sabato 24 dicembre 2005

Vi supplico, chef: aridatece i piatti piatti

Angelo Peretti
«Aridatece er puzzone» si leggeva sui muri di Roma dopo la guerra. Gli scontenti del nuovo, si sa, ci son sempre: si stava meglio quando si stava peggio lo dicono in tanti a ogni svolta sociale o politica, così come a fronte della «nuova» era repubblicana qualcuno rimpiangeva il ventennio.

Ora, non vorrei che i miei dodici lettori m’affibbiassero il cliché di nostalgico, ma dopo aver girato ristoranti su ristoranti mi vien voglia di gridare «aridatece i piatti piatti». Intendo le stoviglie con l’orlo basso, che ci si possa lavorar sopra di forchetta e coltello e cucchiaio senza doversi contorcere. Ché adesso in certi posti mangiare è un’impresa ginnica. Il colmo m’è successo quest’estate: dessert servito in un calice dal gambo così lungo ch’era impossibile intingerci il cucchiaio senz’alzarsi in piedi. Bicchiere bellissimo e costoso. Dolce gradevole. Ma far fatica per metterne in bocca una cucchiaiata, questo no e poi no.

Che volete, so che rischio di far la parte del conservatore, ma attendo con terrore l’avvento di quella che Davide Paolini, food writer del Sole 24 Ore, ha definito in un recente incontro a Verona come la nuova moda montante: cibo & design. Del resto già arrivata nei ristoranti delle maggiori città italiche e forestiere. Tant’è che il Gambero Rosso gli ha dedicato uno speciale.

Sia chiaro. Amo il design. Mi piace l’architettura che s’esprime attraverso la concettualità. Credo siano le espressioni più alte dell’arte dei nostri tempi. Adoro le forme essenziali degli arredi di Philippe Stark e dei suoi emuli e colleghi. Vorrei riempir casa di bicchieri e tazze e oggetti da cucina che esprimano creatività. Metterei seggiole in policarbonato dappertutto. Son portato a buttar via soldi in cose che non userò mai, ma che m’attraggono per forma, stile, genialità. Così pure resto estasiato davanti a una pietanza ben presentata e modellata e servita in tavola. Ma, vivaddio, voglio comodità, praticità, essenzialità. Poter liberamente usare la posateria. Portare il cibo alla bocca senz’impicci. Trovar nel piatto solo roba da mangiare, mica orpelli messi lì perché qualcuno li ritiene belli da vedere. Santoddio, il piatto, in tavola, serve per posarci dentro la roba che si mangia, mica per far da ripostiglio o da fioriera. Niente ninnoli, niente fiorellini, niente roba non commestibile, niente cespi inutili d’erbette officinali: niente che non riguardi la ricetta nel mio piatto, please.

Quando sto pranzando-cenando pretendo di poterlo fare senza dover leggere prima il libretto delle istruzioni. Non accetto che i cuochi (pardon, chef) ci prendano per una manica di zotici campagnoli (sospetto che talvolta se la ridano sotto i baffi) se non riusciamo a capire come cavolo si debbano tagliare, spezzare, sorbire le loro pietanze. Porca miseria: al ristorante ci vado prima di tutto per i sapori. Se poi è contento anche l’occhio evviva evviva e applausi. Ma mica sono lì per ammirare una scultura. Vogliono far gli artisti delle forme plastiche? S’aprano bottega d’arte, espongano in galleria, ma non pretendano che li veneriamo al ristorante. In fin dei conti, da loro ci andiamo soprattutto per commetter peccati di gola.

Poi, abbiano il buon gusto, i novelli creativi della tavola, di lasciarci mangiare per davvero quel che ci propongono. Penso a certi fondi, talvolta sublimi, che accompagnano ravioli o carni o pesci. Ci penso con rimpianto, ché non sono riuscito a papparmeli. Perché - vi siete accorti? - mai che mettano sulla tovaglia un cucchiaio da salse. Così quelle delizie di sughetti m’è puntualmente toccato di lasciarle lì, nel fondo d’una ceramica dalla sagoma di zuppiera, d’una ciotola troppo profonda. Ecché, a casa loro mangiano i sughi con forchetta e coltello? Così ti tocca rinunciare. O cercare di far la scarpetta col pane. Che però non è facile. Primo, perché t’attireresti il dispregio dei commensali, facendo la figura del cafone. Secondo, perché il pane in tavola non c’è: al suo posto, quadretti di pasta croccante, filiformi grissini di strane farine, roba buona (caspita, s’è buona), ma inutile per far zuppetta.
Vi prego, vi supplico cuochi amici&nemici: datemi anche un cucchiaio, la volta prossima che mi vedete, ch’io possa gustare i vostri intingoli. E visto che ormai sono in ginocchio avanti a voi, ripeto implorante: rivoglio il piatto piatto. Giuro: non lo dirò a nessuno che me l’avete posato sul desco. Ma lasciatemi mangiare in pace, con piacere. Vi bacerò. Sulla guancia. Ovvio.

venerdì 23 dicembre 2005

Top 2005 secondo me: le migliori bottiglie bevute

Angelo Peretti
Opps! Ecco che ci sono caduto anch’io. Mi perdonino dunque i miei dodici fedeli lettori, ma dovranno stavolta sorbirsi la mia personale classifica. Il top delle bottiglie bevute nel 2005. E già, che poi è tutta colpa di Giampiero Nadali e del suo blog Aristide.biz, dov’ha lanciato l’idea: che ciascuno stili la sua graduatoria. Alla faccia delle top one hundred di Wine Spectator e di Wine Enthusiast e di wine questo e di wine quello. Provocazione rilanciata dal Ziliani Franco sul suo blog pepatissimo (è il taccuino del franco tiratore). Che volete: la sfida l’accetto a ‘sto punto anch’io. E scrivo le bottiglie che più m'hanno lasciato ricordi.
Dunque, ecco le nomination. In tripla graduatoria, giusto per semplificare, ché senno potrei finirei per stilare un elenco troppo lungo. Prima i vini rossi – cinque - di quella che chiamo la Regione del Garda, ossia il Veronese, il Bresciano, il Mantovano e il Trentino. Poi i bianchi del medesimo territorio ed in medesimo numero, ossia la cinquina. Infine il resto, ancora in cinqu'etichette in tutto.

Rossi della Regione del Garda

Amarone della Valpolicella Classico 1997 Giuseppe Quintarelli – Negrar (Verona)
Il Bepi da Negrar, grande vecchio della Valpolicella, ha colpito ancora. Il suo Amarone del ’97 è da antologia per complessità, tensione, personalità. Lui esce tardi, tardissimo co’ suoi vini, a differenza degli altri amaronisti. E tira fuori capolavori uno in fila all’altro. Nel segno della tradizione. Peccato tanta bellezza costi un mezzo mutuo...

Amarone della Valpolicella Classico 2001 Manara – San Floriano di San Pietro in Cariano (Verona)
Agli antipodi di Quintarelli in tutt’e per tutto. Nel prezzo, che è piccolino. Nella struttura, ch’è esilissima. Eppure i Manara brothers di San Floriano hanno cesellato un altro gioiellino, come già nello spettacoloso, elegante 2000. Un Amarone da berci la bottiglia e stapparne subito un altra. Una nuova strada per il vino di punta della Valpolicella.

Recioto della Valpolicella Classica 2000 Lorenzo Begali – Cengia di San Pietro in Cariano (Verona)
Non ce n’è per nessuno: il Lorenzo Begali da Cengia, volto affilato, pensiero profondo, è il re del Recioto valpolicellese. L’annata 2000 fece gridar di gioia gli appassionati del vellutato passito rosso. Alla distanza, si conferma un capolavoro d’equilibrata mistura di zuccheri, tannini e acidità. Se vi capita d’incrociarne una bottiglia residua, fatela vostra.

Nepomuceno 2001 Cantrina – Bedizzole (Brescia)
Nepomuceno, o del merlot gardesano. Brava Cristina, che ha proseguito con cocciuta passione nell’impegno d’inventare uno chateau in quei colli ondulati che non son più Garda e non ancora Chiese. Terre da scoprire. E vino corposo e ricco, eppure anche di gran beva. Fragrante di vegetale essenza. Di peperone soprattutto, intrigante.

Bardolino Poderi Oppi Pellegrini 2004 Maddalena Pellegrini – Castion di Costermano (Verona)
La prima volta ero convinto d’essermi sbagliato: impossibile, mi son detto, che ‘sto vinello ti piaccia così tanto. La seconda volta, pure. La terza mi son fatto certo. Allora eccolo in top five, a conferma che finezza ed eleganza non sempre vogliono prestanza. Undici gradi appena, profumo infinito di lampone, beva succosa e sapida e lunghissima.

Bianchi della Regione del Garda

Lugana Riserva del Lupo 2003 Cà Lojera – Rovizza di Sirmione (Brescia)
Ebbene sì, l’ho già scritto e lo ripeto: uno dei migliori Lugana mai bevuti. E a ogni riassaggio ne sono più convinto. Un fuoriclasse, con le sue intense suggestioni di clorofilla sopra una struttura imponente, una freschezza nervosa, una mineralità che racconta le argille luganiste. Darà ancora soddisfazioni per anni e anni e anni.

Lugana I Frati 2004 Cà dei Frati – Sirmione (Brescia)
Chapeau, Igino (Dal cero, of course): buono buono buono ‘sto Lugana 2004. Per freschezza, agilità, pulizia, finezza, profondità dei toni di fiore bianco, di vegetalità, di frutto. Per lunghezza dell’appagante beva. Un Lugana da bere più e più volte, come ho puntualmente fatto durante l’estate. Da aspettare, anche, nel tempo.

Soave Classico Monte Grande 2003 Prà – Monteforte d’Alpone (Verona)
Ullallà che buono che resta ‘sto Soave del 2003. La garganega qui fa cantare il bicchiere con le sue vene di frutto croccante e una mineralità che racconta delle terre vulcaniche dei colli montefortiani. Graziano Prà me n’ha fatto bere dalla magnum, e il consiglio è quanto mai giusto: grande bianco da mettere in cantina in doppia bottiglia.

Soave Classico 2004 Leonildo Pieropan – Soave (Verona)
Già già già, mica il magico Calvarino, mica la possente Rocca – che pure entrambi sono spettacolari - metto in top five fra i bianchi soavisti di maestro Nino Pieropan. No: promuovo a voti pieni e applausi e baci il base, accessibile di prezzo, mostruoso per eleganza e fragranza e bellezza: gran classe, signori, a prezzo buono.

Müller Thurgau Quaron 2004 Borgo dei Posseri – Ala (Trento)
Che volete che vi dica: a me il Müller di Borgo de’ Posseri continua a intrigarmi ogni anno, e sono tre che l’assaggio, dal 2002. L’azienda è poco nota, quasi sconosciuta. Piccoletta. In quota: montagna affacciata sulla Vallagarina. Be’: mi ricorda nello stile, ‘sto vino, l’Alsazia, con quella sua aromaticità che s’intride di note di roccia e sasso.

