venerdì 31 marzo 2006

Discutendo di turismo e di gastronomia

Angelo Peretti
Mi sono trovato in bella compagnia e poco pubblico qualche manciata di giorni fa a discutere in una tavola rotonda se agricoltura ed enogastronomia siano un valore aggiunto per la promozione turistica del territorio. Eravamo a Pozzolengo, in quel pezzo di territorio Bresciano che confina col Veronese e il Mantovano. E quand’è stato il mio turno, mi son permesso di dire che al quesito – così com’era formulato - era possibile dare due risposte. La prima: certamente sì che l’agroalimentare e il mangiarbere possono costituire un valore aggiunto per un’offerta turistica. La seconda risposta era però: echissenefrega.

Detto così, può sembrar qualunquista e offensivo. Ma le intenzioni erano diverse. Nessun intendimento d’offesa perché, come ho detto, ero fra bella gente per davvero, amici appassionati. Nessuna tentazione qualunquista, poi, perché la doppia, secca risposta andava spiegata, come ho cercato di fare e cercherò ora di metter nero su bianco.

Sul fatto che pan&vino e cucina e quant’altra ci sia da mangiare e da bere facciano tendenza, be’, mi pare che sia così ovvio che più ovvio non si può. Basta accendere la scatoletta magica della tv e da una parte o dall’altra, a ogni ora del giorno e della notte, ci trovate un cuoco o presunto tale alla prese con pentole, piatti e frattaglie, magari con sculettante squinzia scosciata e tettuta a far da corredo.

Dunque, sì, il cibo può essere un elemento in più nell’offerta turistica d’un territorio. Ma, si badi, solo un elemento in più, un corollario utile ma non indispensabile. Gardaland non ha bisogno di wine & food per funzionare, e funziona benissimo. Ecco perché dico che se voglio costruire un’offerta turistica «convenzionale» per un certo luogo, non me ne frega granché del fatto che quel luogo abbia anche buone cose da bere e da mangiare. Semmai, è un di più.

Mai dimenticarselo, c’è una marea di gente che va in vacanza senza pensare a cibo e vino. Vuol divertirsi, punto e basta. Anche se poi, magari, non si diverte per niente e torna a casa più stressata di prima. Ma questa è faccenda da sociologi e psicologi e altri ologi a vostra libera scelta.

E poi, lasciamo stare il mito del genuino. Mica vero che è genuino solo quello che è di territorio. Anzi: dal punto di vista igienico i prodotti industriali sono spesso ipergenuini, al punto che dentr’alle confezioni non c’è traccia alcuna di vita. Tutto reso sterile, asettico. Cibo da gente in batteria. Ma cibo che viene scelto da tanti e tanti.

Sentite questa. Un paio di giorni fa, in treno, c’era nello scompartimento una giovane donna - direi sui trent’anni - che non ha smesso un attimo di parlare al telefonino. Così non ho potuto fare a meno di sentire. Un passaggio della telefonata fiume m’ha lasciato di stucco. Riporto testualmente, ché m’è rimasta in testa, cercando di evitar punteggiatura per rendere anche la sequenza a mitragliatrice della telefonista ferroviaria: «In stazione ho comprato un panino cattivissimo ne ho assaggiato un boccone ma l’ho sputato faceva schifo adesso ho una fame che ho proprio voglia di qualcosa di buono e appena arrivo vado da Mc Donald». Avete capito? Aveva voglia di qualcosa di buono, e così appena giunta a destinazione si tuffava al fast food. Beata donna...

Come dite? Che son fuori tema? Nossiggnori. Il tema è proprio questo: a gente come la lady che Trenitalia m’ha occasionalmente fatto seder vicino del cibo&vino non interessa niente, ma proprio niente. Vuole vacanze di plastica e cibo usa e getta, altroché. Con tanto di salse dolciastre. La conseguenza? Quella che il turismo «classico» può benissimo far senza l’enogastronomia. Se c’è anche quella, tutto grasso che cola.

Il problema è un altro. Il turismo è industria e l’industria vuole specializzazione. Allora non devo pensare al turismo e basta. Devo pensare a «quale» turismo. Soprattutto se sono in un’area che il «suo» turismo lo deve ancora inventare, com’è il caso di Pozzolengo. Ed un’opzione possibile, in questo caso, è quella del turismo enogastronomico. Turismo specializzato. Esigente. Che non accetta mezze misure.

