giovedì 22 luglio 2004

Autoctono, autoctono

Angelo Peretti
Adesso c'è la moda dell'autoctono. Ne parlano tutti. Dicono sia la strada della riscossa del vino italiano. Magari erano gli stessi che sin qui predicavano il verbo della vaniglia della barrique e del frutto concentrato del Cabernet.
Sarà, ma alla moda dell'autoctono non ci credo.
Intanto, capiamoci. Si dovrebbe esser tutti d'accordo sul fatto che quando si dice "autoctono" si tratti di vini nati da varietà di vigne storicamente caratteristiche di un determinato territorio: Nero d'Avola in Sicilia, Corvina in Valpolicella, Nebbiolo nelle Langhe. Ma poi salta fuori che il vocabolo è astruso. In ottobre a Vinum Loci, fiera di Gorizia, venne presentata una ricerca dagli esiti preoccupanti. Il 68% degli oltre mille intervistati in Italia non conosceva il significato del termine autoctono. Il 44% dichiarava che significa genuino (ed è già meglio di niente). Ma il 36% riconosceva come autoctono il Tavernello (quello venduto in brik) e il 30% non ne attribuiva la qualifica al Prosecco (30%).
Poi c'è il problema vero: basta il vitigno, oppure è il rapporto vigna-territorio che rende davvero autoctono il vino? O è, come credo, qualcosa di più ancora: vitigno, territorio, suolo, clima, cultura, storia?
Sia chiaro: ho difeso e difenderò le biodiversità, le tipicità. Credo d'aver dato qualcosina alla rinascita almeno d'un vitigno, il foja tonda della Valdadige. Ma se l'autoctono (vitigno, vino) serve solo a sostenere le esigenze commerciali del momento, non ci siamo. Così come non ci siamo con le assolutizzazioni modaiole: prima o barrique o morte, o Cabernet o nulla, adesso largo all'autoctono e bando al vitigno internazionale. Come dire che il Merlot impiantato e coltivato da decenni e decenni nell'Alto Mantovano ha qualcosa a che vedere con quello di Bordeaux o di Napa Valley. Il clima, il suolo, l'uomo, il fluire del tempo, modificano ogni cosa. Anche il vitigno.
Se il vino lo deve davvero fare il terroir, come predicano tutti e pochi invece fanno, il vitigno è sì importante, ma mai da solo, bensì in correlazione con tutti gli altri elementi di quello specifico terroir, un insieme di clima, suolo, vigna, lavoro, saperi, idee, umane vicende.
Il terroir, poi, se davvero è l'insieme di elementi in stretta e vitale correlazione, rifiuterà il vitigno cattivo come accoglierà quello che meglio si adatta, che sia autoctono o no. Rifiuterà le marmellate del Cabernet quando nulla avranno a che vedere con quello specifico contesto, l'accoglierà bonariamente se vi si saprà adattare con discrezione, imbevendosi di sapori, di umori, di odori di quel clima, quel suolo, quelle arie.
L'esempio? La Francia dello Chateauneuf du Pape. Il disciplinare è estensivo: per fare il rosso sono ammessi ben tredici vitigni. Eppure, cambia l'uvaggio, cambiano le tipologie di vitigno, ma il vino continua ad essere riconoscibile, a raccontare la propria origine. In bottiglia non c'è il vitigno, c'è Chateauneuf, con le sue pietre, il suo cielo, la sua gente. Ecco il vino che mi piace: quello che mette in bottiglia un po' della sua terra.
E il vitigno autoctono, dunque? Se il vino deve parlare del proprio terroir, come volete non prevalga quella vigna che in quel particolare contesto ambientale s'è andata ambientando per secoli, superando estati torride, inverni gelidi, venti insidiosi, grandinate furibonde, attacchi di parassiti, umani ripensamenti? Se il vino racconta la propria terra, a farsi trama, tessuto della narrazione sarà l'autoctono. Fuori dalle effimere tentazioni delle mode.