Vini d'altre terre

Coteaux du Layon Saint Lambert Cuvée Prestige 2000 Domaine Ogereau – Saint Lambert du Lattay (Francia)
Come tirar fuori un capolavoro da un’uva semisconosciuta. Sia chiaro: vitigno ritenuto minore fin qualch’anno fa, lo chenin blanc, ché da qualche tempo a oggi è diventato star, sull’onda, anche del culto biodinamico. Bene: questo 2000 è appagante e ricco e intenso e nobile e sinuoso e insomma peccato averne ancora una bottiglia sola.

Sauvignon Blanc Marlborough 2001 Cloudy Bay – Marlborough (Nuova Zelanda)
Devo a Leandro Luppi, patron del Vecchia Malcesine, ristorante stellato, l’aver conosciuto questa meraviglia di sauvignon. Che non ha le puzze vegetali di quegl’italici ma le fragranze di fiore bianco de’ francesi di Loira. E aggiunge minerale venatura e iodata mistura. Grandissimo bianco di quattr’anni, e ancora giovanile.

Pinot Grigio Alto Adige Valle d’Isarco 2003 Köfererhof – Varna (Bolzano)
Comprateli, i bianchi di quest’aziendina sulla curva dove finisce il muraglione dell’abbazia di Novacella, Südtirol. Se lo trovate ancora in qualche ristorante, bevete il Pinot Grigio del 2003, ch’é grandissimo. Io l’ho goduto all’Oste Scuro, Bressanone, dopo - pensate - un Pinot Nero famoso: ha vinto, stravinto il confronto. Grand’anche il Kerner.

Moulis en Médoc 1999 Chateau Poujeaux – Moulis en Médoc (Francia)
Dicano quel che vogliono, ma il bordolese è terra fantastica per i rossi: niente ecceso d’alcol, niente marmellatose consistente, niente masticazioni legnose. Finezza ed eleganza ci si trovano. E longeva grazia. Che non mancano ai rossi di questo Chateau del mio cuore, che m’ha sin qui dato varie annate di grazia a prezzi buoni.

Marcilly Premiére 1962 P. de Marcilly Frères – Beaune (Francia)
Gli uomini no: noi invecchiamo male. I vini di classe, e anche le donne, invece, col passar d’anni acquistano grazia. Anche in annate balenghe, come fu il ’62: sin qui, non avevo bevuto una bottiglia decente. Eppure, ecco, inatteso, il fremito: un pinot nero che se n’infischia dei quaranta e pass'anni. Ancora fragrante di frutto, nobile di grafite. Vero: beati i vini, certi vini (e le donne).

sabato 10 dicembre 2005

Dolcezze in bottiglia e santi bicchieri da parroco

Angelo Peretti
Fortunati i parroci del Trentino. In questi giorni riceveranno una bottiglia. Piccola, da 0,375. Ma con dentro un bel vino. Fuori commercio. Unico. Irripetibile. Un vino per la Messa di Natale. L’hanno fatto i produttori – son solo sei – dell’associazione dei Vignaioli del Vino Santo. Sono Pisoni, Gino Pedrotti, Francesco Poli, Giovanni Poli, Pravis, la Cantina di Toblino. Dirò: tutt’e sei intriganti, i loro vini. Da comprare e bere a botta sicura. Dolcemente. Ma per fare un Vino Santo ancor più pregno di santità, ciascuno n’ha messo a disposizione un quantitativo del suo. Se n’è tratta una cuvée. Riservata alle parrocchie tridentine. Con poche eccezioni. Una bottiglia a papa Ratzinger, e scusate se è poco. Qualche pezzo ai giornalisti del vino. Una è toccata a me: si sa, a Natale sono tutti più buoni, e i Vignaioli del Vino Santo, mercé l’intercessione dell’amico Nereo Pederzolli, narratore di cibi e di vini e di tradizione della terra di Trento, m’han ritenuto degno di tanta grazia. Fortunato anch’io. Come i parroci.
Ora, della bottiglia che m’è toccata in sorte (la numero 357 sulle 400 realizzate, per esser pignoli), so che ai miei dodici lettori non importa granché. Piuttosto, potrà esser loro d’interesse aver notizia di qualcheduno dei vini «dolci» che si son potuti provare a Dulcenda, la manifestazione che s’è svolta in una freddo sabato decembrino a Castel Toblino, lo stesso luogo dove s’è presentato l’originale Vino Santo per il Natale del 2005. Ora, di passiti e affini ce n’erano in degustazione un centinaio. Farne selezione non è facile. Ma, ahinoi, occorre far sintesi, e quindi cercherò di descriverne qualcheduno. Il numero dei prescelti? Sei, appena, ma non per demerito degli altri. Forse perché son pigro a scrivere. O forse perché non voglio ubriacare i miei lettori, che com’è noto son dodici appena: mezza boccia a testa gli basta e avanza, e dunque sei bottiglie. Sapendo di far torto a molti espositori di Dulcenda. Pazienza: farò di più quand’anche i lettori saranno aumentati.
La prima citazione va al Vino Santo Trentino. Ma mica per l’omaggio che m’han dato. Perché invece è monumento della cultura enoica in Valle dei Laghi. Perché è il passato che si fa presente. Perché è sintesi alta di sapere vinicolo. Lo fanno con le uve di nosiola. Fatte appassire lungamente esposte all’Òra, vento che spira fin là dal Garda, incuneandosi fra le montagne. Pigiate poi, le uve passe, verso Pasqua. Il vino riposa per lungo, lungo tempo - cinque anni e più - nel legno prima della bottiglia. Se proprio uno e uno solo ne dovessi scegliere, be’, m’orienterei allora su quello del Gino Pedrotti, uomo dei silenzi dei boschi, orso delle solitudini dei monti. È Vino Santo della vendemmia del ’95. Dieci anni d’ombroso riposo nella cantina. Vince ai punti – è mia opinione – per complessità, austerità, finezza.
Alto Adige, adesso. Scelgo il Terminum, vendemmia tardiva di gewürztraminer. Maestoso e complesso. Gli accenti floreali inseguono le note spiccatissime d’agrume. L’erba aromatica, alpestre, avvince il naso e il palato. La freschezza smussa la presenza dolce. Un mostro d’equilibrio. Lo fa la Cantina Produttori di Termeno. La vendemmia è del 2003. Ha solo un difetto: è pressoché introvabile.
Ora il Veneto. Vado nel Vicentino, a Breganze. Bevo il Torcolato di Firmino Miotti. Che poi Firmino segue la vigna, mentre a far vino è la figlia, Franca. Che sa il fatto suo. Così come lo sa il consulente che s’è scelta, il Federico Giotto, giovane dalle idee chiare e dalle realizzazioni sicure. Be’, il Torcolato 2002 è vino che mi devo decidere a comprare in cassa. Lo fanno in prevalenza con uve di vespaiolo, più piccole aggiunte di tocai «nostrano» e ancora più piccole dello sconosciuto autoctono della pedevenda, di cui non so alcunché, se non che forse prende nome da un monte di quelle parti. Il vino ha naso avvincente, secondo me il più bello dei cento di Dulcenda. Tartufo, sottobosco, frutta appassita, spezie fini, quasi accenni di chiodo di garofano, vene balsamiche. Vino da olfatto. E da gusto. Grande tensione. Freschezza nervosa. Lunghezza invidiabile. Da bere e ribere. Anche da far riposare, se si vuole, lungamente in cantina per ottenerne ancora maggiore complessità.
Ora Verona. Per me, veronese, capirete ch’è difficile scegliere: roba buona ce n’era, bianch’e rossa. M’impongo un’unica opzione. E dal taccuino di degustazione ecco che esce un nome: Le Selle dei Coffele da Soave. Che, attenzione, non è il vino più impressionante tra i passiti scaligeri provati. E allora – mi chiederà il lettore, uno dei dodici miei – perché lo privilegi? Rispondo: per la finezza, non per pienezza. A Dulcenda la Chiara Coffele – tipetto vispo, capelli un pochetto da punk – ha portato il 2001. È sauvignon appassito. Naso esilissimo, ma di nitore impeccabile. Poco alcol: undici gradi appena. Bella freschezza. Eleganza. Fosse un quadro, sarebbe un acquerello appeso fra oli e acrilici.
Adesso il Friuli. Con un capolavoro. Il Cràtis 2002. Verduzzo friulano doc. Lo fa Roberto Scubla a Ipplis di Premariacco. Ha avuto i tre bicchieri dal Gambero Rosso & Slow Food. Li merita, stramerita. Le uve le lascia in vigna più a lungo che può. Ne fa selezione e poi appassimento sotto tettoia, senza vetri o porte o finestre. All’aria, al vento. L’uva rustica e il rigore della maturazione gli rendono il carattere acceso, la personalità complessa. Che volete vi dica, per descriverlo: pensate ai frutti appassiti che vi piacciono, dalla scorza giallo-ambrata, e ce li troverete. Retorico elencarli. Sappiate però ch’è per nulla stucchevole. L’acidità gli dà slancio ed equilibrio. La quadratura del cerchio.
Uno me ne resta da scegliere. Medito e dico: Vin Santo dell’Umbria di Stefano Grilli, La Palazzola. La vigna è a Stroncone, provincia di Terni. Il vino – l’annata è il 2001 - lo si fa con il trebbiano spargolo e la malvasia. L’uva viene appassita, appesa, fino a Natale. Il mosto fermenta in carato sigillato. Be’, m’ha intrigato. Peccato non averne qui una nuova bottiglia da stappare. N’esce al naso una florealità che s’innesta su quella nota ossidativa ch’è tipica di vini del genere e ne trae slancio e lunghezza e fascinosa ricchezza. La bocca è salda, invitante, succosa di caramella alla pera, d’albicocca, per passare a memorie inusitate che direi di ginepro secco come quello che conservo in bacca nei vasetti per l’arrosto. Ma qui rischio d’esser preso per matto. O d’essermi fatto traviare dal gin tonic sorbito ad ampia coppa in compagnia di Stefano Bertoni e Leandro Luppi e Isidoro Consolini, i magnifici tre che han preparato la cena per la stampa. Il primo chef a Castel Toblino, l’altro stellato al Vecchia Malcesine, il terzo creativo patron e cuoco del Caval di Torri del Benaco. Bravissimi. Dedico loro un calice. Di passito, però, ovvio. Col gin & tonic water continuino pure loro.

sabato 26 novembre 2005

Cinque euro di provocazione sul vino

Angelo Peretti
D’accordo, è un’operazione di marketing. Ma potrebb’essere il classico sasso lanciato nello stagno. L’acqua stagnante è quella della ristorazione, in crisi profonda, e del suo rapporto col vino. Il sasso potrebbe mostrarsi un macigno. Ché se la sperimentazione andasse a buon fine, se i bevitori mostrassero di gradire la formula, be’, ci si potrebbero aspettare reazioni a catena.

Ora, i miei dodici lettori si chiederanno di cosa stia parlando. Presto detto: dell’iniziativa d’un ristorante di Montichiari, nel Bresciano. Si chiama Corte Francesco. È della famiglia Piccinelli. Propone i vini al costo d’acquisto, maggiorati di cinque euro come «diritto di stappatura». Cinque euro fissi, che si tratti d’un vinello o d’una bottiglia blasonata. L’amico Gigi Del Pozzo, che di Corte Francesco fa il pr, parla nel suo comunicato stampa di «un’iniziativa che sicuramente incontrerà il favore del pubblico». Non so se sarà così: mica ho la sfera di cristallo. Glielo posso augurare. So solo che la cosa m’intriga, e mi piacerà seguirla, magari profittandone per andare a bere qualcuna delle bottiglie che ho visto in lista.