Allora, il quesito del convegno è da riformulare. Invece di dibattere se agricoltura ed enogastronomia siano valori aggiunti per la promozione turistica del territorio, occorre chiedersi se sia il caso – e come – di costruire un’offerta turistica che abbia al proprio centro il prodotto agroalimentare di pregio e la cucina di territorio. Questo è il nodo. Questa la scelta. Che fai ora o mai più.

Non c’è niente da fare: o il prodotto agroalimentare di pregio è al centro – lo ripeto e lo sottolineo - dell’offerta di turismo enogastronomico, o non c’è maniera alcuna di farcela.

L’enogastronomo non sceglie Gardaland per poi andare a mangiare in trattoria. Sceglie invece la visita ai produttori delle materie pregiate del territorio, la sosta al wine bar, la cena al ristorante, e, visto che è in zona, può anche pensare di fare un salto a Gardaland o al museo o nella tal chiesetta dagli affreschi trecenteschi. Ma, sia chiaro, il turista del cibo e del vino si muove per il cibo e per il vino: tutto il resto è corollario, è di più. Avete visto che la prospettiva è rovesciata?

Le conseguenze sono facili da intuire. Al generalismo va sostituita la specializzazione. E per far questo occorre che il piatto di territorio e il prodotto di pregio siano profeti in patria. Che tutti li conoscano nella zona d’origine. Che tutto nell’area parli d’enogastronomia. E quando dico tutto, intendo tutto (cartelli, pubblicistica, strade) e tutti. Intendo tutta la gente del luogo. Il benzinaio, il postino, il bancario, l’impiegato dell’anagrafe devono essere i testimonial del valore dell’offerta enogastronomica. E in questo vanno educati: la prima promozione la si deve fare verso di loro, facendoli conoscere ‘sti benedetti valori agroalimentari del posto.

Guai se il turista ghiottone arriva in un certo paese in cerca d’un prodotto di pregio e fermandosi a far benzina trova il gestore che di quel prodotto non ha mai neanche sentito parlare. Gira la macchina e se ne va: la fiducia è già crollata. Andate a vedere in Alsazia: tutto giro attorno alla strada dei vini, altroché. E questo rende davvero «credibile» l’offerta turistica incentrata sulla seduzione alimentare.

Coraggio, dunque, amministratori dei centri emergenti: fate la scelta, orientate le vostre località e le vostre genti al nuovo turismo dell’enogastronomia. Ché è turismo fatto da chi è disposto a spendere e ad apprezzare il piacere della vita. È bella gente, come quella che avevo accanto al convegno di Pozzolengo.

Coraggio, ripeto, ché è il tempo delle scelte. Anche urbanistiche, anche edilizie. Se davvero credete nel vostro primato agroalimentare, favorite l’adeguamento delle cantine, dei caseifici, dei forni artigiani, create i posti letto e le infrastrutture, ma salvate anche le aree agricole da cui si traggono beni preziosi, tutelate le biodiversità che amplificano il valore del vostro patrimonio. Questa sì che è qualità della vita.

Il turista? Quello arriva, se qualità c’è davvero.

