venerdì 18 novembre 2005

E sul Garda la Tav si mangerà le vigne

Angelo Peretti
Trentamila secondo le fonti ufficiali, cinquantamila secondo gli organizzatori. Quanti fossero non è poi così importante. Quel che conta è che una valle intera, quella di Susa, s’è mossa, unita, compatta, per difendere il proprio territorio. Contro un mostro vorace. La Tav. Il treno ad alta velocità. Che i politici ritengono essenziale, ma la gente no. Così, eccoli qua, oltre due chilometri e mezzo di corteo. Pacifico. Contro i soprusi che divorano la nostra vita quotidiana.

Toccherà farle fra un po’ anche sul Garda le barricate. Temo che finirà così. Perché la Tav vuol mangiar tutto anche qui. Vuol distruggere la Lugana, annientarla. Non servono appelli al buon senso, delibere comunali, prese di posizione delle categorie economiche. Niente di niente. Il progetto va avanti. Toccherà far le barricate per difendere dalla distruzione uno dei più interessanti terroir bianchisti italiani. Per salvare uno dei più longevi vini bianchi nazionali.

Cosa stia per succedere in Lugana l’ho spiegato qualche mese fa sul mensile di Slow Food. Siccome non tutti e dodici i miei lettori sono iscritti all’associazione della chiocciolina, ripropongo l’articolo qui di seguito. S’intitolava «Alta insensibilità».



Alta insensibilità.


Il progresso, sempre la solita storia. Fermarlo non si può. Neppure discuterne. Avanti tutta, in velocità. Anzi, ad alta velocità, come il supertreno che dovrà unire la vecchia Europa a quella nuova, sul Corridoio 5, da Lione a Kiev. Costi quel che costi. E tra i costi della linea ad alta velocità che si va finendo di progettare nella tratta fra Milano e Verona rischiano d’esserci anche una terra, un vitigno e un vino che portano tutt’e tre lo stesso nome: Lugana.

La zona è bella e turistica. Sud del lago di Garda. Un fazzoletto un po’ lombardo e un po’ veneto, tra Desenzano, Lonato, Pozzolengo e Peschiera. In mezzo c’è Sirmione, «perla delle isole e delle penisole», per dirla con Catullo, che ci abitava un paio di migliaia d’anni fa. Una piana fra la riva del Benaco, il Mincio, le colline moreniche mantovane e la Valtenesi. In macchina, la si attraversa in dieci minuti, lungo l’autostrada che la sfregia nel mezzo come una cicatrice. Qui c’era una palude boscosa, la silva Lucana. Gli alberi vennero abbattuti per ragioni militari: servivano ai Visconti per deviare il Mincio e allagare Mantova, che resisteva.

La bonifica cominciò in età veneziana. Restano le argille: durissime, piene di crepe quando c’è il sole, simili a sabbie mobili quando piove. Sopra ci sono le vigne di trebbiano di Lugana, varietà autoctona, che ne trae tipica mineralità quasi d’idrocarburi. Il vino è in continua crescita qualitativa.

I tecnici sono categorici: per far passare le rotaie del supertreno serve cavar via 70 ettari di vigneto, il 10% di tutto quel che esiste in Lugana. Un’altra manciata d’ettari di vigna dovrà lasciar posto al deposito di macchinari e combustibili. Ottanta ettari eliminati su 700 totali. Un’enormità. In più, scartabellando, si è scoperto che, oltre alla linea ferroviaria, s’insedieranno alcuni enormi cantieri. Uno – 85 000 metri quadri – è a ridosso dell’acquedotto di Peschiera. Nel progetto originale queste ferite non sono segnate. Le vedi sulle planimetrie che possono avere, su richiesta specifica, solo i comuni. Con questi, si arriva a far fuori il 22% dei vigneti totali del Lugana. Un disastro.