M’accorgo che devo dare qualche dettaglio in più. Bene: cominciamo col ristorante.
Corte Francesco è una struttura strana. È sul rettilineo che congiunge Montichiari a Lonato. Ha un parco immenso (dieci ettari: digli niente). A pian terreno, saloni da banchetti eleganti per centinaia di persone. Di sopra, un intimo ristorantino da poche decine di posti e una cucina che merita d’essere provata. Tra le pignatte del ristorante al piano superiore si muove un giovane e talentuoso chef, Stefano Accorsini. Ha fatto gavetta nel Bresciano, ma anche all’estero. Ha due linee di piatti: il territorio - come s’usa dire - rivisitato, e il mare. Provai la sua cucina un paio d’anni fa trovandola piuttosto interessante, ma ancora non del tutto sicura. Ora s’è fatto adulto. Sapori netti, precisi, lineari. Mano salda, personalità. Ci ho mangiato bene a Corte Francesco. Tornerò. I prezzi? Neppure proibitivi: dalla quarantina di euro del menù degustazione bresciano alla sessantina di quello ittico. Alla carta sui cinquanta. Tutto compreso: niente coperto. E servizio professionale.

I vini. In lista ci sono più di quattrocent’etichette. Mica male. Dentro, ci trovate di tutto un po’, e questo forse è un limite, ma m’hanno detto che rimetteranno mano all’impostazione di cantina (a proposito: le bottiglie stanno in una stanza seminterrata, col volto in mattoni, molto bella). I prezzi, si diceva, son quelli d’acquisto, cui vanno aggiunti cinque euro a bottiglia. Occhio, però: il ristorante compra quasi sempre da enoteche, non direttamente dai produttori. Quindi, il prezzo a cui s’approvigiona è quello già ricaricato dall’enoteca. La cosa riduce d’un bel po’ il vantaggio per noi che siamo i clienti finali, ma comunque la somma che ci si trova a sborsare è in genere - non sempre - al di sotto di quanto chiesto di solito nei ristoranti. In questo senso, trovare in lista il Barbaresco ’90 di Gaja a 81 euro (più 5 di stappatura, ovviamente) è del tutto corretto, come ha osservato qualche collega. Io dico però che bisogna andarci un po’ prudenti, perché non è sempre facile valutare i prezzi dei vini d’annate vecchie. Per esempio, i Sassicaia ‘94 e ‘96 a Corte Francesco son venduti a 105 euro più 5, che fanno 110, cifra che qualcuno ha reputato buona, ma che a me pare invece del tutto normale, visto che si tratta di annate piccoline e che gli stessi vini li ho trovati a listino in altri locali attorno ai 120 euro, con punte minime però di 100 e massime di 170 e più.

Secondo me, la carta enoica è da sondare con spirito d’esplorazione, ché ci sono vecchie bottiglie da non lasciarsi sfuggire. Quelle che in altri ristoranti non trovi. Rimaste lì magari anche casualmente. Ma ci sono, e van bevute prima che se n’accorgano altri. Un motivo più che valido, insieme - lo ripeto - alla piacevole cucina, per prender su la macchina e andare a Montichiari.

Quali sono le bottiglie che farei stappare se ci andassi stasera?
Per esempio sarei curioso di provare il Capitel Foscarino ’97 di Anselmi (all’epoca era ancora nella doc del Soave, prima del «gran rifiuto»), che ho visto a 10,50 più 5, ed è somma da pagare senza tentennamenti. Così pure il Batàr ’92 di Querciabella, uno degli archetipi dello chardonnay italiano affinato in barrique: a 20 più 5 lo giudico un affarone. Ma altrettanto fascinosa è la versione ’98 dello stesso vino: a suo tempo, ottenne i tre bicchieri dalla guida dei Vini d’Italia del Gambero Rosso e di Slow Food: a Corte Francesco lo si stappa a 28 più 5. Vale il viaggio il Pinot Bianco Pergole 2000 di Longariva (fu finalista per i tre bicchieri, sfiorandoli) offerto a 8 più 5. Ma è un piacere trovare anche il celebre Sauvignon St. Valentin 2004 della Cantina Produttori San Michele di Appiano a 16,50 più 5.

Fra i rossi comincerei chiedendo Le Zalte ’97 o ’98 della Cascina La Pertica (a 21 euro più 5) per vedere come ha tenuto il più premiato fra i cabernet del Garda. Non mi farei sfuggire il semisconosciuto Brunetto ’95 di Montecorno (a 12 più 5), un rebo gardesano del tutto sperimentale (oggi l’azienda è degli Avanzi). Tracannerei contento il Faye 2000 di Pojer e Sandri a 20 più 5 e così pure il Rosso dell’Abbazia ’96 di Serafini e Vidotto a 17 più 5 o il Faro ’98 di Palari a 25,50 più 5 (una terna di vini che furono insigniti dei tre bicchieri gamberisti). Ma è a buon prezzo anche il Pauillac ’93 di Lynch-Bages a 50,50 più 5, visto che oggi lo si trova in enoteca in Francia fra i 60 e i 70 euro, solo comprandolo però in cassa da sei bottiglie.

Per chi volesse provare, ecco il telefono di Corte Francesco: 030 9981585. Fatemi sapere, dopo.

venerdì 18 novembre 2005

E sul Garda la Tav si mangerà le vigne

Angelo Peretti
Trentamila secondo le fonti ufficiali, cinquantamila secondo gli organizzatori. Quanti fossero non è poi così importante. Quel che conta è che una valle intera, quella di Susa, s’è mossa, unita, compatta, per difendere il proprio territorio. Contro un mostro vorace. La Tav. Il treno ad alta velocità. Che i politici ritengono essenziale, ma la gente no. Così, eccoli qua, oltre due chilometri e mezzo di corteo. Pacifico. Contro i soprusi che divorano la nostra vita quotidiana.

Toccherà farle fra un po’ anche sul Garda le barricate. Temo che finirà così. Perché la Tav vuol mangiar tutto anche qui. Vuol distruggere la Lugana, annientarla. Non servono appelli al buon senso, delibere comunali, prese di posizione delle categorie economiche. Niente di niente. Il progetto va avanti. Toccherà far le barricate per difendere dalla distruzione uno dei più interessanti terroir bianchisti italiani. Per salvare uno dei più longevi vini bianchi nazionali.

Cosa stia per succedere in Lugana l’ho spiegato qualche mese fa sul mensile di Slow Food. Siccome non tutti e dodici i miei lettori sono iscritti all’associazione della chiocciolina, ripropongo l’articolo qui di seguito. S’intitolava «Alta insensibilità».



Alta insensibilità.


Il progresso, sempre la solita storia. Fermarlo non si può. Neppure discuterne. Avanti tutta, in velocità. Anzi, ad alta velocità, come il supertreno che dovrà unire la vecchia Europa a quella nuova, sul Corridoio 5, da Lione a Kiev. Costi quel che costi. E tra i costi della linea ad alta velocità che si va finendo di progettare nella tratta fra Milano e Verona rischiano d’esserci anche una terra, un vitigno e un vino che portano tutt’e tre lo stesso nome: Lugana.

La zona è bella e turistica. Sud del lago di Garda. Un fazzoletto un po’ lombardo e un po’ veneto, tra Desenzano, Lonato, Pozzolengo e Peschiera. In mezzo c’è Sirmione, «perla delle isole e delle penisole», per dirla con Catullo, che ci abitava un paio di migliaia d’anni fa. Una piana fra la riva del Benaco, il Mincio, le colline moreniche mantovane e la Valtenesi. In macchina, la si attraversa in dieci minuti, lungo l’autostrada che la sfregia nel mezzo come una cicatrice. Qui c’era una palude boscosa, la silva Lucana. Gli alberi vennero abbattuti per ragioni militari: servivano ai Visconti per deviare il Mincio e allagare Mantova, che resisteva.

La bonifica cominciò in età veneziana. Restano le argille: durissime, piene di crepe quando c’è il sole, simili a sabbie mobili quando piove. Sopra ci sono le vigne di trebbiano di Lugana, varietà autoctona, che ne trae tipica mineralità quasi d’idrocarburi. Il vino è in continua crescita qualitativa.

I tecnici sono categorici: per far passare le rotaie del supertreno serve cavar via 70 ettari di vigneto, il 10% di tutto quel che esiste in Lugana. Un’altra manciata d’ettari di vigna dovrà lasciar posto al deposito di macchinari e combustibili. Ottanta ettari eliminati su 700 totali. Un’enormità. In più, scartabellando, si è scoperto che, oltre alla linea ferroviaria, s’insedieranno alcuni enormi cantieri. Uno – 85 000 metri quadri – è a ridosso dell’acquedotto di Peschiera. Nel progetto originale queste ferite non sono segnate. Le vedi sulle planimetrie che possono avere, su richiesta specifica, solo i comuni. Con questi, si arriva a far fuori il 22% dei vigneti totali del Lugana. Un disastro.

I fautori dell’opera non si scompongono. Lo studio d’impatto ambientale ha avanzato una curiosa teoria salvifica per le grandi aree a cantiere: quella che, asportando l’attuale terreno coltivato, conservandolo a margine e riposizionandolo a lavori finiti per ripiantarci di nuovo le vigne, tutto tornerà come prima. In fondo, che c’entrano col vino milioni di anni di lavorio dei mari che depositarono limi, dei ghiacciai che costruirono morene, delle piene lacustri che modellarono la piana? Che importa di secoli d’interazione fra suolo, clima, vigna, uomo, ambiente? Il terroir lo puoi smontare e rimontare a piacimento: così pensa la nuova scienza. Piuttosto, si potrebbe immaginare di piantar vigne su altri terreni della Lugana, fin qui scampati alle lottizzazioni, ma pure lì il treno fa scempio, pretendendo il tributo di ben 100 ettari anche di quest’area potenzialmente coltivabile.

Con le vigne, se ne andrà per sempre un’altra parte della memoria dei luoghi. La linea di alta capacità – è questa la definizione canonica – chiederà il sacrificio di alcune cascine, che verranno demolite. Dieci solo nel comune di Desenzano. A Pozzolengo sarà abbattuto un cascinale di valore storico e architettonico. Risale al Seicento. Le travi che reggono il solaio sono enormi: forse alberi strappati all’antica selva. Restano perfettamente integre le pietre intagliate che servivano a delimitare gli spazi delle vacche nelle stalle: sono in marmo rosso di Verona, ultime testimonianze di una civiltà contadina travolta dal boom del turismo, dall’avanzata dell’urbanizzazione residenziale, dal proliferare dei capannoni e dei centri commerciali.

Possibile non ci sia una soluzione alternativa? Ci hanno provato in molti a spiegare che sì, un’altra possibilità c’è: spostare la linea di qualche centinaio di metri e farla passare sotto le colline moreniche, in galleria. Ma fino a oggi la risposta è stata la stessa: no. Inutile persino votarsi ai santi. Il treno passerà accanto al Santuario del Frassino. La tradizione vuole che lì la Vergine sia apparsa a un vignaiolo, nel 1510. Nemmeno la Madonna ha potuto deviare il tracciato.