venerdì 24 marzo 2006

Quando il Nino raccontò la vera storia dell’Amarone

Angelo Peretti
Da sole varrebbero l’acquisto. Intendo le tre paginette di Enogea sulle quali Alessandro Masnaghetti riprende un’intervista che nel ’96 – dieci anni fa, e sembra ieri – fece a un grande vecchio del vino valpolicellese: Nino Franceschetti. Da leggere e rileggere, quelle parole. Da metabolizzare. Attualissime.
Passo indietro.
Chi sia Alessandro Masnaghetti direi che è abbastanza noto a chi si occupa di vino. Ma siccome il fantasma di Carneade è sempre lì pronto a colpire – e non me ne voglia Masnaghetti – dirò che è uno che scrive di vino, oppure, per darmi più tono, un wine writer. Aggiungo: uno dei più bravi, a mio avviso. Ha curato in passato la prima edizione della guida dei vini dell’Espresso. Avventura subito finita. Dopo un periodo sabbatico ha ripreso a pubblicare la sua newsletter bimestrale: Enogea, appunto, che aveva prima accantonato. E che – avviso - in edicola non troverete: se la volete, dovete abbonarvi. Senza pensare di vederci sopra foto a colori e carta patinata: poche pagine formato A4, bianch’e nero, immaginette formato francobollo, grafica essenziale, linguaggio diretto, niente pubblicità (ma proprio niente niente).
In questi giorni agli aficionados masnaghettiani è arrivato il quinto numero della nuova serie d’Enogea. Con una rubrica che s’è aggiunta: quella dell’archivio. Dov’è ripresa l’intervista del ’96: allora era uscita su Ex Vinis, la rivista di Veronelli, ché Masnaghetti ha formazione veronelliana.
Ora, mi tocca dire di Franceschetti. Ma l’imbarazzo me lo toglie l’incipit del pezzo uscito ora d’archivio: «Nato nella Tenuta di santa Sofia e cresciuto enologicamente nelle sue cantine – scrive Masnaghetti -, Nino Franceschetti ha trascorso la sua maturità enologica nelle cantine Masi». Di fatto, è uno degli «inventori» del «nuovo» Valpolicella di Ripasso e, soprattutto, dell’Amarone, quello moderno. Il primo, forse, a dare vera commercializzazione a questo vino che oggi è trendy e ieri era un’anomalia enoica: era la fine degli anni Cinquanta. Ed ha lasciato, Franceschetti, segno ovunque, in terra di Valpolicella. Un caposcuola, insomma. Riconosciuto. Profeta in patria: vivaddìo, questa sì che è una medaglia al valore.
Che diceva, dunque, il Nino, dieci anni fa? Diceva di Ripasso e di Amarone. Con lucidità e chiarezza. Fuor di leggenda, di falso mito, di balla, come oggi se ne leggono, ahinoi, tante, sulla presunta storia rossista di Valpolicella. Ne faccio un estratto, della saggezza di Franceschetti, una sorta di zibaldone.
Argomento uno: i vini «storici» della Valpolicella. «Fino a circa 40 anni fa – diceva nel ’96 il Nino a Masnaghetti -, esistevano quattro categorie merceologiche fondamentali il cui uso era diffuso soprattutto tra le gente comune. Ed erano: il “vino dolce”, ovvero il Recioto, il “mezzo Recioto”, che era un vino meno dolce del Recioto, il “vino con vena” (meno dolce del mezzo Recioto) e infine il “vino amaro”, cioè il vino secco, senza residuo zuccherino (l’aggettivo “secco” veniva però usato solo nelle famiglie nobiliari). Tra queste categorie c’erano sostanziali differenze di prezzo: «A grandi linee possiamo dire – chiarisce Franceschetti – che se il vino amaro valeva una lira, il vino con vena valeva 3 lire e il Recioto ne valeva 10. Quindi puoi ben capire perché un Recioto diventato secco fosse considerato a quei tempi come una vera e propria disgrazia».
Tema due: il Ripasso storico, ossia la rifermentazione del Valpolicella sulle vinacce del Recioto (oggi s’usano quelle dell’Amarone, e in parte anche le uve appassite). «Il ripasso, così come veniva condotto allora, permetteva – dice Franceschetti – di dare un residuo zuccherino ad un vino che altrimenti sarebbe stato secco». Tutto qui. Era la maniera, insomma, per prendere un vino che valeva commercialmente poco e innalzarlo alla categoria superiore, meglio remunerata perché un po’ più dolce.
Notizia terza: la nascita del Ripasso moderno. «Il ripasso come è inteso oggi – dice il Nino – credo di averlo inventato io per la prima volta verso la fine degli anni ’50. E per un motivo molto semplice. Finita la seconda guerra mondiale, con l’arrivo degli americani, tutti i gusti degli italiani cambiarono, a cominciare dalla predilezione per i vecchi liquori dolci che si usavano fino ad allora. In poco tempo quindi si passò dal gusto dolce al gusto secco e questo fece nascere l’idea di fare fermentare completamente il vino di ripasso in modo da ottenere un vino secco più strutturato e longevo di un Valpolicella normale».
Quarto indizio: la nascita del «vecchio» Amarone. In sede di travaso del Recioto, la parte più torbida del vino, quella che avrebbe rischiato di scatenare la rifermentazione, veniva messa da parte, in damigiana. E abbandonata a se stessa. «Questo vino con il tempo rifermentava – dice -, faceva un deposito duro come il cemento e alla fine diventava brillantissimo e secco. Aveva 16-17° di alcol e una grandissima struttura. Era così potente che ti dovevi attaccare al tavolo per poterlo bere. Da qui è nato il nome Amarone. Un amaro grande». Che veniva abitualmente detto Reciotò scapà, se non addirittura fernèt, come il liquore. Tant’è che lo si beveva a mo’ di digestivo, dopo le abbuffate natalizie o pasquali.
Episodio quinto. Il «nuovo» Amarone. «Era assurdo – sottolinea il Nino – che un grande vino come l’Amarone nascesse da un altro vino, e cioè dal Recioto. Occorreva che avesse un suo stile personale». E questo è successo, migliorando, soprattutto, l’appassimento delle uve, in modo da toglier di torno le muffe.
Sesta e ultima traccia: la tecnica. «Ho paura che si stia abusando della tecnica e si corra il rischio di arrivare ad una massificazione del prodotto». Lo diceva, Franceschetti – lo risottolineo, ribadisco, riannoto – nel ’96. E sosteneva: «Il vino deve piacere e soprattutto avere una personalità, un qualcosa che individua una zona e una mano. Il vino deve avere eleganza, mentre noi fino ad oggi abbiamo cercato di shockare la gente e non di conquistarla». Ullallà: che belle parole! Attuali, attualissime.
E poi ci sarebbero tant’altre cose da riprendere da quelle tre paginette. Ma allora si perderebbe il gusto della lettura completa, integrale. Che invece consiglio. Vivamente consiglio. Anche se per trovare Enogea bisogna abbonarsi. Dunque suggerisco: abbonatevi. Scrivete una mail a Masnaghetti. L’indirizzo è questo qui: almasnag@tin.it. Oppure mandategli un fax: 0546 40275. Se proprio non vi va di scrivere, telefonategli: 333 4310998. Ma fatelo, ché ne vale la pena. Fidatevi.

