sabato 23 giugno 2007

Per dirla col Blasco

Angelo Peretti
Mentre studiavo per gli esami di maturità, ed è passata una vita, ascoltavo una radio modenese. Trasmetteva da Zocca. Si chiamava Punto Radio. Non c’è n’è mai più stata una di così belle. Aveva, tra i suoi animatori, un tipo che cominciava allora a fare i primi concerti. Si chiamava Vasco Rossi. Oggi riempie gli stadi. Bene, i miei esami non c’entrano niente, e neppure la radio, ma quand’ho finito di leggere il numero di maggio di Wine Spectator mi si è stampato in testa il Blasco che canta: «C’è qualcosa che non va». E a non andare sono i rosé, quelli italiani: saranno anche buoni, ma sono muti. E così mi son dato il pretesto per spiegarmi.
La copertina del più venduto fra i magazine enoici del mondo, in maggio era dedicata - udite, udite - al rosé. «Explore the many flavors of this attractive wine», strillava, invitando il lettore ad «esplorare i molti aromi di questo seducente vino». Ma non era proprio Wine Spectator la Bibbia dei vinoni pieni, robusti, tannici, concentrati, palestrati che hanno imperversato per un decennio almeno? Qualcosa sta cambiando, ed era ora. E i rosati stanno davvero imperversando. Al punto da conquistarsi la massima visibilità anche sulla testata leader degli States. Qualche anno fa sarebbe probabilmente sembrato eretico solo pensarlo. È la nuova tendenza, che attrae anche i guru a stelle & strisce. Che sia venuta l’ora che capiscano anche loro che il vino si deve bere, vivaddìo? Bene.
Dice il servizio che negli ultimi cinque anni i bevitori americani hanno mostrato un crescente interesse verso i rosé. Le vendite si sono incrementate del 40 per cento già nel 2004. Le regioni meridionali della Francia, «the spiritual home of rosé», la casa spirituale dei rosati, hanno aumentato del 50 per cento l’export verso gli Stati Uniti fra il 2005 e il 2006. Nel ’95 Wine Spectator recensiva solo 94 rosé, nel 2006 è passato a 200. I ristoranti statunitensi hanno cominciato a inserire pagine di rosé nelle loro liste. Segnali importanti. Di nuovo bene.
Ma allora, cosa c’è che non va? C’è che l’articolone entra nel dettaglio delle aree di produzione. E all’Italia, che di rosé ne produce parecchi - e anche di parecchio buoni, talvolta - dedica queste sole parole: «In Italy, rosé is known as rosato and is often made from Sangiovese». Tutto qui. E per chi non mastica l’inglese traduco: «In Italia, il rosé è conosciuto come rosato ed è spesso fatto da uve di sangiovese». Roba da restare allibiti.
Come dite? Americani ottusi? Può anche darsi. Ma qui balza all’occhio soprattutto un’altra realtà, quella degli italiani incapaci di comunicare. Se in America si pensa che gli italici rosé siano roba toscana fatta col sangiovese, be’, c’è da preoccuparsi. E i fascinosi rosati del Salento? E i Chiaretti del mio lago di Garda? Inutile che i produttori rosatisti delle nostre parti se la tirino tanto: di là dell’oceano non li considerano, non li conoscono, non se li filano. Evviva.
Non sappiamo comunicare: mi sembra chiaro. Non sappiamo mettere in rilievo le nostre prerogative, le nostre peculiarità. Ci contentiamo di seguire l’onda, fiutando il mercato. Vanno i rossi concentrati? Facciamo rossi concentrati. Vogliono i bianchi in barrique? Mettiamo i bianchi nelle botticelle. Parte il trend dei bianchi in acciaio? Contrordine compagni: via il legno. Monta la moda dei rosati? Tutti a fare rosé. Tutto lecito, tutto comprensibile: business is business. Ma se per una volta ci concentrassimo a mettere in luce quello che siamo? Possibile che noi, da sempre ottimi produttori di vini in rosa, non l’abbiamo mai gridato al mondo, quasi vergognandocene? Come fossero stati roba da femminucce nei tempi delle bottiglie tutto muscoli e pettorali. Anzi: avvalorando quasi quest’ipotesi. Autolesionisti. E adesso che il rosato spopola, eccoci a inseguire affannati. Con la Provenza che domina, ché lì non hanno mica mai avuto vergogna. Anche nei giorni di crisi.