Inutili gli appelli del comitato che in Lugana e sulle vicine colline moreniche vorrebbe creare un parco. La richiesta di tutela dell’area ha ricevuto il sostegno dell’astronoma Margherita Hack, del poeta Andrea Zanzotto, dello scrittore Mario Rigoni Stern. Anche di Roberto Vecchioni, professione cantautore ed ex insegnante di liceo a Desenzano, lo stesso dov’era stato commissario d’esami Carducci. I posti, e il vino di Lugana, Vecchioni li conosce. Li ha descritti così: «Casali sparsi, vie di ciottoli, filari ininterrotti di alberi, macchie di ulivi, di rosmarino, roseti, querce storte e imponenti, locande che ti appaiono improvvisamente e ti siedi, bevi del Lugana freschissimo, chiacchieri, giochi, ti rialzi e ti si sperde lo sguardo fino a incontrare laggiù in mezzo al lago due vele innamorate che danzano in cerchio».

Inascoltato resta il monito delle associazioni di categoria. C’è un protocollo d’intesa firmato a Brescia e a Verona dall’Unione e dalla Confederazione Agricoltori e dalla Coldiretti. Vi si denuncia che «saranno gravissimi i danni all’economia delle aziende vitivinicole locali, al turismo in generale, ma soprattutto all’enoturismo e inevitabilmente all’immagine del Lugana». Si domanda di utilizzare la galleria. Lettera morta. Il Consorzio di Tutela del Lugana insiste nel documentare al ministero come la peculiarità di questo vino sia data dal suolo e dalle sue rare, uniche formazioni argillose d’epoca wurmiana, che insieme al clima e al vitigno «conferiscono al prodotto finale peculiarità organolettiche con caratteri assolutamente esclusivi e non ripetibili su terreni limitrofi o comunque diversi». Il problema è lì.

Non c’è dubbio: chi ama il vino e la biodiversità, fa il tifo per la galleria. Alzare un calice di Lugana può essere il segno della resistenza.

mercoledì 9 novembre 2005

Il sogno incarnato nel merlot: Nepomuceno

Angelo Peretti
Per gente acquatica come il sottoscritto, il nome di san Giovanni Nepomuceno è discretamente noto. Il nome solo, si badi, ché del santo è difficile si conosca la biografia (era un prete - ho letto - e ha fatto brutta fine, legato, imbavagliato e gettato nel fiume per aver appoggiato l’arcivescovo di Praga nella lotta contro il re). Fatto sta che è il protettore dei naviganti, di chi lavora sull’acqua, dei pescatori. Ecco perché l’affinità con la gens aquatica. A Garda, poco fuori della porta occidentale del centro storico, c’è una nicchia con la sua statuetta.
Si chiama Nepomuceno anche un vino d’entroterra lombardo. Ora, non è che i concorsi enologici mi eccitino più di tanto, ma devo ammettere che m’ha fatto piacere vederlo premiato alla rassegna dei merlot italiani ad Aldeno. Per due motivi. Primo, perché il Nepomucemo 2001, merlot in purezza, è davvero un gran bel vino. Secondo, perché dietro c’è un progetto. C’è una passione, anzi, più d’una. C’è una storia.
Il vino lo produce Cantrina, piccola azienda di Bedizzole. O meglio, Cantrina di Cantrina, ché l’aziendina ha mutuato il nome dal minuscolo borgo della campagna bedizzolese, ultimi lembi delle colline modellate dai ghiacci che formarono il bacino del Garda, millanta e millanta anni fa. A Cantrina c’è una donna, Cristina Inganni. Che continua a coltivare il sogno che fu di Dario Dattoli. Lui su quella collinetta appena accennata, nel declivio a lato d’un vecchio cascinale in stile lombardo, aveva avuto l’illuminazione: ricavarci una sorta di chateau bresciano, piantando vigne francesi là dov’è tutto groppello e marzemino. Eccolo qui il progetto. Improntato e subito infranto dal destino. Ma Cristina ha voluto, cocciutamente, andare avanti. Dar concretezza all’utopia. Trovando lungo la via il sostegno di Diego Lavo, suo compagno d’oggi. E la consulenza d’altri visionari: il team Zymè, Celestino Gaspari in primis, uno che i vini li fa solo se sono estremi, ché sennò non lo intrigano abbastanza.
Ora che le vigne han cominciato a farsi adulte, il terroir s’è confermato quello intravisto. Ed è il Nepomuceno a far da apripista della crescita qualitativa, rapida e per certi versi entusiasmante in una zona che le novità le offre col contagocce. Se il merlot di Cantrina edizione 2000 dava soddisfazione tanta, la versione 2001 è balzata ancora più avanti. Varietale che di più non si può: il peperone verde che ti salta al naso, deciso, il frutto rosso che gli fa da sfondo, il tannino fitto fitto, la speziatura sottile e aristocratica. Rosso d’avvolgenza. Di robusto corpo. Di succosa e masticabile quasi possenza. Di lunghissima persistenza. Di beva appagante.
Come ci si è arrivati? Piantando vigna fitta. Poco terreno: un ettaro e 35 appena, in prevalenza d’argilla rossa. Resa minima. Raccolta fatta rigorosamente a mano in cassettine. Peccato solo che le bottiglie siano un nulla: tremila e basta. Da bere in parte, e in parte, se vi riesce, da metter via per vedere fin dove saprà arrivare. Questo Nepomuceno ha la stoffa del campione, credetemi.

sabato 5 novembre 2005

Del novello e dei dubbi del bevitore

Angelo Peretti
Così è arrivato di nuovo anche il novello. Portandosi dietro le discussioni di sempre. Con gli ostracismi di chi non ne vuol neanche sentir parlare. Non ne avrei parlato qui neanch’io, ma siccome in tanti me ne chiedono notizia, ho pensato di riproporre quasi integralmente su InternetGourmet.it un pezzo che ho scritto per la pagina del gusto del quotidiano «L’Arena» dello scorso 4 novembre. La pagina la cura Morello Pecchioli, giornalista di bella penna e gran gourmet: è stato lui a chiedermi di parlare di novello. Dato l’interesse che l’articolo ha destato, ci ha visto giusto anche stavolta: sotto sotto, il novello intriga. Ecco qui di seguito il testo.

Se avete il buon tempo d’aggirarvi fra le pagine di Internet tra forum e blog a soggetto vinicolo, vedrete un gran discorrere di novello. Perché, come dice la legge, «alle ore 0,01 del 6 novembre dell’annata di produzione delle uve dalle quali i vini di cui trattasi derivano» ha inizio la commercializzazione del novello del 2005. Solo che le discussioni dei naviganti del web non sono generose col novello. L’accusano di non essere vino. Arrivando a definirlo una «bevanda alcolica». A scriverne sono più i detrattori che i sostenitori. Ma se ogni anno di novello italiano se ne vendono qualcosa come quindici-sedici milioni di bottiglie, a qualcuno deve pur piacere.

Intanto, cerchiamo di capirci. Il novello non è un vino «nuovo», non è una sorta di «torbolino». Perché non lo si produce – o meglio, non lo si dovrebbe produrre - con la solita fermentazione alcolica. Di mezzo c’è la cosiddetta «macerazione carbonica». Una tecnica inventata in Francia negli anni Trenta. Già: la primogenitura dei novelli spetta ai francesi. Noi, in Italia, li abbiamo copiati, per emularne il successo commerciale, con sessant’anni di ritardo. Solo che abbiamo voluto essere più «furbi» di loro, e allora non solo abbiamo previsto di uscire sul mercato il 6 novembre anziché il terzo giovedì del mese come accade per il celebrato Beaujolais Noveau, ma addirittura abbiamo previsto che la macerazione carbonica sia obbligatoria appena per il trenta per cento del vino, contro il cento per cento dell’obbligo transalpino. Il resto, a casa nostra, può essere vino tradizionale. Il che lascia spazio all’infinita fantasia italica. E nel consumatore può insorgere il sospetto che la dicitura di novello celi una «rinfrescatina» del vino rimasto invenduto dall’anno prima.

Perché è importante la macerazione carbonica? Perché è questa, solo questa, la tecnica che rende inconfondibili, unici i vini novelli, conferendo loro i freschissimi, fragranti, gradevoli, intriganti sentori di piccoli frutti, succosi e invitanti. Così pure è da questo metodo che si trae quel simpatico color porpora che hanno - o dovrebbero avere - i novelli. Vediamo, grosso modo, come funziona. I grappoli, che devono esser sani, vengono posti in contenitori ermetici, nei quali si immette anidride carbonica. Nella vasca manca dunque l’ossigeno. Il fatto è che normalmente la fermentazione - ossia la trasformazione degli zuccheri in alcol - avviene grazie ai lieviti, che hanno bisogno appunto dell’aria per agire. In questo caso, invece, i lieviti, mancando ossigeno, non riescono ad attivarsi, e allora a muoversi sono gli enzimi contenuti nell’uva. Sono loro che, dentro l’acino, cominciano ad attaccare lo zucchero, trasformandolo in alcol. Quando il processo è giunto a saturazione, le uve sono pronte per una lieve pigiatura. Il novello, di fatto, è bell’e pronto. Ricco di giovanili afrori. Il trucco è tutto qui. Così fanno i francesi, che sono maestri nel ramo.

Insomma: il novello non è che non sia vino. È vino fatto in maniera diversa. E quand’è fatto bene può essere piacevolissimo, beverino, sbarazzino. Semmai c’è un problema di durata. Perché la metodologia di lavorazione fa sì che manchino quasi del tutto i tannini, che sono dei conservanti naturali. Dunque il vino non è particolarmente longevo. Meglio consumarlo in tempi brevi: cinque-sei mesi. Diciamo che finisce il ciclo vitale attorno a Pasqua. A proposito: se di novelli ne trovate qualcuno che vi piace in modo particolare, conservatene una bottiglia da stappare con l’agnello, e non ve ne pentirete.

Il problema, si diceva, è che la legge italiana è elastica. Non c’è, che noi si sappia, disciplinare italiano che prevedeva la sola macerazione carbonica per il novello. Al massimo s’arriva all’ottantacinque per cento, come nel lodevole caso del Bardolino, primo novello ad aver ottenuto la doc nella storia nazionale: era il 1987. Sia chiaro: non è vitato usarla in via esclusiva la macerazione carbonica, ma altrettanto non c’è nessuno che, purtroppo, la imponga. Occorre dunque legger bene le etichette: il novello ideale è quello per il quale è scritto che s’è ottenuto «interamente» o «esclusivamente» con la macerazione carbonica. Un generico accenno a questa tecnica non basta. Nel dubbio, meglio informarsi scorrendo i disciplinari delle varie doc. Preferendo le denominazioni che prevedono i limiti più elevati.

