sabato 25 febbraio 2006

Sia stramaledetto il prodotto di nicchia

Angelo Peretti
La nicchia: oh, che palle ‘sta nicchia. Non se ne può più: prodotto di nicchia di qui, prodotto di nicchia di là. «Sia stramaledetta ‘sta nicchia e chi l’ha inventata» ha detto chiar’e tondo Carlin Petrini, padre dello Slow Food, qualche sera fa a Verona. Permettetemi: lo ripeto anch’io e lo sottolineo pure: finiamola, please, con la nicchia.

M’era capitato di dirlo e ridirlo un mesetto fa circa in un intervento ch’ebbi a fare nel convegno che l’Uncem – leggasi l’associazione che riunisce i comuni e le comunità montane d’Italia – ha tenuto a Caprino Veronese. Tema: i prodotti tipici della montagna. Anche lì doveva esserci Carlin, ma ebbe altri impegni, e da Bra proposero che ci andassi io. Detto e fatto: grazie della stima. Ed ho partecipato volentieri, ché m’interessava sentire come i politici e gli amministratori dei monti italici la pensassero sull’agricoltura e sulle produzioni in quota. Ebbé: s’è parlato di nicchia, di nicchia, di nicchia, dal primo all’ultimo uomo delle istituzioni. Ed io che dovevo esser l’ultimo a parlare, ed era oramai ora fatta di pranzo, e bollivo, non ci ho visto più: «Piantatela di piangervi addosso», li ho invitati. E ho avuto, in risposta, volti perplessi. Come stessi intaccando un mito. O forse un rito.

Perché ce l’ho col prodotto di nicchia? Perché per me non esiste. Non deve esistere, aggiungo. Un prodotto è un prodotto: punto e basta. E come tale deve stare al mondo. Con dignità, rispetto, orgoglio. La nicchia è un’altra cosa: lasciamola alle chiese, ai cimiteri (c’è un che di funereo – s’ammetta – dietro il nome, un che di buio, di chiuso).

Mi spiego. Parlar di prodotto di nicchia è inutile e dannoso per due ragioni almeno.

La prima è che ha a che fare con la marginalità, con l’esser minoranza e crogiolarcisi pure. L’ho detto ai politici a Caprino: se in campagna elettorale andaste in giro a raccontar che la vostra è candidatura di nicchia, non avreste il sospetto che gli elettori v’accontenterebbero e vi lascerebbero a far minoranza, preferendo votare un altro che ha invece orgoglio d’uomo di maggioranza? Come se Casini (Pierferdinando, intendo) dicesse che, sì, insomma, lui è col Cavaliere, ma Forz'Italia è forte e l'Udc solo di nicchia. Come se Mastella sostenesse che, vabbé, l'Udeur è schieramento di nicchia nel contesto prodiano. Ve li figurate i sondaggi? Calo, direbbero. Invece mostrano orgoglio e incondizionata fiducia.

Secondo: la nicchia è un paravento comodo, comodissimo. Per giustificare il sapore cattivo, il difetto, l’improvvisazione. Un’arma letale nelle mani di chi non fa qualità e non gli passa neanche per la capa d’impegnarsi a far di meglio. Facile dire: «Ma il mio è un prodotto di nicchia». Legittimando il vino che puzza, il formaggio mal fermentato, la confettura acidula, il salume mezz’irrancidito. E nossiggnori: il prodotto ha da esser buono. Sennò, se lo tengano, se lo mangino (bevano) loro. E ci s’ingozzino pure.

Un prodotto è un prodotto, e deve saper star sul mercato. Anche se è fatto in poca quantità, anche se par piccola cosa in confronto all’enormità dell’industria multinazionale.

Un prodotto risponde alle leggi dell’economia. Che fa incontrare domanda e offerta. Che da quest’incontro trae i prezzi. Che sulla qualità percepita è disposto a pagare un surplus. E dunque, sia chiaro: chi fa qualità va valorizzato e premiato e mess’in luce, chi non fa qualità va aiutato a migliorare, chi viene aiutato e comunque non migliora è bene che cambi mestiere. Questione di giustizia, di equità. Mica devo far la carità al casaro incapace, al vignaiolo incompetente, al panettiere ignorante. Se un prodotto è buono, lo compro e me lo godo. Se non è buono, se lo tenga chi l’ha fatto. E impari e farlo. E se non impara, non lo faccia più, ché è meglio per lui e per il prossimo suo.