E poi c’è un’altra cosa: occorre convinzione. Già, essere convinti che fare rosati non è un ripiego. Che non sono, questi vini, figli d’un dio minore. Che hanno dignità, appunto, di vino, in senso pieno. Che non devono finire la loro vita col declinare dell’estate. Prendiamo i quindici rosati recensiti a fine articolo da Wine Spectator: tutti vini che hanno ottenuto valutazioni fra gli 87 e i 90 punti, che sono risultati mica da scherzo. Undici vengono dalla Francia. Due dalla Spagna (Rioja e Navarra). Uno dagli Stati Uniti (Oregon). Uno perfino dall’Australia. Niente Italia. Dei quindici, ben tredici sono rosé del 2005. Del 2005, ripeto. Due soli del 2006.
Ho organizzato di recente una degustazione di rosé francesi per un gruppetto di produttori chiarettisti del Garda. Ho aggiunto alla descrizione delle bottiglie le note dei vigneron francesi e degli enotecari transalpini: nessuno di loro parlava di bere quei vini per forza entro l’anno, quasi tutti suggerivano il biennio a venire. Senza vergogne, con l’orgoglio d’aver fatto dei vini. Rosati, certo, ma vini. Con pienissima dignità. Ecco, credo sia questa la cosa più importante che ho potuto illustrare quella sera. Che poi mica pretendo che si tenga lì il vino, che non si beva giovane il rosato. Uno se lo beve quando vuole. È il produttore che deve avere più determinazione: altroché vini da trincare in pochi mesi! Sarà il consumatore a scegliere quando scolarsela, la boccia in rosa.
Ché poi, il rosato, se è ben fatto, l’anno dopo sa essere ancora più seducente. Cade un po’ il colore, certo, si fa aranciato, oppure vira verso la buccia di cipolla. Ma il fiore e il fruttino della prima età s’aprono verso nuovi orizzonti speziati, aristocratici e fascinosi. Aprendosi a rinnovati abbinamenti in tavola: con le carni, col tartufo nero, per esempio. Provate.
Di tutto questo il mondo enoico rosatista d’Italia tace. Muti, mutissimi i consorzi di tutela, indaffarati in altre promozioni. Incapaci di capire che in cert’aree la diversificazione è un valore, se la sai mettere in luce. Per dirla col Blasco, c’è qualcosa che non va.
Ripenso al mio Garda, dove i rosé si chiamano, per disciplinare, Chiaretti: possibile che mai si sia pensato di puntare a questo nome di territorio per valorizzare davvero il terroir gardesano? Nossignori, sempre lì a begare (leggasi litigare) nel nome del campanile: meglio il bresciano, meglio il veronese. Ma piantiamola! Meglio il vino che sa della sua terra, della sua tradizione, della sua gente. Da una parte questi valori s’interpretano in cantina attraverso le uve di groppello e dall’altra tramite la corvina, tutto qui: ma la filosofia dev’essere comune, e ha da esser quella di mettere il terroir gardesano in bottiglia.
Ora, devo aggiungere che qualche segnale interessante lo sto pur vedendo. Già ho detto dei nuovi rosati nati in riva orientale del Garda: il CorDeRosa delle Vigne di San Pietro, il Rosa Rosae di Guerrieri Rizzardi, il Feniletto della Prendina. E son rosati capaci di durare. In costa occidentale cambia il vento anche lì. All’ultimo Vinitaly Lucia Zuliani ha scelto di portare l’annata 2005 del Chiaretto di famiglia: qualche collega (suo) ha storto il naso, ma i visitatori e qualche collega (mio) hanno gradito. Cà Lojera da sempre vende il rosato (cabernet e merlot delle vigne di Ponti sul Mincio) senza badare all’annata, ché tanto col passar dell’anno il vino non fa una piega. E Gianfranco Comincioli ha appena messo in bottiglia due Chiaretti: quello dell’ultima vendemmia e il Vintage, figlio del 2005, costruito appositamente per più lunghi affinamenti. Precursore di tutti è Costaripa, che pure è pluri-rosatista, col suo Molmenti che da sempre s’affina in legno ed esce dopo lunga sosta, nell’anno successivo alla raccolta dell’uve, ed è buonissimo, credetemi.
Ora queste cose occorrerebbe raccontarle. Con orgoglio, che è pure componente del terroir. E un briciolo di coraggio. Ma i consorzi non parlano, la promozione è affidata alle sagre paesane e i produttori non riescono a far sistema. E Wine Spectator dice agli americani che anche in Italia si fa il rosé, e si chiama rosato, e lo fanno i toscani col sangiovese, e poi basta. Ohibò.