Per il 2005 c’è forse un altro problemino. Si diceva che i grappoli devono esser sani, perché i processi di trasformazione che, attraverso l’azione degli enzimi, danno vita al novello, avvengono dentro l’acino. E l’acino deve aver buona pelle, solida e tesa. Cosa che non sempre è stata possibile col tempo bastardo che ha fatto. Per le troppe piogge tanta uva s’è ridotta ad aver buccia sottile, che si rompeva a guardarla, quando non era attaccata da muffe. Come sarà, dunque, il novello 2005? «Lo scopriremo solo vivendo» cantava Lucio Battisti. Ma le condizioni non ci sono sembrate ideali: speriamo di sbagliarci. La regola allora è questa: se potete, assaggiate prima di comprare. Magari partecipando a una delle tante fiere di presentazione dei novelli in programma in questi giorni. Ché son cresciute come i funghi.

domenica 30 ottobre 2005

Una scommessa sui Lugana

Angelo Peretti
I dodici lettori che mi fanno la cortesia di leggere di tanto in tanto questa rubrica sanno probabilmente della mia opinione sul Lugana. Ossia che è sì bianco buono da bere giovane, ma che soprattutto merita, nelle etichette migliori, d’esser fatto affinare per qualche anno e anche di più. Come accade per pochi altri bianchi italiani: qualche Soave, qualche Trebbiano marchigiano e qualcheduno magari dell’Abruzzo. Poi, credo, basta. Invece il Lugana, con quel suo esser vino d’argille, su cui la vigna fatica e stenta, sa esser longevo, e anzi migliora addirittura, se ben fatto e ben serbato in cantina, col fluire degli anni. Ora, è accaduto che il consorzio di tutela del Lugana abbia convocato un manipolo di giornalisti, fra cui il sottoscritto, per sottoporre al loro palato una quindicina di bottiglie e valutarne il potenziale d’affinamento. La scommessa era questa: può qualcuno di questi vini esser tale da migliorare nel prossimo triennio? Unica regola per il produttore era presentare vini almeno del 2003, esclusa dunque l’ultima annata (e, badate, il 2004 è stata ottima vendemmia bianchista). Ebbene, su circa un terzo ci siamo sentito di provare a scommettere. Li riassaggeremo l’anno venturo e quello dopo, e dovranno mostrarsi non già semplicemente conservati, ma anzi cresciuti in eleganza.
Quali siano questi Lugana dal possibile futuro in crescendo ve lo vado a descrivere qui di seguito.
Primo vini ad aver passato la selezione è il Lugana Riserva del Lupo 2003 di Cà Lojera. Per me, è un autentico fuoriclasse. Probabilmente uno dei migliori Lugana che mi sia mai stato dato d’assaggiare. L’ho già bevuto varie volte, e sempre mi si è confermato d’enorme carattere. Magari difficile, ora, da comprendere. Perché ancora chiuso, nervoso. Ma, a mio avviso, destinato a fascinoso futuro. È fatto in acciaio. Solo acciaio, niente legno. L’alcol, pur sostenuto, è quasi mascherato da una vivida freschezza, del tutto inusuale per la calda annata di cui è figlio. Emergono afrori d’agrumi (di limone, di pompelmo) e poi di citronella e d’erba di sfalcio. La vegetalità è a tutto tondo. La mineralità è lì che preme per uscir fuori. Il finale, lunghissimo, gioca sui toni della mandorla verde e della colorofilla. Lasciatelo riposare ancora, e vi darà soddisfazioni. Ci scommetto davvero.
Cà Lojera ha giocato una seconda ottima carta col suo Lugana Superiore 2001. Altro bel vino. Stavolta da botte di legno. Anche qui, i colleghi sono stati concordi: bel vino ora, ma potrà ancora migliorare (occhio: è un 2001, e dunque ha già quattr’anni sul groppone). Al naso appare addirittura restio a concedersi. Ma mineralità e nota verde poi balzano fuori. La bocca è agile, vibrante. Il legno non è ancora del tutto fuso. Si farà: probabilmente il prossimo triennio lo vedrà arrivare al massimo delle potenzialità.
Torniamo ai bianchi fatti in acciaio. Ha passato la prova il Lugana Superiore Vigna di Catullo 2003 della Tenuta Roveglia. Altro bel vino (e badate: il Lugana base del 2004 è addirittura una spanna sopra: compratelo e mettetene un po’ da parte). Frutto di tre successive vendemmie, ne propone i diversi caratteri. Vegetale e salino per rappresentare la prima e la seconda cernita in vigna, denso di frutto surmaturo e quasi di caramello per descrivere il terzo passaggio, quello della vendemmia tardiva.
Poi, il Lugana Molceo 2003 di Ottella. Siamo nella categoria dei vini affinati nel legno. E il Molceo si conferma ancora una gran bella espressione luganista. Denso, grasso, setoso, eppure anche citrino, rigoglioso di salvia. Il passaggio in botte quasi non l’avverti. Te ne accorgi solo per una vena vanigliata sottesa all’ampia struttura. Non dovrebbe aver proprio problemi a dipanarsi al meglio nel triennio che viene.
Quinto e ultimo vino su cui ci siam sentiti di scommettere, il Lugana Superiore Fabio Contato 2003 di Provenza. Fabio è il patron dell’azienda e firma di pugno in etichetta nelle annate migliori un bianco e un rosso. Questo Lugana fa legno. Ed è un vino che ha muscoli e gran corpo. Ricorda i frutti esotici, i fiori bianchi (la magnolia), l’uva surmatura. La vena verde è ben impressa. Decisa. La mineralità è lì pronta a comparire. Non avrei dubbi sulla tenuta per tre e più anni.
Detto questo, abbiamo anche provato qualche vecchia bottiglia di Lugana, giusto per avere (per me scontata) conferma della longevità del bianco di riviera. La migliore, entusiasmante, era quella d’un Lugana I Frati 1996 di Cà dei Frati. Vino superbo, che rasenta la perfezione. Roba da 95 centesimi di valutazione. Naso da idrocarburi e pietra focaia, che s’apre con lentezza estrema verso i ricordi di frutto e fieno, di fiori essiccati e mandorla. Emerge anche un’aristocratica venatura fumé. Bocca solida, sapida, vegetale. Esce di lì a poco la susina acerba. Poi ecco le erbe alpestri in un finale lunghissimo e avvolgente. Fantastico. Peccato non ce ne sia praticamente più neppure nella collezione privata di casa Dal Cero.
Buonissimo anche il Lugana Il Brolettino 1994, sempre di Cà dei Frati. Di questo vino ho raccontato qualche tempo fa una piccola verticale. Meglio il Frati ‘96, ma ragazzi che stoffa che conferma anche questo Brolettino, con quel suo naso subito prima restio e poi ammaliante nell’ampliarsi verso toni floreali che sanno di gelsomino. La bocca propone erbe montane, menta, eucalipto. Il finale rammenta i distillati di susina.
Poi, due sorprese. La prima, il Lugana Superiore Vigna di Catullo 1994 di Tenuta Roveglia. Ha naso minerale, con memorie quasi di kerosene. Escono poi il fieno secco, la buccia essiccata d’agrumi. Il palato lo coglie ancora integro, sapido. Ha sentori di limone, di cedro candito. Poi, la mandorla verde. È probabilmente giunto all’apice della maturazione, e più a lungo non potrà ancora svilupparsi, ma vivaddio ha passato con scioltezza il decennio.
Infine, sorpresa vera, ché non ho mai apprezzato moltissimo, l’ammetto, l’etichetta, il Lugana Il Rintocco 1996 della Marangona. Ebbene sì, oggi è un gran bel vino. Il naso è violentemente improntato al segno degli idrocarburi tipici dei trebbiani coltivati su argille ostiche. Sa, subito, di trielina, gasolio, nafta. Che quasi butti indietro la testa. Ma poi, ossigenandosi, i sentori minerali divengono ammalianti. E dopo, ecco il frutto giallo. In bocca è addirittura giovanile, pregno di memorie vegetali, d’eucalipto, mentuccia, erba luigia. Per finire, freschissimo, sulla mandorla verde. Averne qualche bottiglia in cantina non sarebbe male.

lunedì 17 ottobre 2005

L’uomo del Monte (Lodoletta) ha detto no

Angelo Peretti
Alla faccia di chi anche stavolta ha gridato alla vendemmia del secolo. Romano Dal Forno ha deciso: niente Amarone 2005. Lo ha annunciato il quotidiano «L’Arena». In una lunga intervista al vigneron di Cellore d’Illasi, fresco di nomina di «vignaiolo dell’anno» da parte di «Vini d’Italia», la guida targata Gambero Rosso & Slow Food. E vivaddio, questa sì che è una notizia. Perché è una svolta, in terra di Valpolicella. Super-Romano – quello che si occupa di vigne sul Monte Lodoletta, mica l’altro che ha in mente l’Ulivo – ha confessato a Giancarlo Beltrame: «Non ci sarà un Amarone Dal Forno 2005. La materia prima, cioè le uve, non mi consentono di mantenere la stessa qualità degli Amaroni degli altri anni e così salto un anno. È una scelta dolorosa, ma obbligata, perché non trovo un filo di sostegno per poterlo almeno ideologicamente immaginare. Invece, lavorando bene e molto nell’appassimento e in tutte le fasi successive, mi gioco una grande partita per fare un Valpolicella Superiore come Dio comanda, che non tema confronti con le mie annate precedenti».
I miei dieci lettori lo ricorderanno: l’avevo detto qualche settimana fa che tutte ‘ste dicerie che giravano sull’annata del secolo erano balle grosse come una casa. Con tutta l’acqua che ha fatto e un’estate senza sole come era anni che non se ne vedevano. Così è toccato a una delle grandi firme del vino veneto e italiano e insomma a un gran nome dell’arte bacchica spiegare come stanno le cose. Con un gesto estremo, dirompente: niente Amarone. Scelta coraggiosa, quella di Dal Forno. Anche in questo un caposcuola, in terra veneta.
Ebbene sì: chi è che ha detto che bisogna per forza farlo l’Amarone? Lo si produce se l’annata lo consente. Sennò, meglio destinare le uve e le energie a un buon-ottimo-formidabile Valpolicella. Scelta che altri, in terra valpolicellese, avrebbero dovuto avere il fegato di adottare già nella bastarda annata del 2002, quando grandine e pioggia avevano aperto larghi varchi nei vigneti. Invece s’era messa ad appassire uva a tutto spiano. Convinti che il mercato fosse pronto a bersi tutto. Che i prezzi avrebbero comunque continuato a salire. Salvo poi trovarsi col mercato che comincia a storcere il naso.
Già: è un po’ di anni che il tempo fa il ballerino. Che inguaia chi fa uva e vino. Il 2002 era stato ben più che problematico in molte parti d’Italia per via della tempesta e dell’acqua. Il caldo del 2003 aveva cotto l’uva. Il 2004 è stato buono per i bianchi (Soave e Lugana sono da metter via in cantina: daranno soddisfazioni per anni ed anni), ma per i rossi è ancora presto per dar giudizi. Il 2005, be’, questa è stata l’estate delle piogge torrenziali d’estate e poi delle pioggerelline continue e fastidiose man mano che s’avvicinava l’autunno, e delle nebbioline mattutine in fondovalle, e delle muffe, e del marciume. I migliori sono passati e ripassati in vigna a pulire i grappoli, a eliminare tutto quello che c’era da eliminare. A salvare il salvabile. Che poi non vuol dire che non si possano fare buoni vini. Buoni, mica capolavori, salvo eccezioni, che per fortuna ci son sempre. Nel frattempo però i comunicati si sono sprecati: grande annata, vendemmia del secolo. Ma va là. Speriamolo davvero che quella appena finita sia stata la vendemmia del secolo: che una vendemmia così – intendo -, questo secolo non ce la dia più.
Intanto, chi può, ché il prezzo - ahinoi - è proibitivo, si goda, di Dal Forno, l’Amarone 2000, che i tre bicchieri del Gambero e Slow Food se li è portati a casa con pieno merito. Ricco e concentrato come al solito, cupo come il babào, ma anche succoso e bello da bere. Gioiello d’equilibrio e di forza. Chapeau.

mercoledì 12 ottobre 2005

Se ti capita di bere rosa in autunno

Angelo Peretti
Guarda se doveva capitarmi di finire nel Padovano per bere, ad autunno iniziato, un Chiaretto di Bardolino. Fuori zona e fuori stagione. Ma, tant’è, succede anche questo. Ché i miei compagni di tavola, alla fine d’un congresso, volevano un vino non troppo impegnativo, eppure gradevole, prima di mettersi in viaggio. E allora, adocchiando la carta, ecco che m’è venuto in mente di «rischiare» un rosato. Il Bardolino Chiaretto di Corte Gardoni, Valeggio sul Mincio, sud inoltrato del «mio» lago di Garda. E i commensali han gradito. Replicando la bottiglia. Insomma: m'è andata dritta. Salvando pranzo e reputazione.