sabato 18 marzo 2006

Se il Raboso racconta del mare vicino

Angelo Peretti
M’è venuto spontaneo domandarlo: «Ma il mare quant’è distante?». Perché quei vini, bianchi e rossi che fossero, sembravano avere un filo che li univa, e il filo era quello del profumo iodato, quasi salmastro. Profumo di mare. «In linea d’aria sarà a venti chilometri» m’ha risposto Emanuela. Eccola lì, la spiegazione. La mia, almeno. Il terroir che prevale. Il mare che entra nella campagna. Per finire nei vini, nella bottiglia. Vini marini fatti in terraferma

Sono stato a visitare l’azienda agricola Tessère, che Emanuela Bincoletto conduce a Noventa di Piave, nel Veneziano. Terra piana, col fiume che si è fatto grosso e fluisce verdastro e pigro verso l’Adriatico, fra plaghe argillose, limose. Più sopra, nel Trevigiano, aveva incocciato anche in ciottoli e sassi e pietrame.

Area vocata? Dipende da quel che s’intende. Vigna qui se n’è allevata tanta, da secoli. Per farci vini di pronta beva e di nulla pretesa. Soltanto da poco c’è chi ha alzato la testa, mettendo nei campi il cuore e la mente. Cercando, in particolare, di tirar fuori carattere dai vitigni rossisti che nel tempo si sono meglio acclimatati. Un autoctono, il raboso. E un internazionale di già vetusta dimora in zona: il merlot, che qui arrivò sul finire dell’Ottocento, e se ne pronuncia il nome alla veneta, coll’accento sulla ò e con la t finale bene scandita, che finisce quasi per sembrar doppia in una regione che la doppia non sa neanche cosa sia: merlòtt, si dice, dunque.