Perché prima di tutto un prodotto dev’esser buono, deve aver qualità. Anzi: concordo col titolo del libro che Carlin ha presentato a Verona: «Buono, pulito e giusto» dev’essere. Buono come sapore, come gusto, come fonte di piacere. Buono come sapere, come cultura, come tradizione autentica che si tramanda e si rigenera. Pulito perché figlio di terre pulite, di gente pulita, di menti pulite. Perché non sfrutta madre terra vilipesa. Ma ne è anzi rigenerante presenza. E giusto. Ossia al prezzo giusto, che non vuol dir piccolo, ma tale da consentire al malgaro, al pastore, al vignaiolo, al contadino di vivere del proprio lavoro e mantenerci la famiglia con dignità e decoro. Così che n’avremo un sovrappiù di salute ambientale, perché il montanaro che può tornare a guadagnare e vivere in montagna sarà il primo operatore della salvaguardia. A vantaggio di tutti.

Semmai c’è un problema diverso. Il prodotto, ho detto, è prodotto, e risponde alle leggi dell’economia, del mercato. Semmai, ecco, c’è bisogno di farlo conoscere. E se davvero ha un surplus di qualità, la s’ha da far percepire all’utente. Dunque: marketing, promozione. Che passi attraverso la percezione della qualità. Ergo, politici miei, abbiate un gesto d’orgoglio, e cominciate a promuovere chi lo merita davvero: l’ecumenismo aiuta a prender voti, ma non a fare mercato. Promuovere tutti in nome dell’egualitarismo è pratica iniqua e dannosa e ingiusta. Significa mettere allo stesso piano chi s’impegna e chi no. Significa prender’in giro il mercato. Che s’incavola e ti sbatte in faccia la tua supponenza egualitaria.

L’informazione è l’arma in più. È la via per far percepire la qualità al consumatore. Che potrà quindi capire, giustificare il prezzo maggiore che gli viene chiesto.

Eppoi, se il prodotto di montagna non sarà in grado di scendere a valle, ché non ha numeri e massa e distribuzione, allora bisognerà portar gente alla montagna. E questo potrà indurre ulteriore economia a chi vive sui monti.

Ma non ci si riuscirà mai piangendosi addosso, dicendo: «Oh, è prodotto di nicchia». Che nicchia del tubo! È prodotto di terra e di lavoro. È figlio della genialità espressa dal luogo. Ecco: ha ragione Petrini. Che dice ai produttori che possono esser sì piccoletti, ma orgogliosi del loro saper contadino: «Piccoli ma con autostima» invita. Sottoscrivo.