Mica facile fare un bel rosè. Serve uva buona, tempismo, equilibrio. Uva buona e sana, ché altrimenti la cattiva maturazione, la scarsità di sostanza si sentirà nel vino, così esile da esser messo in crisi da qualunque qualsiasi distorsione organolettica. Tempismo per via del colore: la tinta del vino viene bucce (i rosati si fanno con uve rosse) e dunque è il tempo in cui buccia e mosto restano a contatto a determinare la tonalità finale. Equilibrio, perché il rosato non è né bianco né rosso, non deve somigliare a nessuno dei due, ma un po’ di entrambi deve avere le caratteristiche, vestendosi della florealità e vegetalità d’un bianco e della fruttuosità d’un rosso. Dunque è una tipologia tutta da riconsiderare anche da parte del consumatore: ne vale la pena.

Un rosato da antologia ce l’ha regalato in terra veronese la vendemmia 2004: è il Bardolino Chiaretto dell’azienda agricola Corte Gardoni, a Valeggio sul Mincio. Gianni Piccoli, padrone-patron di Corte Gardoni, è uomo convinto che il buon vino lo si fa prima di tutto in vigna, curandola con passione, abbassandone le rese. Come lui sono convinti i figli, Mattia, Stefano e Andrea, che da anni vanno e vengono dalla Francia per impararne la cultura vinicola. Ebbene, messi insieme, i saperi enoici di papà Gianni e dei figli globetrotter hanno fatto la quadratura del cerchio. Il loro Bardolino Chiaretto 2004 ha colore tenue, impalpabile, antico: somiglia alle carte delle caramelline tonde di zucchero che si trovavano nei piatti di Santa Lucia. I profumi rimandano al piccolo frutto di bosco, al lampone in particolare, con qualche nota sottile di erbe officinali. La bocca è succosa, croccante di ciliegia e di susina, con una vena di quelle fragoline che si trovano all’ombra nei boschi. Così ha da essere un Chiaretto: leggiadro, dissetante, appagante. Di gran beva. Come dovrebbe essere un Chiaretto, appunto.

sabato 1 ottobre 2005

In lode del risotto col prete

Angelo Peretti
Sapori che sembravano perduti e che invece si ritrovano, quasi inaspettati. Non è mica facile viverle riscoperte del genere, di questi tempi. Perché domina l’omologazione. Prima era la rucola, adesso il petto d’oca, domani chissà che altro. Ma di tanto in tanto un lampo si riaccende. Ed è un’esperienza dei sensi che ti travolge, perché porta con sé il fascino agrodolce della nostalgia autentica, della storia vissuta per davvero. Mi è capitato qualche sera fa nella Bassa di Verona. Ad Aselogna di Cerea. Al ristorante Da Aldo. Dove m’hanno messo davanti il risotto col prete.

Il prete era proprio il prete. Nel senso che quando s’ammazzava il maiale, il cappellano del paese ti capitava puntuale in casa. Non occorreva neanche che ti chiedesse l’obolo: lo sapeva di già che la braciola, ghiottoneria negata al bacàn, gli sarebbe stata donata. E in più c’era l’invito a pranzo. D’altro canto, era un ospite di riguardo, un prestigio averlo seduto accanto. Così, capitava che si mangiasse il risotto insieme al prete del paese. Si mangiava insomma il risotto col prete. E lo si cucinava utilizzando lo stomaco del maiale. Parte di scarto, apparentemente. In realtà, gustosissima, a saperla pulire e lavare e grattare e cuocere con pazienza e pazienza e pazienza, ché è difficile da affrontare. Però il risultato era premio alla fatica. Lo è ancora, per chi accetta la tribolazione del viaggio fino ad Aselogna, uscendo prima di Legnago dalla Transpolesana e poi passando in mezzo ai capannoni che spopolano anche qui e prendendo le stradette che portano ad Aselogna.

Sia chiaro: non è piatto da dieta, né da stomaco debole. Il risotto col prete arriva in tavola giallo di brodo grasso. Come quando era la fame e bisognava placarla almeno alla festa, se ci si riusciva. Né asciutto, né minestra. All’onda, si può dire. Odoroso di cannella, ché qui è consuetudine adoperarla senza ritrosia. Fra i grani del riso, le striscioline della trippa di stomaco del porco. Il tutto cotto con un fondo di verdurine. Ogni forchettata una festa della gola. Bravo Galliano, che ha ritessuto nella sua cucina le trame del sapere alimentare. Avanti così, con coraggio.

D’accordo, mica facile, ad Aselogna. Non c’è il turista qui, non passa il forestiero. Però sono convinto che la fedeltà al territorio alla lunga ripaghi. Anzi, lancio un appello: cominciamo a ripagarla subito, ghiottoni. Avverto: il risotto col prete bisogna prenotarlo. Dò anche il telefono: 0442 35010. Aggiungo: c’è il vantaggio, non da poco, che qui, nella Bassa, i prezzi sono ancora umani. Anche sui vini, che non hanno magari carta eccelsa, ma piacevole sì, e qualche piccola perla abbastanza rara, come il Blanc de Morgex et de la Salle, valdostano, che ho bevuto io.

sabato 24 settembre 2005

Ma guarda, c’è un Bardolino che sa di tradizione

Angelo Peretti
Per me, la tecnica produttiva conta quel che conta. Senza offesa per agronomi ed enotecnici, m’interessa soprattutto che il vino esprima un terroir, il suo, e una personalità, quella del produttore. E che sia bevibile, of course. Il resto, il lavoro di vigna e di cantina, è sì importante, ma alla fin fine è un corollario, un insieme di pratiche che dovrebbero essere orientate a descrivere il legame fra persona e terroir. Tutto qui. Detto questo, eccomi a parlare di un Bardolino da agricoltura biologica. Con la premessa che ho fatto, che sia bio non m’importa più di tanto. Se la bottiglia non esprimesse qualcosa d’interessante, quel che c’è scritto in etichetta varrebbe zero. Ma qui c’è qualcosa che m’intriga. Soggetto: il Bardolino dei Poderi Oppi Pellegrini prodotto da Maddalena Pellegrini a Castion Veronese.

Lei, lady Maddalena, fa agricoltura biologica. Mica solo vino. Anche olio extravergine d’oliva e vacche della razza limousine. In un gran bel posto. Ha sessanta ettari di bosco, venticinque di pascolo e cinque e mezzo di vigne sparse qui e là. Ai piedi del Monte Baldo, alle spalle del lago di Garda. Nei dintorni della villa di famiglia, una delle più belle del territorio gardesano. Un tempo, nelle pertinenze del palazzo ci abitavano i mezzadri. Ora il magnifico edificio non è più luogo d’attività agricola: ci si fanno convegni e banchetti di nozze. Maddalena ha un cascinale poco lontano. Ci lavora col marito e un operaio moldavo. Struttura al minimo.

Fa, si diceva, un Bardolino. Ne ho bevuto, con qualche preconcetta riluttanza, l’annata 2004. Perché la versione 2003 non la ricordavo affatto bene: l’annata caldissima aveva surmaturato l’uva cuocendola, la quasi totale mancanza di solfiti – tipica della pratica bio – aveva contribuito a un’ossidazione precoce. Be’, il 2004 invece è piaciuto. Tanto che in tavola la bottiglia è finita in fretta, segno inequivocabile di piacevolezza.

Piaciuto perché è un Bardolino d’altri tempi. Di quelli che pensavo non esistessero neanche più. Mica un capolavoro. Anzi, quasi un vinello esilino, ma di straordinaria beva e singolare adesione ai canoni della più schietta tradizione. Intrigante nella sua candida, quasi ingenua semplicità. Bello come il sorriso di un bimbo.

L’uvaggio è quello tradizionale, con la corvina veronese e la rondinella a guidare le danze, ma anche buone percentuali di molinara e un poco di negrara. Le vigne sono un po’ a Castion e un po’ a Bardolino. A Castion c’è un vigneto nuovo nuovo e un altro con ceppi vecchissimi. In terra bardolinese la vigna, minuscola e giovane, è a Cortellina, che considero da sempre uno dei crû storici della denominazione, dalle potenzialità ancora del tutto inespresse.

I profumi sono quelli tipici del Bardolino tradizionale. Ci sono i piccoli frutto di bosco: la mora e il lampone. C’è la marasca sul caratteristico fondo speziato della corvina. In bocca, è sapido, con quelle particolari note “saline” che hanno sempre caratterizzato il Bardolino della tradizione. S’avvertono chiari i diversi apporti dei terroir d’origine. Le uve provenienti dal piccolo appezzamento di Cortelline imprimono classiche presenze fruttate di ciliegia e lampone, accompagnate da accenni floreali di ciclamino. Note che sono tutte di bella lunghezza. Le uve dei vigneti di Castion Veronese apportano invece le doti di vegetalità e la sottile speziatura (pepe) che hanno storicamente identificato l’entroterra fra il lago e il Baldo. La beva è favorita dall’esilità di corpo (11,5° di alcol appena: mica i muscoli iperconcentrati che sembrano una costante irrinunciabile del mondo enoico), sorretta da una nervosa e giovanile freschezza.