Anche Emanuela fa raboso e merlot. E li fa bene. Un po’ di più il primo che il secondo, che pure sta però crescendo bene, coi nuovi vigneti che cominciano a fruttificare. Che poi, quando le piantava, queste vigne fitte fitte di merlot che stanno davanti alla cascina, la gente che passava la prendeva in giro: «Fémene, le pianta fasiói». Le barbatelle così ravvicinate sembravano piante di fagioli, là dove la vigna aveva invece avuto sempre grandi slarghi per trarne chili e chili e chili d’uva per pianta. Oggi però ti giro intorno e vedi che altri stanno piantando vigne fitte come fasiói. Altroché.

Emanuela le vigne le ha ripiantate da pochi anni. L’azienda ha preso a governala solo nel ’95, l’impianto è ben più tardo. Prima, era gestita da altri: si vinificava e si vendeva in cisterna. Poi, la svolta. Ora, i primi risultati veri, vini che hanno acquisito personalità. Che sono magari ancora adolescenti, ma già hanno l’impronta che si fa adulta. Alleva, dicevo, raboso e merlot, e poi anche un po’ di cabernet e di chardonnay, ma preferisco parlar dei primi due, che mi pare siano quelli che meglio s’esprimono e che più possono crescere.

Di Tessère avevo assaggiato in passato il Rebecca, vino anomalo molto. È un raboso passito. Esperimento inusitato in una zona dove il vitigno ha sempre dato rossi vinosi e asprigni, bicchieri da «ombra» conviviale al bar.

Come m’era sembrato, nelle passate prove, questo passito? Be’, m’aveva sconcertato. M’aveva riempito di dubbi. Indeciso, dopo più d’una prova, se fosse da godere o da rifuggire, da amare o da odiare. Che già è comunque esito interessante: far discutere è compito del vino che ha personalità. Ero curioso di riprovarlo. Di ritrovarlo. Di cercar di capirlo, e questo poteva succedere – se accadere doveva - solo là dove nasce.

Il Rebecca, e l’invito di Flavio Prà, enologo bravo per davvero, che a Tessère dà consulenza, m’hanno sospinto sul Piave. E ancora questo vino – stavolta nell’annata del 2002 - m’ha disorientato. Ché ha naso strano, mica proprio suadente, anzi, problematico assai, col frutto rosso minuto e la foglia di geranio e il peperone e il pepe, ma anche la carne secca e il caffè in polvere e il cacao. In fondo, ondate d’effluvi salmastri, aria marina, quasi da burrasca. Poi, la bocca, conferma la complessità, e i tannini e la freschezza sono entrambi di valore e compensano quasi gli zuccheri, che pure sono presenti assai (del resto, la vendemmia è a fine ottobre e poi l’appassimento è lungo, ché si pigia a marzo). Sovvengono, alla beva, memorie di tabacco da pipa e spezia e pepatura. Dicono sia vino da dessert. Può darsi, ché dolce in fondo lo è, ma è dolcezza, la sua, che quasi si cela. Lo vedrei piuttosto – e non si gridi all’azzardo: non l’ho provato così, ma spero n’avrò occasione - su un robusto piatto di crostacei poggiati su una riduzione di vin rosso, o sulla carne d’agnello, o sulla braciola di cervo servita alla sudtirolese, con le confetture di frutti del bosco. È vino vino, altro che dessert. Adesso ho anche deciso, nei miei dubbi: mi piace.

L’altro raboso si chiama Barbarigo, come la casata dei dogi veneziani. È un Piave Raboso, nella doc. N’ho provato due annate, una in bottiglia da mesi e mesi, l’altra ancora in vasca. La prima è del 2001. Dal bicchiere, ecco i sali del mare che s’avanzano sul frutto rosso. La bocca dà l’idea d’un vino sorprendentemente giovane. Rotondo e ruspante. Di bella lunghezza. Ma ancora di più m’ha colpito il 2002, non ancora in commercio, en primeur. Da segnarsi però in agenda e da comprare, quand’uscirà. Eppoi non è neanche da svenarsi il programmarne l’acquisto: lo si vende, finito, sui sett’euro. Insomma: il Barbarigo del 2002 piace per la vitale presenza di piccolo frutto nero, per il cassis, la memoria di confettura di bacca di sambuco. La fragranza di violetta. E quella vena - ancora - salmastra che traversa naso e palato.