sabato 18 febbraio 2006

Fra consensi e dissensi: fa discutere il new Bardolino

Angelo Peretti
Ullallà, se fa discutere il new Bardolino! In posta elettronica ho cominciato a trovare il partito del pro e il partito del contro: proprio vero che siamo nei giorni del bipolarismo. È dibattito ancora fra pochi intimi, ma vivaddìo di Bardolino si torna a parlare. Fin qui, al massimo, erano sorrisetti ironici.
Ricapitolo. Qualche settimana fa ho scritto su InternetGourmet di quel che chiamo il new Bardolino style. In sintesi: dicevo che siamo alla buon'ora alla svolta nel (piccolo) mondo bardolinista. Che c'è chi non lo vuole più vino-bevanda. Solo che il mio pensiero mica tutti – com’è logico e giusto che sia – lo trovano condivisibile. Allora ecco che cominciano ad arrivare anche i dissensi. E meno male: il bello del parlar di vino è tutto qui.
Mi scrive per esempio Marco Simonetti: «Non ritengo il Bardolino un vino destinato ad essere consumato dopo l’anno di vita. Non perché non duri, ma perché perderebbe, secondo me, quelle caratteristiche di freschezza, di fruttato, che invece lo dovrebbero contraddistinguere. Non ha la struttura per durare nel tempo, a meno che o non si ricorra a super concentrazioni che ne snaturano le caratteristiche (e non mi riferisco a basse rese per ettaro: sono state provate, ma non danno enormi vantaggi in termini di struttura), o ad appassimenti che purtroppo sono sempre troppo spinti».
Cito questo passaggio intanto perché è d’esemplare chiarezza. Eppoi perché qui è il nodo. La matrice della diversa veduta. La spiegazione del sogno.
Ebbene: io non credo che il Bardolino debba puntare alla concentrazione così come la s’intende usualmente. Di più: non credo che la concentrazione di frutto e tannini e alcol e colore sia sinonimo di vino interessante. Non ci credo perché amo i vini di Bordeaux. Non ci credo perché adoro i vini di Borgogna. E nessuno di questi – se è ben fatto - ha quelle concentrazioni esasperate che sono state imposte come verbo vinicolo dai californiani di parkeriana scuola.
Il Bardolino ha storia. Ci furon tempi ch'era considerato vino di lignaggio, e lo si faceva affinare fin dopo l’estate – in botte grande, in vésa - nei Canevìni di Garda. Eppoi lo si esportava in Svizzera, per stare nelle carte dei grand’alberghi coi Beaujolais o i Bordeaux. E che si vuol tornare a fare un Bardolino che si rispetti, quella è la strada. E che quella strada oggi c’è chi la percorre, alla buon’ora. Pochi, magari, ma ci sono. Duplice strada. Una che ha lo sguardo volto a Bordeaux, nel senso che mira a vini che maturan più tardi e rimangono a lungo fragranti di frutto rosso e nervosi di vegetalità erbacea. L’altra che guarda al dettato borgognone (e guarda caso Beaujolais è Borgogna), puntando alla finezza, all’esilità quasi del frutto, eppure all’appagante – e lunga, anche nel tempo – presenza del sottobosco, di fragolina e lampone. Due scuole, un unico obiettivo: far finalmente Bardolino che non muoia con la prima estate. Oh, era ora!
Mica pretendo che il Bardolino abbia a durare per anni ed annorum. Però se c’è una cosa che mi dà fastidio assai è trovarmi in cantina una bottiglia - e garantisco che è sempre ben più d’una - che ho da stappare per il sol fatto che «mi scade». Succede ogni anno dopo l’estate che mi ritrovi vini dell’ultima annata così gracili e poverelli che non reggono altri mesi d’affinamento. Non se ne può oltre rimandare l’assaggio, quasi che fossero bevande gassate «da consumare preferibilmente entro il». Non posso esigere che tutti siano longevi, ma insomma, almeno il paio d’anni. Oh: intendo che nei due anni mica si limitino a sopravvivere, ma durino invece impeccabili e fors’anche migliorino un pelo.
Sissiggnori: un buon vino dev’esser buono per due o per tre anni almeno. Come accadeva un tempo al Bardolino. Come non è più accaduto da quand’è nato il disciplinare degli anni Sessanta, che ha aperto il campo al rosso para-industriale, al Bardolino easy wine, alla bevanda alcolica di nessun impegno. Oggi – era ora, insisto – in riva d’oriente del Garda si torna a lavorar bene in vigna & cantina. Poggiando sull’esaltante, multiforme simbiosi fra corvina e terroir. Mirando a non perder di vista - mai e poi mai - la piacevolezza di beva. Rinunciando invece al colore marcato e all’alcol ridondante. Inseguendo la concentrazione ch’è giusta, quella mai cicciona. Che invece consente al vino di restar fragrante e bello e piacevole e salino e succoso ben dopo il prim’anno. Ché il Bardolino è vino che s’ha, prima di tutto, da bere.
Ergo: nient’esagerazioni, nient'esasperazioni, ché non son cosa bardolinista. (Ed è per questo che non sono affatto convinto di molto, moltissimo Bardolino Superiore: non s'ha da scimmiottare il Valpolicella.) Ma occorre più rispetto, invece, per la vigna e la freschezza e sanità del frutto. Questo sta succedendo, e i primi esempi li ho voluti mettere in evidenza: Le Fraghe, borgognona d’impronta, e Giovanna Tantini, più bordolese invece. E aggiungo Corte Gardoni col suo Superiore e perfino la Santi col Cà Bordenis: il primo di pensiero ispirato alla Borgogna, l’altro che occhieggia a Bordeaux. Guarda caso.
Da Giovanna Tantini ci son stato ch’è poco. E ho fatto quel che per una Bardolino sarebbe stato follia solo a pensarlo, fino a qualche anno fa: una verticale. Una degustazione, intendo, di più annate in fila. Il 2002, il 2003 e il 2004, e niente invece 2005, ch’è ancora da imbottigliare. Qui sotto scrivo cos’ho trovato.
Il 2002. Fu la prima vendemmia di Giovanna. Fu vendemmia difficile e ostile. Di lunga pioggia. Ricordavo quel Bardolino come vino di vegetalità accesa e di tannino verde anch’esso, eppure di beva piacevole per freschezza. Ne ho ritrovato oggi il carattere, anche se ormai la stagione dell’oblio è prossima. Ma è un Bardolino 2002 che ancora si beve.
Il 2003 era pieno di frutto maturo, di ciliegia marasca. Aveva cenni di prugna, ma senza l’opulenza di certi vinoni cotti di quella caldissima estate. Lo rammentavo come vino da bere. Tal quale è ora. Il frutto integro, la beva appagante. Piacevolissimo. Proprio un vino che non ha perse per nulla «quelle caratteristiche di freschezza, di fruttato» che l’hanno da contraddistinguere.
Il 2004. Che ci crediate o no, non è ancora maturo del tutto, non è ancora al suo top. Va giù volentieri. Ma il frutto s’ha ancora da esprimere in pienezza. E il tannino, pur mai aggressivo, è ancora vegetale. E la freschezza è ancora nervosa. Il meglio lo darà – son certo – fra qualche mese ancora di bottiglia. Ed è già d’anno e mezzo d’età.
Ecco, quest’è quanto pretendo e voglio da un new Bardolino. Che è poi quant’accadeva un tempo. Quando il turismo ancora non c’era. E neppure il supermercato.
Ne parleremo ancora, penso. Ché il rinascimento bardolinista è solo all’inizio.