venerdì 15 giugno 2007

Tradizione & marketing: è Sherry, olè!

Angelo Peretti
Sarà che son duro a comprendere io, ma quello dello Sherry è un mondo complicato, credetemi. Epperò, soprattutto andando sul posto, sud della Spagna, uno ci si pone un sacco di domande. Ad esempio del perché miriadi di vigneron di mezzo mondo facciano così tanta fatica a lavorare il vino in riduzione, senz’ossigeno, per evitar d’ossidarlo, e invece laggiù, in quell’angolo di terra spagnola fra il Mediterraneo e l’Atlantico, una tribolazione titanica la si affronti per farlo volutamente ossidare. Con quelle cataste enormi di botti, vecchie a volte anche d’un secolo, da cui vien fatto continuo travaso, fino a portare, pian piano, un po’ di vino a quella più in basso, al suolo: la botte solera. E son botti, tutte, sempre scolme: dei seicento litri che potrebbero contenere, se ne metton dentro cinquecento, in modo che ci sia aria. E da lì, quand’è tempo, una porzione andrà in bottiglia. Con calma, anche dopo venti, trenta e pass’anni.
Ci si chiede, poi, perché si continui cocciutamente, orgogliosamente, a far questi vini, che son tanto forti d’alcol (vengono appunto fortificati, con l’aggiunta d’alcole) e così decadenti e meditativi, quando il mondo enoico ha scelto la freschezza.
E perché in fondo qui l’enologia conti poco: si fa vino coll’uva (bianca) di palomino, lo si fortifica, si fa l’invecchiamento coi travasi, da secoli. Neanche pensarci a far vini… normali, di più pronta beva.
E perché ci si radichi dunque così accanitamente nella tradizione produttiva, quand’invece nel far business si è tanto marketing oriented. Ché questo ho percepito visitando le bodegas (le cantine): da quelle parti sanno utilizzare tutti gli strumenti del marketing, eccome. E vale sia per le aziende maggiori (roba da milioni di bottiglie l’anno, tipo Gonzalez Byass, quella del Tio Pepe, o Osborne, quella che ha riempito d’enormi tori neri le collinette fianco autostrada di mezza penisola iberica) e pur anco quelle più piccine (tipo Bodegas Tradicion, con tanto di splendida, piccola galleria d’arte adiacente ai locali d’invecchiamento).
Aggressivamente, perfino, fanno marketing questi jerezani. Tanto da destinare - il consorzio - più di quattro milioni d’euro l’anno alla promozione: olè!
E i mega-produttori fanno del gran merchandising di magliette, cappellini, cavatappi, portafogli, foulard, cinture, orologi, spille, matite colorate, macchinine, giubbini e chissà quant’altro ancora, tutto rigorosamente marcato col logo aziendale e nient’affatto a buon mercato. E fan visitare i centri di produzione a bordo del trenino, con spiritosa & professionalissima guida: insomma, come a Gardaland, che uno i conti di quant’ha speso li fa solo il giorno dopo, ma in fondo non gliene importa granché dei quattrini lasciati, ché s’è divertito e quello è l’importante. Di nuovo: olè!
Insomma: tradizionalissimi a produrre, avanzatissimi a commercializzare. Anche se un po’ di crisi la tocchi con mano pure là: il mercato è asmatico. Ma pazienza - sembrano dir gli jerezani - se il vino è in controtendenza e i tempi son difficili e in fin dei conti il grosso si limita alla Spagna e al Regno Unito e all’Olanda e adesso anche al Giappone: avanti così, ché cambiare è quas’impossibile, visto le gigantesche masse di botti che fanno invecchiare il vino (ma lo sapevate che qualcheduna di quelle botti, avvinata per qualche anno con lo Sherry, finisce alle distillerie di whisky?).
L’occasione d’entrare nel profondo della terra dello Sherry me l’ha offerta la sezione del Veneto Occidentale dell’Associazione degli enologi ed enotecnici italiani, col suo viaggio di studio a Jerez de la Frontera. Con la guida di Daniele Accordini, presidente appunto degli enologi veneti, e di Giancarlo Prevarin, che guida l’Assoenologi nazionale. E col supporto di due aziende del settore: Vason (marchio noto, ma non conoscevo la simpatia di Giancarlo Vason) e Cadalpe. Eravamo, in squadra, una trentina di tecnici, tre giornalisti (c’erano Elisabetta Tosi e Lucio Bussi) e un blogger (Giampiero Nadali) e le note di viaggio di Lizzy-Elisabetta e Aristide-Giampiero le potete leggero rispettivamente su Vinopigro.it e su Aristide.biz.
