più l’ho goduto nella versione 2005, con tutto quel suo frutto giallo maturo maturo e quella vena agrumata e quella spezia intrigante.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Montetondo 2006 Monte Tondo Frutti e fiori. Gialli. Ce n’è tanti d’entrambi, al naso e in bocca, in questo Monte Tondo del 2006. Ed ha gran polpa, tanta. Epperò anche bella freschezza che rende succosa e salina e appagante la beva. Un gran bel vino, che m’è piaciuto bevendolo un paio di volte di già da luglio a qui.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Calvarino 2005 Pieropan A Soave Versus il Nino Pieropan non espone. E vabbé, ma il Calvarino, bevuto a luglio, è memorabile anche nell’edizione 2005. Con quella sua tensione che gli è caratteriale e quella potenza e quella grassezza di frutto e quella vena d’ortica e quel ricordo di frutto tropicale e quelle nuanche di frutta secca.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Staforte 2005 Prà L’anno passato, quand’ero andato giù di testa per lo Staforte, il nuovo Soave di Graziano Prà, ci fu chi me ne disse un prógno, ed anzi ne scrisse perfino. Vabbé, adesso dite quel che volete, ma anche il 2005 mi piace, e tanto tanto. Con quel frutto bellissimo e succoso. E quella tensione di beva. E i fiori macerati.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Monte Carbonare 2006 Suavia Ora, nel club dei grandi del Soave, le sorelle Tessari un posto se lo son guadagnate da tempo, e il Carbonare ’06 è un conferma. V’è naso floreale (e il fiore secco che s’aggiunge a quello di prato) e bocca fra l’agrumato e il salino. E morbidezza che ti coccola e insieme anche tensione di beva.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Le Bine di Costìola 2006 Tamellini M’era strapiaciuto il 2004. In luglio, ho adorato il 2005. Adesso che Gaetano Tamellini m’ha fatto provare in anteprima il 2006 (da soli due mesi in bottiglia), posso dire che è uno dei bianchi più intriganti che mi sia occorso di bere negli ultimi anni (e ne ho bevuti, di bianchi). Grande e complesso.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

domenica 2 settembre 2007

E i liberi vignaioli altoatesini si convertirono al tappo a vite

Angelo Peretti
Ho già detto e scritto che io sto col tappo a vite. Nel senso che se il vino non è destinato a invecchiamento lungo assai, trovo la moderna chiusura screwcap pratica e intelligente e priva di sostanziali rischi. Che poi, se non finisci la bottiglia a pranzo, le riserri e la tieni (abbastanza) ben conservata fino a cena. E non è un’opzione cattiva, permettete. E ancora meglio sarebbe per il wine bar, ch’evita di lasciar la boccia aperta e rallenta l’ossidazione. Ma vabbé, mica è facile per il produttore e per il rivenditore e per il consumatore convertirsi a questa «nuova» chiusura, che certamente mett’in disparte un po’ della rituale poetica del vino.
Gli è però che all’estero lo screwcap lo chiedono, soprattutto laddove non c’è lunga tradizione di vino. E all’estero l’usano anche, i produttori enoici. Ormai tutti i Sauvignon della Nuova Zelanda sono in tappo a vite. E si comincia a vederne in Borgogna, anche su vini d’una cert’importanza. E ce n’è in Germania per i Riesling o in Austria per i Grüner Veltliner. E magari sarà per l’affinità col mondo austro-germanico, ma i Freie Weinbauern Südtirol - l’associazione dei liberi vignaioli dell’Alto Adige, capitanata da Josephus Mayr – si son convertiti al tappo a vite anch’essi. Bene! Qualcuno ci voleva che desse il la.
È la novità che più m’ha colpito visitando, a Bolzano, l’annuale appuntamento di Vinea Tirolensis, la classica degustazione pomeridiano-serale (di lunedì, dalle 15 alle 21: mica hanno tempo da perdere, ‘sti vigneron suddtirolesi) dei Freie Weinbauern.
Per carità, non tutti hanno effettuato la svolta. E il sughero continua ad essere la scelta d’assoluta prevalenza. Però lo screwcap ha cominciato a vedersi sulle bottiglie d’alcuni bei nomi del vino altoatesino: Falkenstein, per esempio, tribicchierato dal Gambero Rosso & Slow Food per il suo Riesling, oppure Unterortl (quelli del Castel Juval, per capirci). E stessa scelta la fanno altri, piccolini, come Unterhofer, 2,3 ettari appena di terra in Oltradige. Ed è un bell’atto di coraggio. E d’apertura al mondo. Sia lode a loro.
Dei vini, adesso. E devo dir con rammarico che ho trovato sui bianchi un 2006 in tono un po’ minore di quanto m’attendessi, e confrontato col 2005 mi pare un bel gradino sotto. Ma quest’è il bello: che qui s’interpreta l’annata, e quel che viene lo si accetta e rispetta. E comunque qualche bottiglia in grande spolvero c’è anche quest’anno.
Dei rossi ho provato meno. Ho saltato quasi a pie’ pari i Blauburgunder, perché me n’ero fatta un’abbuffata di Pinot nero al concorso di Laimburg (e pazienza se qui c’era la nuova annata: mica tutto si può assaggiare stando in piedi e girando fra i tavoli: ah, se ci fosse una saletta per chi, come me, ha poi da scriverne!). Ho accantonato i Lagrein (qualche scelta bisogna pur farla, quando i vini sono più di duecento). E mi sono buttato sulle Schiave, curioso di sapere come venisse interpretato questo vitigno minore che sta trovando nuovo interesse, ora che si vuol vino da bere.
Qui di seguito, in ordine sparso, le cose migliori fra quelle che ho messo nel bicchiere, sapendo che in poche ore puoi tastare con attenzione sì e no un quarto di quanto è in esposizione (per cui, chissà che belle cose mi son perso).
Sono dieci bianchi e cinque rossi.