domenica 12 febbraio 2006

La palla ce l’ha il consumatore

Angelo Peretti
È il mercato, baby. Niente scuse: il prezzo lo fa la legge della domanda e dell’offerta. Più è scarsa l’offerta e alta la domanda, più il prezzo va su. Ma se cresce l’offerta e la domanda è stabile – o cala – allora son guai. A meno che... Ma dell’a meno che ne parlo dopo.

Con lucidità da manuale d’economia e semplicità da uomo che domina la materia, Emilio Pedron queste cose le ha dette chiar’e tonde ai produttori di Valpolicella ch’erano alla Gran Guardia di Verona per la presentazione en primeur dell’Amarone 2002.

Pedron è uno che sul mercato ci sa stare. Presiede il Consorzio valpolicellese, ma è soprattutto l’amministratore delegato del Gruppo Italiano Vini. Governa la più grande compagnia vinicola d’Italia. L’ha presa piccina picciò – in ogni senso – e l’ha resa una star. Col pallino – vincente – della qualità. Dice niente il caso dello Sfursat 5 Stelle della Nino Negri? e quello del Chianti La Selvanella della Melini? e della rinascita entusiasmante di Rapitalà? e del Re Manfredi, aglianico di razza delle Terre degli Svevi? e della risorta Santi ad Illasi? Tutta roba sua, tutti successi suoi, e l’elenco potrebb’esser più ampio.

Uno che parla poco, Pedron. Ma che ha parole che affondano come coltello nel burro. Figurarsi fra i valpolicellesi che di mercato ne masticano – ahinoi – poco. E ora, la tesi pedroniana cercherò – cari i dodici miei lettori – di riassumerla qui di seguito. Sperando d’interpretarla a modo giusto, ché non sopporterei di vedergli, al primo incontro, aggrottare millimetricamente le ciglia, unica reazione per così dire scomposta che gli abbia mai notato in volto (ché di parola non ti richiamerà mai, almeno in pubblico).

Dunque. C’era una volta, mica poi tanti anni fa, un’offerta scarsina di vino di qualità. Bottiglie e cisterne se ne facevano assai, ma era roba da poco. Improvvisamente, qualcosa cambia fra i consumatori. Una fiammella s’accende in California. La fiammella diventa incendio. Il bevitore comincia a pretendere di bere bene, santoddìo. E siccome a voler bere bene diventavano sempre di più e ad offrire buone bottiglie erano invece pochi, i prezzi han cominciato a salire alle stelle.