Insomma: è il tipico vino “da tutto pasto”. Da bevuta spensierata. Quello che accompagna la tavola senza alzare la voce. Da tòcco di pan biscotto con la soppressa casalìna. Da mensa quotidiana, mica da degustazione. Lo vedo col veronese bollito misto co la pearà. Ma anche e soprattutto con la cucina gardesana di pesce di lago. Me lo sono segnato: provarlo col risotto con la tinca. Alla prima occasione.

giovedì 22 settembre 2005

La Froscà in verticale: che carattere quel Soave

Angelo Peretti
Ah, quel bianco del ’90! Ormai i miei dodici lettori (quasi metà dei venticinque che diceva d’avere Manzoni: siamo a buon punto) lo sanno che mi piacciono i bianchi che sfidano il tempo ed anzi vengono esaltati dai lunghi affinamenti. Be’, ne ho incontrato qualcuno a Monteforte d’Alpone, terra veronese, colline soavesi. M’hanno invitato a stare al tavolo con Sandro Gini per una verticale – cosa rara – del suo Soave Classico La Froscà, uno dei vini più importanti, giustamente, dell’area. Di scena sei annate: 2004, ultima uscita, densa di promesse, e poi 2002, 1999, ‘97, ‘90 e ‘88. Mica male. Anzi: imperdibile. Con più d’un gioiello in bottiglia. Primo fra tutti, a mio parere. quel sorprendente vino del ’90, stagione fantastica. Ma ne parlo più avanti. Intanto, dico dov’eravamo e ospiti di chi. Organizzava la condotta Slow Food di Soave e si era dentro al palazzo vescovile, reso disponibile dall’amministrazione comunale: bella struttura, che si spera di vedere in futuro ancor meglio valorizzata.
Ora, la Froscà, intesa come collina, vigna. Esposta a sud est, ha sole sin dalla prima mattina e resta meno assolata nelle torride ore estive del pomeriggio. Così le maturazioni sono regolari. In più, è protetta dalle correnti fredde. In alto, tufo basaltico scuro, più sotto, tufi di diverse coloritura e in mezzo una fascia calcarea. Le vigne – in gran prevalenza garganega di vari cloni, con qualche ceppo di trebbiano di Soave – sono vecchie di cinquanta, a volte settant’anni e più. Ecco le matrici della complessità.
La prima annata in cui le garganeghe della Froscà vennero vinificate da sole fu l’85. Nasceva il crû, uno dei primi della zona. A quel tempo, il Soave era ancora vino sputtanato da anni di cisterna. Il bianco dei Gini piaceva, ma i ristoratori chiedevano di togliere la denominazione dall’etichetta. Loro, duri, a resistere: han fatto bene, e oggi anche grazie a queste resistenze il Soave è tornato a essere bianco apprezzato. Com’è nelle sue corde e nella sua storia.
Le sei annate. Dicendo che il vino fa acciaio e, da qualche anno, minima parte di legno, per maturarlo prima. Le vendemmie le ha selezionate Sandro Gini dopo personali assaggi. Con l’incognita, ovvia, della tenuta dei tappi, gran cruccio per chi ami vini invecchiati.

Soave Classico La Froscà 2004
L’ultimo nato. In bottiglia da due mesi appena. Legno ancora un po’ sopra le righe, carattere tuttora non perfettamente composto, ma dentro c’è tutto il valore di un’annata da incorniciare: quella del 2004 a Soave e Monteforte sarà una vendemmia da ricordare, fantastica. Spiccati profumi varietali, garganega a tutto tondo. Solide note fruttate si fondono con vivide memorie di fiori macerati. Cenni di mandorla. Bocca rotonda. C’è corpo, c’è freschezza. Quanto serve a promettere grand’evoluzione. Bel vino, che potrà dare soddisfazioni per anni. Per me, già ora 89-90/100.

Soave Classico La Froscà 2002
Quella del 2002 fu ovunque annata critica: piogge continue, dove non era giunta la grandine a portar via tutto. La scontrosità della vendemmia è tradotta nel vino, che è sì complesso – e molto - sotto il profilo aromatico, ma un po’ velato d’uve dalla maturazione problematica estratte a fondo. Comunque di gran personalità, atipico nella sequenza delle sei bottiglie. Naso varietale, frutto e fiori bianchi, erbe officinali, mentuccia, erbaspagna. La bocca conferma la complessità. C’è frutto surmaturo e una speziatura avvolgente di noce moscata e pepe di Sichuan. Ha lunghezza, ma pecca un po’ - confermo - in pulizia. Chissà come potrà evolvere. Ora, a mio avviso, 86/100, che non è poco davvero.

Soave Classico La Froscà 1999
Fu annata fresca, ma buona. Buonissimo è il vino. Naso decisamente improntato alla mineralità, e perdoni Masnaghetti. Che c’entra? C’entra, ché nell’ultimo numero della sua felicemente rinata rivista Enogea (la ricevete per posta abbonandovi: scrivete a almasnag@tin.it , vale la pena) ironizza sulla nuova mania collettiva: qualche anno fa un vino doveva per forza esprimere il frutto, mentre adesso dev’essere, appunto, minerale. Scrive: «Se volete quindi fare un complimento a un produttore o a un amico che ha stappato una bottiglia per voi, tirate fuori il ‘minerale’ al momento giusto (non un sasso, cosa avete capito!) e vi sarà eternamente riconoscente». Be’, nella Froscà ’99 la mineralità c’è tutta per davvero: grafite, pietra focaia in abbondanza, ché è così che nelle annate giuste s’esprimono nel vino le terre vulcaniche dei colli di Monteforte. Sotto, c’è il frutto della garganega a piena maturazione, ben delineato. La bocca è in perfetta corrispondenza. Gran corpo, bell’equilibrio. Vino che si conferma nel tempo (fu tre bicchieri della guida Gambero Rosso – Slow Food). Vérghene (averne in cantina, intendo). A mio parere, 91/100.

Soave Classico la Froscà 1997
Ahimè, il tappo qui non aveva tenuto. Almeno sulla bottiglia del mio tavolo. Naso sporchetto di legno secco, tracce ossidativa, bocca che asciuga. In mezzo, per pochi secondi, la garganega, ben definita, ma è solo un flash. Ho assaggiato al volo un bicchiere d’un altro tavolo, ed era cosa ben diversa, col frutto grasso e ancora una bella freschezza e una beva d’appagante lunghezza. Ma un sorso e via a fine degustazione non mi fa esprimere giudizio. Semmai il rimpianto (è buona annata).

Soave Classico La Froscà 1990
Che il ’90 sia stata un po’ dovunque una gran bella annata è cosa nota, ma la Froscà stupisce, affascina, commuove. Per giovinezza. Non avessi visto la bottiglia stappata lì davanti, difficilmente avrei pensato foss’un bianco di quindici anni, e mai – l’hanno ammesso – c’avrebbero giurato gli altri presenti ai tavoli. Il naso, sì, è ovviamente subito chiuso, magari un po’ evoluto, ma sfoggia pian piano spezie finissime, fieno secco, cedro candito, vene sottili di minerale. Stessa progressione sul palato, sorretto da un’invidiabile freschezza. Poi giungono la nocciola appena colta, i fiori bianchi. Le poche bottiglie ancora in cantina potranno avere ancora lunga vita. Un fuoriclasse. 93/100.

Soave Classico La Froscà 1988
Quarta annata nella storia della Froscà (la prima, l’ho detto, fu l’85). Naso evoluto (ovvio!), con tanta nocciola e cenni di fiore essiccato. Bocca però grassa, corposa, ricca. Frutta secca, spezie in rilievo (noce moscata, soprattutto, come nel 2002). Frutto dolce, rotondo, ancora succoso. Forse non avrà ancora molta vita, ma così com’è adesso dà soddisfazione. Dice Sandro Gini che ne aveva aperto una bottiglia qualche giorno prima e s’era dimostrata meglio del ’90. Complimenti. Questa, comunque, 87/100.

Per finire. La Froscà ha dato gran prova di sé. S’è dimostrata quel che sappiamo: bellissima espressione del Soave, uno dei benchmark del territorio, uno di quei capisaldi cui si deve far riferimento quando si voglia capire il bianco soavese. E il Soave s’è dimostrato quel che da anni credo: bianco che nelle migliori espressioni può sfidare gli anni. Peccato sia così difficile trovare annate vecchie: pochi produttori conservano in Italia loro «archivi» di vino, i ristoranti neanche a parlarne (in fondo li capisco, ché molti clienti sarebbero contenti di trovare già in tavola l’annata ancora da vendemmiare, tant’è la mania del bianco giovane). Qualcosa sta cambiando, però: che si diventi adulti?

venerdì 9 settembre 2005

Vendemmia del secolo? Ma per piacere...

Angelo Peretti
Non ne posso più. Amici, conoscenti, gente incontrata in quest’e quella degustazione, mi fanno la stessa domanda: «È vero che il 2005 è un’annata eccezionale per il vino?». E cosa volete che ne sappia io, visto che da qui ad avere il primo vino mancano ancora mesi, e per quelli più importanti ci vuole una vita. Tutto perché telegiornali, quotidiani, siti on line e chi più ne ha più ne metta hanno diffuso festosi la notizia: «La vendemmia 2005 sarà di grande qualità». Come l’anno scorso e l’anno prima (e il caldo torrido che aveva cotto l’uva in vigna?) e l’anno prima ancora (e le grandinate del 2002?). Intanto, neppure un grappolo era ancora stato staccato dalla vigna. Evidentemente, c’è chi ha la sfera di cristallo. Così è la solita storia: prima che si cominci a raccogliere, c’è chi annuncia ai quattro venti come sarà il vino della nuova annata. Che per forza sarà straordinaria, la migliore del secolo. Ma per piacere!
Capisco che da più parti, nel mondo della produzione, ci sia l’interesse a cercare di tener su il prezzo delle uve, soprattutto in anni di magra come questi ultimi. Però non è creando false aspettative che si fa il bene del vignaiolo. Anzi: spesso capita il contrario. Perché se qualcuno predica che l’annata tale sarà strepitosa, poi il consumatore - e prima di lui il grande buyer - non sarà disposto ad accettare dei vini «soltanto» buoni. E se verrà (in tanti casi, inevitabilmente) disilluso, abbandonerà quel vino, quella doc. Così alla fine a rimetterci sarà Pantalone, il contadino, che l’anno dopo vedrà il prezzo delle sue uve (magari stavolta buonissime) cadere ancora più in basso.
Vedo adesso anch’io uno dei tanti comunicati del genere giunti nella mia casella email. Dice, dopo l’immancabile annuncio di eccezionalità dell’attesa vendemmia 2005, che «la qualità sarà tra le migliori degli ultimi anni e potrà sicuramente superare quella del 2001, con diffuse punte di eccellenza come nel 1997». Bene: a questi signori vorrei domandare la prossima combinazione vincente del Superenalotto. La dovrebbero sapere semplicemente guardando una ricevitoria, se dando uno sguardo ai vigneti prima della vendemmia riescono non solo a spiegarmi che il vino sarò buono, ma addirittura a far confronti con le bottiglie di altre annate. E io che pensavo che per valutare un vino occorresse assaggiarlo. Illuso: basta un’occhiata alla vigna fra agosto e settembre. E se poi piove a dirotto? E intanto piove. Se grandina? Intanto qui e là grandina. Se arriva il marciume? E qui e là, guarda caso, è arrivato.
Se, se, se: sono tante le variabili che determinano l’evoluzione di un’annata dopo aver semplicemente «pesato» la quantità d’uva sulla vigna. Ma i profeti dell’annata questo fanno: tanta uva uguale annata ottima, un po’ meno uva uguale annata straordinaria. Ripeto: ma per piacere!
Che poi, sia chiaro, mica voglio dire che sarà un'annata da buttare. Difficile, certo. Ma è presto per trarre giudizi.