I fautori dell’opera non si scompongono. Lo studio d’impatto ambientale ha avanzato una curiosa teoria salvifica per le grandi aree a cantiere: quella che, asportando l’attuale terreno coltivato, conservandolo a margine e riposizionandolo a lavori finiti per ripiantarci di nuovo le vigne, tutto tornerà come prima. In fondo, che c’entrano col vino milioni di anni di lavorio dei mari che depositarono limi, dei ghiacciai che costruirono morene, delle piene lacustri che modellarono la piana? Che importa di secoli d’interazione fra suolo, clima, vigna, uomo, ambiente? Il terroir lo puoi smontare e rimontare a piacimento: così pensa la nuova scienza. Piuttosto, si potrebbe immaginare di piantar vigne su altri terreni della Lugana, fin qui scampati alle lottizzazioni, ma pure lì il treno fa scempio, pretendendo il tributo di ben 100 ettari anche di quest’area potenzialmente coltivabile.

Con le vigne, se ne andrà per sempre un’altra parte della memoria dei luoghi. La linea di alta capacità – è questa la definizione canonica – chiederà il sacrificio di alcune cascine, che verranno demolite. Dieci solo nel comune di Desenzano. A Pozzolengo sarà abbattuto un cascinale di valore storico e architettonico. Risale al Seicento. Le travi che reggono il solaio sono enormi: forse alberi strappati all’antica selva. Restano perfettamente integre le pietre intagliate che servivano a delimitare gli spazi delle vacche nelle stalle: sono in marmo rosso di Verona, ultime testimonianze di una civiltà contadina travolta dal boom del turismo, dall’avanzata dell’urbanizzazione residenziale, dal proliferare dei capannoni e dei centri commerciali.

Possibile non ci sia una soluzione alternativa? Ci hanno provato in molti a spiegare che sì, un’altra possibilità c’è: spostare la linea di qualche centinaio di metri e farla passare sotto le colline moreniche, in galleria. Ma fino a oggi la risposta è stata la stessa: no. Inutile persino votarsi ai santi. Il treno passerà accanto al Santuario del Frassino. La tradizione vuole che lì la Vergine sia apparsa a un vignaiolo, nel 1510. Nemmeno la Madonna ha potuto deviare il tracciato.

Inutili gli appelli del comitato che in Lugana e sulle vicine colline moreniche vorrebbe creare un parco. La richiesta di tutela dell’area ha ricevuto il sostegno dell’astronoma Margherita Hack, del poeta Andrea Zanzotto, dello scrittore Mario Rigoni Stern. Anche di Roberto Vecchioni, professione cantautore ed ex insegnante di liceo a Desenzano, lo stesso dov’era stato commissario d’esami Carducci. I posti, e il vino di Lugana, Vecchioni li conosce. Li ha descritti così: «Casali sparsi, vie di ciottoli, filari ininterrotti di alberi, macchie di ulivi, di rosmarino, roseti, querce storte e imponenti, locande che ti appaiono improvvisamente e ti siedi, bevi del Lugana freschissimo, chiacchieri, giochi, ti rialzi e ti si sperde lo sguardo fino a incontrare laggiù in mezzo al lago due vele innamorate che danzano in cerchio».

Inascoltato resta il monito delle associazioni di categoria. C’è un protocollo d’intesa firmato a Brescia e a Verona dall’Unione e dalla Confederazione Agricoltori e dalla Coldiretti. Vi si denuncia che «saranno gravissimi i danni all’economia delle aziende vitivinicole locali, al turismo in generale, ma soprattutto all’enoturismo e inevitabilmente all’immagine del Lugana». Si domanda di utilizzare la galleria. Lettera morta. Il Consorzio di Tutela del Lugana insiste nel documentare al ministero come la peculiarità di questo vino sia data dal suolo e dalle sue rare, uniche formazioni argillose d’epoca wurmiana, che insieme al clima e al vitigno «conferiscono al prodotto finale peculiarità organolettiche con caratteri assolutamente esclusivi e non ripetibili su terreni limitrofi o comunque diversi». Il problema è lì.

Non c’è dubbio: chi ama il vino e la biodiversità, fa il tifo per la galleria. Alzare un calice di Lugana può essere il segno della resistenza.

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