Quando una roba costa cara, qualcuno che gli vien la tentazione di farla e venderla anche lui lo trovi sempre. Un po’ per far quattrini, un po’ per l’emulazione, la produzione di vini di qualità è man mano salita. Diventando ascesa vertiginosa in un decennio: quello scorso. Coinvolgendo nella corsa all’oro le vecchie terre del vino – Francia e Italia e in parte Spagna – e le nuove anche – California, sicuro, ma pure Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa, Cile, Argentina – coi primi barlumi anche dove il vino non ha cultura neppur d’importazione – India, ad esempio.

I prezzi son saliti su e più su e più su ancora. Finché il meccanismo s’è rotto. Colpa dell’euro, ch’è più forte del dollaro, s’è cominciato a dire. Oppure: c’è crisi economica globale, e i tedeschi e i giapponesi – importatori di lusso - devono tirar la cinghia. O ancora: la concorrenza australiana. Scuse, tutte scuse. O meglio: elementi reali, ma marginali. Il problema è un altro: la domanda di vino di qualità è rimasta stabile od ha avuto piccola crescita, mentre l’offerta ha saturato il mercato ed è andato ben oltre. Ergo: i prezzi calano. È il mercato. È fatto così. O accetti queste regole, o sei out.

Semplice, vero? Mica tanto.

Il problema è che quando sei sul mercato devi aver quattro preoccupazioni. La prima: far qualità. La seconda: farla percepire, la qualità. La terza: espandere le quote di penetrazione. La quarta: mentre t’espandi – o credi di farlo – metter giù le pedine che ti servono a conservare i tuoi clienti se le cose si mettono male. Per far la prima cosa, serve tecnica e stile. Per le altre tre occorre investire nel marketing. E occorre farlo da subito, convinti. I contadini d’un tempo insegnavano che è inutile chiuder la porta della stalle quando il bue è scappato. Bisogna farlo prima. Ma i figli, non più contadini, l’han dimenticato. Mentre cresci, comincia a pensare a fidelizzare chi hai già conquistato: è la polizza sulla vita. «Primo, non prenderle» dicevano gli allenatori di calcio quando il calcio era sport. «Prima salviamoci, poi vediamo se possiamo cavarci qualche soddisfazione» dice, concreto, Bepi Pillon, che allena il Chievo, dove il calcio è ancora sport (e sembra di sentire padron Campedelli).

L’abbiamo fatto in Italia, di pensare alla polizza vita? Macché. Ci siam fatti prender la mano. Illusi d’una crescita eterna. Gli utili sono finiti in cantine griffate, in macchinari d’altissima tecnologia, in sale degustazione da antologia d’architettura. Tutta roba bella, per carità. E cara. E che non puoi vendere, che non puoi valorizzare quando le cose buttassero meno bene. È l’effimero. Autoreferenziale: ho fatto i soldi, e te l’ostento. Peòcio refàto: dicevano i vecchi. I figli l’han dimenticato.

Non una lira – e dopo non un euro – è stato destinato a pensare al grande patrimonio d’azienda: e questo patrimonio, cari miei, è il consumatore. A lui andavano destinati i quattrini. Facendo marketing. Legandolo. Conquistandolo. Magari, facendogli capire che il prezzo è quello giusto per la qualità del prodotto. magari – ah, magari! – fissando il prezzo giusto per la qualità del prodotto. E non è un gioco di parole: quanti, ma quanti, sono i vini dal listino drogato.

Ora, crisi vera forse non c’è. Difficoltà sì. Dunque, c’è l’affannosa ricerca d’un riposizionamento. Ancora in modo empirico. Dilettantesco. A tentoni. Pensando che, insomma, se taglio un po’ il listino, le cose van meglio.

Ma qui casca di nuovo il processo. Già, perché se tagli il prezzo del prodotto finito, inevitabilmente la riduzione è sospinta sul basso della filiera. E sul basso della filiera c’è il contadino, c’è chi fa uva. Che se la vede pagar sempre meno. Che se la vede pagar così poco da non permettergli più neppure di coprire i costi di produzione. È successo la scorsa vendemmia. Succederà ancora, temo.

Non è la soluzione questa. La soluzione è una sola: capire il mercato. Metabolizzarne le leggi, le regole. Saper comunicare, pianificare, far marketing. Roba astrusa per il contadino divenuto d’improvviso imprenditore. Roba necessaria, però. Indispensabile.