I bianchi

Eisacktaler Kerner 2006 Manfred Nössing
Il solito bianco fuoriclasse della Val d’Isarco: gran vino. All’olfatto esplode il frutto giallo e il fiore e l’erba alpestre. Fascinoso. In bocca è pesca polposa e soda. E c’è profondità e ricchezza. E beva vibrante. Un Kerner da antologia.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Eisacktaler Sylvaner 2006 Manfred Nössing
Non aveva il Grüner Veltliner, Manfred Nössing, e mi si dice sia un grande Grüner. Ma insieme al Kerner strepitoso aveva un altro bianco in grande spolvero: questo Sylvaner. Erbaceo d’ortiche e di salvia. Elegante e leggiadro. Lunghissimo.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Vinschgau Riesling 2006 Falkenstein
Altra bella annata per il Riesling di Falkenstein, Val Venosta: un classico, ormai. Da bere giovane, direi, come già la vendemmia precedente. Al naso propone ricchissimo il bouquet dei fiori di montagna. Bocca polposa e tesa e fresca e resinosa.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Gewürztraminer Mazzon 2006 Gottardi
Andare allo stand di Bruno Gottardi senz’assaggiare il Pinot Nero può sembrare un’eresia. Ma avrò altra occasione, mentre il Gewürz è più raro trovarlo. Ed è fra i bianchi migliori del Südtirol. Favolosamente denso di frutto e di spezia.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Gewürztraminer Pinus 2006 Zirmerhof
La sorpresa. Bella sorpresa. Josef Perwanger ha appena 0,6 ettari di vigna. Il Gewürztraminer del 2006, fatto in botte d’acacia, è splendido. Citrino (perfino ricordi di fiord d’arancio), speziato finissimamente, freschissimo, lungo.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Eisacktaler Sylvaner 2006 Garlider
Elegante all’olfatto: tra fiore ed erba di prato alpestre. E in bocca è proprio un’esplosione di florealità bianca. E poi c’è ricordo erbaceo d’ortica. E frutta gialla sumatura. E vene di bella mineralità che rendono ancora più intrigante la beva.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Eisacktaler Kerner 2006 Strasserhof
Al naso, la pesca nettarina croccante, quand’è ancora non del tutto matura. E poi salvia e ortica. E una vena di mineralità sottilissima. In bocca c’è apertura aromatica. E tensione. E beva nervosa. Magari un pelo di dolcezza in più.
Due lieti faccini :-) :-)
Vinschgau Weissburgunder 2006 Falkenstein
Ancora Falkenstein, ma col Pinot Bianco stavolta. Che è vino che han bella tensione di beva. Un bianco che ha carattere e personalità nervosa. C’è bella lunghezza, e sul frutto croccante s’innesta una vena sottilissima di mineralità.
Due lieti faccini :-) :-)
Weissburgunder Strahler 2006 Stroblhof
Stroblhof è in Oltradige, ad Appiano. Ed ha un Pinot Bianco niente male, fresco, nervosetto il giusto, vegetale parecchio, con bell’eleganza floreale e una speziatura che mi ricorda il pepe bianco. Ed ha buona lunghezza.
Due lieti faccini :-) :-)
Bronner Julian 2006 Lieselhof
Il bronner è un vitigno ridotto a poca cosa come quantità, salvato dall’oblio. Prodotto con chimica zero in vigna e in cantina, questo bianco ha naso affascinante: foglia verde, frutto giallo maturo, litchie. Bocca aromatica, poi. E rusticità.
Due lieti faccini :-) :-)

I rossi

Pinot Nero Mason 2005 Manincor

Ora, sì, ho detto che ho bevuto poco Pinot Nero, ma siccome il 2004 di Manincor m’era piaciuto proprio tanto al concorso di Egna, ho voluto provare la nuova annata. Ed è altra annata di gran piacere. Rosso elegante e di bell’appagamento.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Vernatsch Wolfsthurn 2006 Stachlburg
La bevi a secchi, questa Schiava della Val Venosta. Naso tra il fruttatino e lo speziato. Bocca che ha frutto e vena vegetale. Fresca e un po’ tannica. Piacevole. Semplice e complessa insieme. Che volete di più da un rosso di unidici gradi e mezzo?
Due lieti faccini :-) :-)
Vernatsch 2006 Gumphof
Altra Schiava. Dal bellissimo colore rosso pallido. Che già a guardarlo, s’to vinello, ti vien voglia di berlo. Naso di lampone. Bocca succosa di fruttino. Fresca, eppure anche col suo caratterino. E c’è tannino misurato. Se solo ci fosse un po’ più di lunghezza...
Due lieti faccini :-) :-)
Vernatsch Amadeus 2006 Lieselhof
Non viene filtrata, questa Schiava: l’azienda lavora così. E dunque è quasi torbida, nel bicchiere. Ed è vino rustico assai, ma anche di bella sostanza. Rosso terroso e pepato e complesso nelle note di fruttino maturo. Vorrei un po’ di freschezza in più.
Due lieti faccini :-) :-)
Vernatsch Campenn 2006 Unterhofer
Due vini, un bianco e un rosso, entrambi in tappo a vite. La Schiava è vino di non grande pretesa, eppure di beva piacevole e sapida. Manca magari un po’ nella profondità, ma ha bocca fruttatina e pepata e sfoggia discreta lunghezza.
Un lieto faccino e quasi due :-)