E il merlot? Eh, il merlot è figlio anche lui di questo terroir. Si chiama Galión, e francamente non mi ricordo il perché dell’intitolazione, ma alla fin fine non è ciò che più m’interessa. Dico invece che n’ho provato anche qui un’annata in bottiglia, il 2002, e una in vasca, il 2003. E che ho pure notato crescita fra i due anni diversi, segno che le giovani vigne si stanno facendo adulte. Pure qui il mare affiora dal calice, ed è la costante della terra e dell’aria e forse delle acque e dei venti, e insomma, del terroir. Ché il tono iodato di nuovo conduce la degustazione, traccia la strada al frutto. C’è poi sottilissima vena erbacea, che nulla ha però da spartire con l’aggressiva vegetalità dei tanti – troppi - immaturi merlot della piana. Da bere con buon piacere. Anche se la vocazionalità vera di questa terra, di questi limi fluviali a un tiro di schioppo dal mare, la si legge nell’autoctono soprattutto. E autoctono sia: lode al raboso. Al suo riscatto. Alla rinascita. Se poi ha da esser pure merlot, sia. Ma lo si dica – si continui a dirlo, intendo - coll’accento sulla ò e con la t che schiocca in fondo alla parola, alla veneta insomma, ma con rinnovata e moderna impronta viticola ed enologica. Sia merlot, insomma, di Piave, d’argilla e vento, marino anch’esso, e di vigna stretta e meticolosamente accudita.

La strada è segnata. Avanti, dunque, con determinazione.