Capendo che ora il pallino è nelle mani del consumatore. C’è talmente tanto vino di qualità in giro, che si potrà bere sempre meglio a prezzi sempre più buoni. Su di lui, sul consumatore, è tempo d’investire.

Ha ragione Carlo Fratta Pasini, presidente del Banco Popolare di Verona, che pure è intervenuto al convegno sull’Amarone: quest’è il tempo delle scelte. Scelte che sono ineludibili. Improcrastinabili. Non è che se non scegli oggi lo potrai far domani. Domani è troppo tardi.

Basta egoismi: occorre stare insieme, su questa barchetta nell’oceano dei mercati. Insieme fra chi fa qualità, ovvio. Chi lavora male, o impara a far bene (e lo si può aiutare), oppur’è meglio che di lavori se ne cerchi un altro.

Prosit.

sabato 11 febbraio 2006

Dell’Amarone che sopravvisse alla grandine

Angelo Peretti
S’avventò sulla Langa. Poi spazzò la pianura. Si scagliò sulla Valtenesi, ghermì la sponda d’oriente del Garda, s’abbatté sulla Valpolicella, traversò il Veronese e sfogò la furia sui Colli Berici, andando a morir chissà dove. La grandinata dei primi d’agosto del 2002 - lo rammentano di certo i miei dodici lettori - si lasciò dietro scie di rovina. Ricordo vigne ridotte a scheletri, olivi spogliati all’osso. Macchine devastate, sfondate, squartate. Alla Raffa di Puegnago resta un cartello contorto, battuto, triturato da schegge infinite di ghiaccio.
Impossibile far vino nel 2002 nelle zone dell’uragano. Difficile, difficilissimo anche in quelle dove la tempesta era caduta meno intensa. Tant’è che in Valpolicella molte aziende hanno deciso di non uscire coll’Amarone (ad esempio Tedeschi, Speri, Zenato, tanto per dire di marchi più volte tribicchierati) e qualcheduna ha rinunciato perfino agli altri rossi. Ché mica c’è stata solo la tempesta. «Annata difficile e delicata» la descrive Daniele Accordini, enologo, bravissimo, alla Cantina di Negrar. «Qualcuno ha definito la vendemmia 2002 come la più povera e la più bizzarra degli ultimi cinquant’anni» aggiunge un bravo agronomo come Paolo Fiorini.
Ebbene, quel che resta degli Amaroni dell’annata è stato presentato al palazzo della Gran Guardia di Verona nella rituale anteprima indetta dal Consorzio di tutela. Delle idee che n’ho tratto vorrei dar conto alla dozzina d’amici che mi leggono.
L’impressione a bruciapelo? Che è piccola cosa, il 2002. Ma che pure non s’ha da far di ogn’erba un fascio. Ci non ha avuto grandine e ha lavorato come domineddìo comanda, be’, l’annata l’ha salva. E se pure non n’ha tratto memorabilie enoiche, ugualmente ha in cantina vini che si fan bere. Già: bere. Dato che dal 2002 è inutile aspettarsi grassezza, concentrazione estrema. Ma beva sì, e non è mala cosa di certo.
Chi, per esempio, ha fatto buone cose, chiederà ora qualcuno de’ lettori? Curiosità legittima, che cerco d’andare a soddisfare rileggendo gli appunti, che prendo ancora carta e penna (unica innovazione: il taccuino è Moleskine, pratico per davvero). Coi limiti tutti della soggettività di parere, of course. E d’un giudizio ch’è in ogni caso prematuro, visto che i vini sono in gran parte ancora in vasca (e ci starà, qualcuno, a lungo, prima di prender la via della bottiglia). Sia come sia, io arrischio cinque scelte. Non per forza i migliori, non gli unici, magari, ché altri meriterebbero citazione. Diciamo: quelli che riberrei adesso che son davanti alla tastiera. Il tempo è galantuomo: dirà se ci ho azzeccato, se ho straveduto.
Comincio da Campagnola, a Valgatara. La riserva, il Caterina Zardini, non esce. C’è dunque il base soltanto. Che non è male, affatto. Naso di terra rossa, cassis e prugna. Bocca in corrispondenza. Niente muscolo. Beva fresca. Un po’ ruvido appare il tannino. Comunque si fa bere, eccome. Direi 84-85 centesimi.
Righetti (Gianluigi), a Pescantina, è nome oscuro, per me nuovo. Non ho ricordi d’altre sue bottiglie. Eppur l’Amarone m’ha fatto pensare. Chiarisco: non è tutt’oro. Forse all’olfatto ha cenni ossidativi e al palato si denunzia scomposto. Eppure vorrei reincontrarlo quand’avrà qualche mese di vetro. Ha bouquet vegetale. Ha bocca fresca e iodata, giustamente terrosa, un che di liquirizia, il frutto appassito. Mi spingerei a 85-86 su cento, premiandone il tradizionalissimo assetto. Saprà conservare freschezza?
Ecco Bertani (un big, un marchio storico) coll’Amarone Valpantena. Un po’ ostico invero, ma capace anche – capacissimo, azzarderei - di piacevol sorpresa se gli dai confidenza. Ha, questo 2002, naso di presenza ancora scarna. La bocca trova però ciliegia tonda e frutto sotto spirito e cioccolato bianco e una manciata di fiori macerati e un po’ di terra rossa. Tannini in equilibrio. Varrà la pena aspettarlo. Buono. Per me, è sugli 86-87 centesimi.
Ora Santi, Gruppo Italiano Vini. Nient’Amarone di punta: il Proemio non uscirà. L’Amarone di base è però una scoperta. Novità bella, bellissima. Non è Amarone ch’esploda: lo vedi già dal colore, che non è carico assai come in genere s’usa. Ha olfatto pulitissimo e fruttato e floreale. Bocca in corrispondenza, coll’aggiunta d’erba officinale, di rosmarino in primis. Non è potente, ma ha grand’eleganza e finezza e beva. Può valer, ora, 88-89 su cento.
Infine, Manara. I dodici che leggono sanno che apprezzo lo stile di quest’azienda mignon di San Floriano. Il 2001 è nella top 15 d’InternetGourmet, graduatoria di fine anno personalissima e mia, tutta mia. Temevo molto che il loro far Amarone scarno, giocato sulla finezza e non sul muscolo, avesse risentito delle magagne dell’annata. Fors’è vero il contrario. E cioè che il saper giocare la nuance, il dettaglio, è un’arma in più quando l’anno non ha grassezza affatto. Direi che fra i 2002 assaggiati quest’è il migliore, e pensare che è prova di botte soltanto, e non ancora bottiglia. È soprattutt’in bocca che s’esprime di già alla grande. Esile, in apparenza, com’è il solito suo, è Amarone di buon frutto, delicato e lunghissimo. Fra 88 e 90 su cento.