Ora, aggiungo che Sherry-Xérès-Jerez sono nomi equivalenti: il primo è quello usato dagl’inglesi, il secondo arabeggia (fu plurisecolare il dominio islamico), il terzo è l’attuale, post riconquista cristiana. Il (ricco e ben organizzato) consorzio di tutela del luogo ha un nome complicato: si chiama Consejo regulador de las denominaciones de origen Jerez-Xérès-Sherry, Manzanilla-Sanlúcar de Barrameda y Vinagre de Jerez. Significa che sovrintende ai vini della zona, ma anche all’aceto che da quelle parti traggono dallo Sherry e che, garantisco, è interessante assai. Epperdipiù promuove il brandy locale (pronunciano bràndi, coll’accento sulla a, mica brèndi alla francese come noi), che non ha una denominazione d’origine, ma è famoso e molto presente anche sugli scaffali della distribuzione italiana. Per chi volesse approfondire, il sito consortile è questo qui: www.sherry.org.
Ora, mi resta da dire, e già sono stato lungo, delle due maniera di far affinare questi benedetti strani vini di Jerez. E dir dunque della crianza biologica e della crianza ossidativa.
L’origine è la stessa. Si pigia, in modo soffice, l’uva di palomino (più raramente il moscatel o il pedro ximènez, che si fa appassire sull’aia per una settimana e darà un vino dolcissimo e fascinoso, collo stesso sistema degli altri). Le fermentazione s’innesca con lieviti autoctoni. Compare a quel punto la flor, che è un velo di microrganismi (la fioretta, la chiamiamo da noi) che s’ispessisce poi fino a un centimetro e che protegge il vino dall’ossidazione e che conferisce sentori tipicissimi al vino. La flor agli jerezani non toccategliela: la considerano il vero segreto dei loro vini, insieme all’albariza, la bianca terra del posto, che s’indurisce e tiene sotto la poca acqua piovuta in primavera.
In gennaio-febbraio, si passa all’encabezado, alla fortificazione coll’alcol e al travaso in botte di legno. E qui si aprono due strade: le due crianze, le due diverse maturazioni, con la flor (la crianza biologica) e senza flor (la crianza ossidativa). Perché la flor per vivere e lavorare ha bisogno d’ossigeno (e dunque la botte viene lasciata scolma, ma il vino non ha contatto coll’ossigeno perché la flor lo protegge) e alcol non enorme, ché sennò muore. Dunque, alcune tipologie di vino verranno fatte fortificando a 15 gradi, e si continuerà l’affinamento in botte con quel velo di microrganismi (e il colore rimane intatto, giallo paglierino), mentre altri vanno oltre i 17 gradi e continueranno a invecchiare, anch’essi nel legno in parte vuoto, a contatto coll’ossigeno (e il colore va man mano imbrunendo).
Dopo la fortificazione, ecco che comincia il passaggio da una botte all’altra. Le file di botti si chiamano criadera: ce ne possono essere quattro, dieci, anche quindici di file, a seconda dello stile dell’azienda. Dalla fila più in basso, la solera, si prende una parte del vino e si passa all’imbottigliamento. Dalla fila di sopra, la prima criadera, si prende una stessa quantità di vino e la si mette nella solera. Dalla seconda criadera passa una medesima quantità di vino nella prima. Dalla terza passa alla seconda, dalla quarta alla terza e così via. Nell’ultima fila si aggiunge il vino dell’annata più giovane. Senza soluzione di continuità. Mescolando così vini di diverse annate. E allora, che età avrà un vino di Jerez? Un’età media: la si calcola in base al numero di criadera utilizzate, alla percentuale di vino che viene tolta a ogni travaso e alla frequenza dei travasi annuali. Quindi, quando su una bottiglia di Sherry vedete scritto 20, significa che lì dentro c’è un vino che ha un’età media di vent’anni, mica che viene dalla vendemmia di vent’anni fa.
A seconda del fatto che si proceda con l’affinamento in presenza o in assenza di flor, si ottengono vini con caratteri diversi, che son quelli che indico qui sotto.