sabato 27 agosto 2005

Fate largo al nuovo Groppello

Angelo Peretti
Che dire del Groppello? Quasi sconosciuto fuori dai luoghi d’origine, questo rosso appartiene totalmente al panorama d’esperienza della riva occidentale del Garda, quella lombarda, bresciana. Con lo spiedo, forma un sodalizio che è culturale prima ancora che gastronomico. Perché l’uno e l’altro, il vino e il cibo, hanno in sé un’impronta di rusticità e di selvaticità inusuali quasi per l’area. Probabilmente ultimo retaggio barbarico, dei tempi in cui la caccia era prima di tutto ostentazione di potere.
Ecco, è forse il sapere un po’ sempre di selvatico una delle prerogative vincenti del Groppello in questi anni che seguono la moda dei rossi morbidi e concentrati, quasi dolci. Perché è vero che questo rosso rivierasco sa di piccolo frutto, di fragola in particolare, ma non perde mai comunque la sua vena di vegetalità, quasi di pampino spezzato, e di mineralità, che è data dai terreni, depositati e poi rimestati dai ghiacciai in cerchi concentrici di morene, o dai depositi alluvionali lasciati dai torrenti che tagliano verticalmente l’anfiteatro naturale della Valtenesi.
Il variare dei suoli e dell’altimetria, e quindi del microclima, inducono diversità nel vino, quasi impercettibili al profano, eppure tipicizzanti, che meriterebbero d’essere davvero esaltate dal lavoro in vigna e in cantina.
Ora, quali provare di Groppelli per capirne le potenzialità? Darò tre consigli. Vini che hanno spiccata personalità. E ambizione.
Il primo è il rosso di punta del bastian contrario della riva lombarda del lago (pensare che è ancora fedele alla vecchia doc Riviera del Garda Bresciano: mai passato alla nuova denominazione del Garda Classico). Il Groppello in questione è il Sulèr 2001 di Gianfranco Comincioli, sindaco, tra l’altro, della sua Puegnago. Sulle orme di papà Battista, che la tecnica l’aveva appresa in Valpolicella subito dopo la guerra, Gianfranco raccoglie tardivamente l’uva di groppello e poi la fa appassire per amplificarne la concentrazione. Ne nasce un vino riottoso a concedersi nel bicchiere: serve dargli ossigeno, tanto, perché si apra. Ma è vino longevo, che ha bisogno di anni per dare il meglio di sé: il 2001, oggi, è un fanciullino. Discusso. Ma caposcuola.
Il secondo Groppello, ancora del 2001, è la Riserva (la doc è quella del Garda Classico) del Vigneto Arzane, dei Pasini di Puegnago. Vino d’eleganza considerevole, ormai pronto da bere. Fragola e velluto: bella interpretazione. Più lo bevo, e più mi piace. L’ho potuto provare varie volte nel corso dell’ultimo anno: crescita costante con l’affinamento. L'armonia del Groppello.
L’altro, il terzo, è un 2003, il Maìm (un Garda Classico Groppello) di Imer e Mattia Vezzola: Costaripa, si chiama l’azienda. Mattia è uomo dello spumante (è enologo e general manager della Bellavista, in Franciacorta). Imer ama il groppello, il vitigno. Qualche giorno fa, incontrandolo, gli ho chiesto come andasse la stagione. «Il groppello è sano» mi ha risposto, immediatamente. Trascurando tutto il resto. Ebbene, il Maìm 2003 è buonissimo. Per nulla succube della calura di quell’annata, che diede uve surmature e vini di nessuna freschezza. Questo è succoso. Ne bevi un bicchiere e te ne vuoi subito versare un altro. La beva appagante.

sabato 30 luglio 2005

Letrari, il mezzosangue fra Trento e Verona

Angelo Peretti
Leonello Letrari si definisce un «mezzosangue». Perché è nato in terra trentina, ma al confine con Verona: a Borghetto, comune di Avio, Valdadige, un tiro di schioppo da Brentino Belluno. Poi perché veronese lo è un po’ per via della nonna paterna, che era «taliàna» della Lessinia. E veronese è stato anche il suo apprendistato vinicolo, le basi da cui s’è formato come produttore. E che produttore: uno dei grandi rinnovatori dell’enologia nazionale, uno dei padri della spumantistica trentina.
I Letrari oggi hanno cantina a Rovereto. Lui, Leonello, ha chiesto a Nereo Pederzolli, giornalista della sede Rai di Trento, cantore appassionato e passionale della «trentinità» enogastronomica, di raccontare in un libro le sue «prime» cinquantacinque vendemmie. «Viti e vini di una vita» s’intitola il volume: centotrenta pagine di ricordi. La prima vendemmia è quella del 1950: Nello, come lo chiamano gli amici, è fresco di studi all’istituto agrario di San Michele all’Adige. Presta servizio quell’anno nei vigneti del marchese Anselmo Guerrieri Gonzaga, alla tenuta San Leonardo di Avio, uno dei miti del vino italiano, allora come adesso. Poi, la voglia di misurarsi in cantina: eccolo ogni lunedì mattina in piazza Erbe, a Verona, per cercar occupazione da enologo. Il primo lavoro glielo dà un tal Melandri, che aveva affittato la cantina Poggi, ad Affi: 60 mila lire di stipendio «una cifra impensabile, quasi pazzesca». Dopo Affi, nuovo lavoro: a Negrar, alla casa vinicola Sartori, a confrontarsi coi vini di Valpolicella. Quindi il ritorno in Trentino, alla Bossi Fedrigotti, dove nel ’61 «inventa» il Fojaneghe rosso, primo taglio bordolese della provincia. Successivamente, ecco l’avventura spumantistica: fonda l’Equipe 5, per dimostrare che non di solo Ferrari vive Trento, ed è un altro successo. Infine, l’azienda di famiglia: Letrari, appunto. Oggi, un simbolo del vino trentino. «È semplicemente un uomo che ha capito come coniugare vite con vita» dice Pederzolli parlando di Nello Letrari. Mica cosa da poco.

sabato 30 aprile 2005

Un giovane Lugana di dieci anni

Angelo Peretti
Il vocabolario spiega che si chiama archetipo il modello iniziale di qualche idea. Ebbene, il Brolettino è l'archetipo del Lugana affinato nel legno. In barrique addirittura. Nato in giorni in cui mettere i bianchi in botte piccola sembrava quasi fantascienza, se non eresia. Quando uscì, fu il classico macigno gettato nello stagno: un impatto sconvolgente sul tranquillo tran tran della produzione luganista, ma anche la definitiva presa di coscienza delle potenzialità del trebbiano coltivato sulle argille della riviera gardesana. Lo produce l'azienda agricola Cà dei Frati, un paio di chilometri di là del confine fra il Veronese e il Bresciano, nel cuore della Lugana. È qui che hanno vigne e cantina i fratelli Igino, Gianfranco e Annamaria Dal Cero, gli inventori del Brolettino.
Ne ho potuto provare (e bere) tre diverse annate, insieme. È stata la dimostrazione, l'ennesima, di come i bianchi importanti sappiano invecchiare bene. Di come il Lugana sia anzi vino che nelle sue migliori espressione sa accrescere grazia e bevibilità dopo qualche anno dalla vendemmia.
Prima bottiglia stappata: il 1994. Sono passati dieci anni, eppure il Brolettino '94 è ancora scattante, giovanile. Il colore resta il classico paglierino coi suoi lampi verdi. Il legno è ben fuso nella struttura: non s'avverte più memoria distinta del passaggio in carato. Le note minerali dei terreni argillosi e le venature floreali del vitigno rendono salda la prova olfattiva. Il bocca è nervoso, d'agile beva, magari solo un po' esile. Ma niente traccia di stanchezza.
Poi è toccato al Brolettino '96, annata bianchista in senso assoluto. Il colore è giallo carico. Il naso coglie vibranti sensazioni minerali, con la grafite a tutto tondo. In bocca è grasso, cremoso, opulente quasi. Eppure l'impressione è che stavolta il legno non abbia giovato, non abbia insomma portato nulla d'aggiuntivo alla stagione e all'uva.
Terza bottiglia: il Brolettino '97. E qui ecco gli applausi a scen'aperta. Perché questo Lugana è giovanilissimo, vibrante. I sette anni d'età non glieli daresti proprio. Mineralità e vegetalità si rincorrono nei profumi. In bocca si fondono agilità e corpo. Vino di grande bevibilità. Tracce di legno il palato non le ritrova neppure. Bell'esempio di come la botte piccola possa essere usata con intelligenza sui vini bianchi. E di come il lavoro in vigna, la scelta puntigliosa dei frutti sia essenziale: ogni anno i Dal Cero fanno più vendemmia sul medesimo vigneto, selezionando grappolo su grappolo. Da qui è nato questo '97, Lugana che ha davanti ancora lunga vita.
Complimenti.

mercoledì 2 marzo 2005

Sorpresa: c'è olio in Alto Adige

Angelo Peretti
Non conosco personalmente Josephus Mayr, né ho mai visto la sua cantina e le sue vigne. Spero di colmare presto la lacuna. Bolzano non è in capo al mondo. Ho bevuto alcuni dei suoi vini. Spesso emozionanti. Quest'anno "Vini d'Italia" ha dato i tre bicchieri, ancora una volta, al suo Lagrein Scuro Riserva, grande espressione del territorio altoatesino. Ma non è del Mayr produttore di vini che voglio scrivere. È d'un altro lato della poliedrica versatilità di quest'uomo appassionato della terra sudtirolese. Voglio raccontare della sua produzione d'olio.

Piantare olivi alle porte di Bolzano può sembrare una follia. Lui l'ha fatto, e grazie ai buoni uffici degli amici di Slow Food di Bolzano ho potuto assaggiarne l'extravergine. Una delle pochissime bottiglie. Sapevo bene, ho detto, della grande dei vini di Mayr, da sempre tra i più affascinanti della produzione altoatesina, ma non avrei pensato di trovare interessante anche un olio d'un territorio tanto lontano della latitudini dell'olivicoltura.

Già, il suo extravergine mi è piaciuto. Per carità: non è un capolavoro assoluto, e d'altra parte non ci sono probabilmente nella zona le condizioni per ottenere oli di maggior spessore. Non c'è ovviamente - e non ci può essere - la vegetalità dirompente degli oli del Sud, non c'è la potenza fenolica di quelli della Sardegna, non c'è la grazia fruttata degli oli della Liguria. Ma è un extravergine ben fatto. Anzi, un olio maliziosamente intrigante.

Sono stupito. Non solo perché non m'aspettavo olio dall'Alto Adige. Ma soprattutto perché quello che ho provato è un olio piacevolmente aggraziato.
Il colore è d'un giallo che ricorda i pistilli della pratolina, i petali del ranuncolo.

Il naso coglie sentori di oliva matura e di fiori gialli, su cui si innestano cenni di mela golden e sottilissime speziature, direi di pepe bianco. Sul fondo, le esili note vegetali si aprono gradualmente la strada, proponendo dapprima vaghe percezioni di fieno e poi leggerissimi sentori di frasca appena spezzata.
In bocca, la conduzione è sostanzialmente improntata sulla dolcezza, ma sul fondo è presente, ancorché appena percettibile, la venatura amara. L'impressione immediata è quella del mix di frutta secca: la mandorla, la nocciola, il pistacchio. Emerge alla distanza anche la memoria del mallo fresco di noce. Timidamente, fa capolino per un attimo un accenno di piccantezza, che va subito però a svanire.

Il bagaglio aromatico non è enorme, ma ha finezza. La fluidità è buona. Stupisce la lunghezza, con la frutta secca che per parecchio non accenna a cadere.

Forse si potrebbe dare maggior espressione alla nota vegetale. Magari lavorando con più coraggio sui tempi di raccolta (e di frangitura?).
Comunque, complimenti Josephus.