venerdì 3 febbraio 2006

L’azzardato incontro di tavola e vino

Angelo Peretti
Che strano il linguaggio. Ci sono parole che sembrano eterne. Altra nascono ogni giorno. Talune destinate ad affermarsi, altre a morire in un amen. «E come si vedono le bollicine dell’acqua sorgere e salire, così sorgono e salgono le parole nuove che indicano le nuove cose» scriveva nei primi anni Trenta in premessa della mitica sua «Grammatica italiana» l’amabile Alfredo Panzini (chi fosse interessato a leggerla, la trova nel catalogo di Sellerio). Oggi a imperare è il vocabolario della tv. E non c’è da esserne troppo felici. Oppure il siglato cliccare degli sms, che non è cosa migliore.

Ci sono poi i vocaboli che s’offuscano, cadono in sonno profondo. Per riaffiorare di tant’in tanto, inattesi. Uno di quelli che non mi capitava d’incrociare da tempo è «azzardato». Un po’ desueto (e anche desueto è un aggettivo obliato). Eppure l’«azzardato» me lo son sentito rivolger due volte – in occasioni e per motivi diversi - nell’ultima settimana. Una per il pezzo (ma in quanti l’avete letto? mi vien quasi da illudermi che sian più di dodici i miei lettori) sull’amore e il formaggio, che qualcheduno magari ha trovato un po’ osé. Un’altra per certi abbinamenti fra vino e cibo cui ho accennato in una serata del Rotary. Insomma: azzardato il parallelo fra letto e tavola, e altrettant’azzardati gli abbinamenti wine&food. Forse è destino.