sabato 11 marzo 2006

Comunicare si deve

Angelo Peretti
T’annoi, in treno. D’accordo, non hai lo stress del guidare. Ma il tempo non passa, ingabbiato in sedili stretti, che puzzano sempre, anche se viaggi in prima classe. Con la polvere che ti prende la gola.
Mi capita sempre più stesso d’andare a Milano, e prendo il treno, che sennò è un tormento coi parcheggi (e già quest’è peggio del viaggiare in ferrovia). Per vincere la noia, leggo. Magari il libro appena comprato all’edicola della stazione.
A un baracchino di Milano Centrale ho adocchiato un volumetto che non m’era ancora capitato d’incrociare, anche se avevo avuto notizia dell’uscita. Un manuale. Si chiama «La comunicazione del food & beverage», Agra editrice. Autore: Fabio Piccoli, giornalista veronese. Bravissimo giornalista del vino, aggiungo. Serio e modesto. Bella persona, ottimo collega. Uno che prima di dire pensa e prima ancora studia, s’informa, ricerca, e non è cosa da poco.
Spiega, il libro, come «farsi conoscere con piccoli budget» ed è rivolto ai produttori dell’agroalimentare italico, vinicoli in particolare, ma non solo. Onestamente pensato.
L’ho letto, ovviamente, in treno. Letto e poi riletto sottolineandone frasi e frasi, quasi facendomi in questo violenza, ché non mi piace sfregiare con la penna le pagine d’un testo. Eppure ne sentivo l’urgenza, perché gli ammonimenti, i consigli che ho trovato son di quelli da farti entrare in testa a tutt’i costi.
Tesi di fondo: la qualità è necessaria, ma da sola non basta. Bisogna che venga conosciuta. O meglio, riconosciuta. «La qualità – dice giustamente Fabio – è un termine altamente inflazionato da tutti coloro che fanno comunicazione». Bisogna distinguersi. Muovendo altre e più elevate leve. Toccando il valore immateriale delle produzioni. E su questo concetto dell’immaterialità mi ci soffermo più sotto.
Altra tesi portante: la verità è sempre manipolata, inevitabilmente, ma la balla non premia. Perché alla lunga emerge e si ritorce contro chi l’ha diffusa.
Terzo: se voglio parlare al mercato, il mercato lo devo conoscere. Devo sapere quali sono le caratteristiche, le abitudini, le attese dei miei colleghi e concorrenti e venditori e clienti. Mica andare alla cieca, che sennò spreco tempo e denaro.
Quarto: comunicare è un lavoro, che va fatto da chi lo sa fare. M’aspetto l’obiezione: dici così perché anche tu sei uno di quelli che scrivono di vino e di cibo, parli pro domo tua. Obiezione respinta: andreste mai a farvi riparare la macchina da un parrucchiere, a farvi modellare un vestito da un panettiere? A ciascuno il suo lavoro: improvvisare è inutile e dannoso. «Oggi, paradossalmente – si legge nel libro – ci troviamo spesso di fronte ad un grande professionismo nella produzione dei prodotti agroalimentari di qualità e a un grande dilettantismo nella loro comunicazione». E vivaddìo è proprio così.
Quinto: per comunicare non servono investimenti enormi. Basta volerlo fare. Pianificando chiaramente gli obiettivi. Piuttosto, dice Fabio, «la prima domanda da porsi è se siamo disponibili a comunicare». Già. Ché troppe volte trovi produttori che dicono di voler far comunicazione e invece poi li scopri chiusi, ritrosi: non una parola fuori dall’autoelogio, dall’autoreferenza. Instillando la cultura del sospetto per giustificare i propri fallimenti. Invece serve apertura, disponibilità, onestà. «La comunicazione – leggo (e sottoscrivo) – inizia dal produttore, dai suoi modi di fare, dal suo stile, dalla sua capacità di relazionarsi, prima ancora che dalla sua azienda e dai suoi prodotti. E questo, ovviamente, vale ancora di più quando si parla di realtà sostanzialmente piccole come le imprese vitivinicole».
Sissignori: il fattore umano è un elemento fondamentale. È il più importante dei valori immateriali di cui dicevo sopra. Dice niente il caso di Giovanni Rana testimonial di se stesso e dei suoi tortellini? Ma qui, aggiungo, entra il gioco la filosofia stessa dell’esser produttore. Soprattutto d’esser piccolo produttore, d’essere uomo o donna del territorio.
Entra in gioco, intendo, quell’interpretazione del terroir che ho altre volte affrontato, e qui pecco io, adesso, d’autoreferenzialità. Ma ribadisco una convinzione, e cioè che il terroir non è, come vorrebbe farci intendere una scuola di pensiero tutt’e solo italiana, la combinazione di suolo, clima e vitigno. Perché c’è un quart’elemento altrettanto e forse ancora di più importante: è l'uomo, con la propria storia, il sapere, l'istinto, il sentimento, la gioia e la tribolazione. Perfino col suo l'orgoglio. Anzi, soprattutto con quello. L’orgoglio di saper mettere dentro una bottiglia la stagione, la terra, la vigna, la storia del luogo, eppoi le cose liete e i pianti e i rimpianti e quant’altro fa delle nostre vite qualcosa d’irripetibile e insomma è unicamente nostro e di nessun altro al mondo. L’orgoglio di comunicare in un bicchiere, di trasmettere in un sorso un po’ di se stessi. E per far questo serve onestà vera. Prima di tutto onestà con sé stessi.
Ma mi dilungo. Rischio d’uscir dal seminato, che voleva esser la segnalazione del libro d’un capace collega. Ma Fabio dice uguale: «È evidente che un fattore chiave nella forza e successo della comunicazione è l’unicità o, quantomeno, la particolarità, l’originalità. E nulla più del fattore umano è originale».
L’ho già detto, ma insisto: il fondamento è l'umanesimo, mica il tecnicismo. E dunque basta farmi vedere diraspatrici e concentratori e robe d’acciaio e plastica e gomma e vetro. Capisco che è roba utile a far vini puliti, corretti. Ma mi si parli piuttosto del sentir la terra e la vigna, delle storie dei padri, dei progetti dei figli, dei sogni che vengono cullati. Ché dei metalli non m’interesso: quelli, non hanno cuore e sentimento.
Altro non aggiungo, se non di leggerlo, ‘sto libro. E di pensarci su. Avvertendo (mica solo son rose: anche le spine bisogna vedere) che pecca, il volumetto, di quelle tipiche pecche dei manuali d’oggidì: la scrittura è talvolta un po’ frettolosa, ché gli editori – e credo neppure Fabio abbia potuto sottrarsi - ti chiedono il testo oggi per pubblicarlo ieri, e la fretta è proprio inevitabile. Pazienza. In fondo, questo non è romanzo da cuscino, bensì prontuario, e dunque quel che conta è il contenuto, e qui ce n’è tanto, tanto davvero. Da meditare, metabolizzare.
Comunicare si deve.