Ora, sulla prima questione non mi soffermo oltre, ma sull’altra qualche idea vorrei dirla. Alla fin fine, quest’è un sito che vorrebbe parlar d’enogastronomia. Dunque vada con l’azzardo degli accostamenti fra vino e cucina.

Che cos’ho proposto d’inusitato? Be’, a dire il vero, a me sembra di non aver suggerito niente di clamoroso, ma a giudicare saranno i dodici fedeli lettori d’InternetGourmet. A cominciare dallo sposalizio per l’Amarone.
Mi si domandava a cosa maritarlo, l’Amarone. Ovvio che lo si possa – e debba - mettere in tavola con robusti piatti di carne, con le grigliate, con la cacciagione, con gli arrosti. Magari coi formaggi stagionati. E l’ho sommessamente ricordato, ma senz’insistere, ché è ovvio a tal punto che mi sembrava d’offendere i commensali a ribadirlo. Allora ecco che ho suggerito qualcosa d’un po’ inconsueto: Amarone e tonno crudo. Ci stanno insieme, eccome (provato personalmente). L’alcol ha effetto pulente sulla grassezza del pesce, il velluto del bicchiere s’accosta all’armoniosa pienezza del pesce, lo zucchero che residua completa la sensualità dell’incrocio. Wonderful.

E poi? E poi il Recioto della Valpolicella. Che dell’Amarone è – lo sapete – il padre. Nel senso che un tempo con le «réce» (le orecchie, i grappoli spargoli) delle uve appassite di corvina e corvinone e rondinella e molinara, e insomma, con le uve de’ vitigni valpolicellesi, ci si faceva un vin dolce, il Recioto appunto. Che solo quando «scappava», bruciando tutti o quasi gli zuccheri nella fermentazione (e crescendo di conseguenza in alcol), diventava «amaro», se non proprio «amarone». Ora, il Recioto è caduto un po’ in oblio anche lui – come certe parole - e invece io continuo, ostinato, a considerarlo il più strabiliante, fascinoso e anche difficile vino che si faccia nella Valpolicella. Un gioiello di pura grazia, quand’è fatto a dovere. Introvabile altrove. Non va ridotto – dunque - al banale, semplice ruolo di vino da dessert.

Anzi, per me il rosso Recioto di Valpolicella non è per nulla – o quasi – vin da dessert. Ché di dolci ne sopporta pochi: il pandoro, qualche ciambella, la «fogàssa» (una focaccia con poco zucchero) cotta sul camino, qualche biscotto con la frutta secca. Stop. Mai e poi mai le creme. Assolutamente mai, mai e poi ancora e di nuovo mai e sottolineo mai il cioccolato, come taluni pretenderebbero (questo sì che è un azzardo). Tutto perché il vino – questo Recioto – ha sì zuccheri, ma soprattutto complessità e dunque spezia (cannella, garofano, cardamomo e sottile vaniglia) e tannino morbido e seduzioni di frutt’appassita (uva rossa e prugna) e anche appena colta (ciliegia e mora) e financo in confettura (piccolo frutto del bosco) e petalo macerato (di geranio e rosa) ed erbe alpestri (e balsamiche) e ancora ricordi di tabacco, di vaniglia, di rossa terra bagnata, talvolta. Ma è basso d’alcol. Fresco di misurata acidità. Nobile rosso.
Ora, ci sta bene - di certo - a fine pasto, ma sprecar tanta nobiltade vinicola per il solo finale di cena mi sembr’assurdo. E dunque usiamolo anche come un rosso un po’ particolare. E se è giovane mettiamoci insieme la soppressa veneta col pan biscotto. Se è d’un anno più avanti sposiamoci il taleggio. Se è di cinque anni almeno, e dunque più austero e cresciuto in note di brandy, di liquore, uniamolo alla lepre in salmì. E sarà applauso a scen’aperta.

Questo ho suggerito. Mi si è detto che è accostamento – l’uno e l’altro e l’altro ancora - azzardato.

Capisco: somigliano – possono somigliare - a provocazioni le proposte che ho detto. Ma, obietto: la tavola è gioco, e dunque non schema, non regola ferrea, non convenzione. Mica l’eccesso, ma una briciola di trasgressione aiuta. Intendo: a renderla appassionata. A ridare passione anche ai giorni d’umanissima noia.