Fino Fatto con la crianza biologica, sotto la flor. Giallo paglierino. Molto secco. Al naso è, come dicono a Jerez, punzante: è l’odore tipico della flor, che somiglia alla pasta di pane che sta fermentando, lievitando. In bocca è salino. Qualche nota di camomilla. Niente fruttato, niente. Piace un sacco agli spagnoli, che lo bevono per accompagnare le tapas, gli spuntini. Io faccio fatica a berlo, l’ammetto.
Manzanilla Sempre crianza biologica. Sempre giallo pallido e secchissimo. Ha, in aggiunta, qualche vena iodata. Per il mio gusto, vale lo stesso discorso fatto per il Fino.
Amontillado Prima crianza biologica e poi ossidativa. Nel senso che a un certo punto, dopo qualche anno, si va svanire la flor e il vino comincia così a ossidare. Diventa di colore ambrato. Ha un po’ la pungenza del Fino e insieme anche memorie di frutta secca, la nocciola in particolare. E quand’è ben fatto tira fuori certe vene che mi ricordano quando da ragazzino buttavo a seccare la buccia d’arancia sulla stufa. Secco. Le cose migliori sono interessanti.
Oloroso Solo crianza ossidativa: non c’è insomma alcuna influenza della flor, e dunque niente pungenza al naso. Può presentare invece ricordi di vanigliatura che ingannano: non è dolce. Ha speziatura (la cannella) e cuoio e vene quasi animalesche. Untuoso. Caldo per l’alcol, che comincia a esser alto. Secco. Ambrato. Ce n’è di molto buono.
Palo Cortado Una specie di Amontillado di categoria superiore. E di bella complessità. Insieme qualche memoria di crianza biologica e bell’evoluzione della crianza ossidativa. Tira fuori toni olfattivi di pasticceria traditori: pensi a un vino dolce e invece è molto secco. In bocca è salato. Finisce mandorlato. Raro, ma ce n’è in giro qualche bottiglia da applauso.
Pale Cream e Cream Uno Sherry secco addolcito con vini dolci. Supera il centinaio di grammi-litro di zucchero. Lo bevono soprattutto gl’inglesi: che lo bevano, preferisco le tre tipologie precedenti.
Pedro Ximénez E al cospetto di questo vino qui, quand’è ben fatto, mi ci inchino. Viene prodotto dall’uva omonima. Ed ha tanto, tanto zucchero: più (a volte ben più) di quattrocento grammi per litro, accidenti! Eppure le bottiglie «giuste» son memorabili: uva passa, caramello, nocino, cannella, chiodo di garofano, fico secco, albicocca secca, crema di nocciole, sentori di mobili antichi. Vellulato, avvolgente. Caldo d’alcol. Lunghissimo. Scuro, a volte nero, d’impenetrabile colore: eppure viene da uve bianche, appassite al sole per qualche giorno. Ma attenti: c’è in giro di tutto, da vinelli di poco costrutto e misero soldo, stucchevolmente dolciastri, a dei fuoriclasse commoventi. Commuovetevi scegliendo i migliori.

domenica 10 giugno 2007

Et voilà: il Custoza in verticale

Angelo Peretti
Una verticale di Custoza è una rarità. Perché questo bianco delle colline moreniche orientali del Garda è sempre stato interpretato come un easy wine da bere entro l’estate. Salino, disimpegnato. Da aperitivo, da gòto al bar, più ancora che da pranzo. Ed ebbe, con questo stile e questa lettura, un successo travolgente al suo esordio, negli anni Settanta. E poi sembrò appannarsi. Per tornare oggidì a goder di discreta-buona salute.
Epperò si seguita ad aver dubbi su quel disciplinare troppo ampio, che vede ammessa una pletora d’uve: obbligo di trebbiano toscano (che lì è detto castelli romani) e garganega e tocai friulano (il trebbianello) eppoi possibili aggiunte di cortese (la bianca fernanda), malvasia toscana, riesling italico, pinot bianco, chardonnay. E che ha troppe tipologie: il Custoza, il Superiore, lo spumante, il passito.
Ora, senz’entrare nel merito delle discussioni circa la doc, ché sennò rischierei d’innescare una quaestio per la quale poche righe non bastano (io credo nel terroir, più che nel vitigno, ammesso che il terroir lo si rispetti per davvero), mi domando invece un’altra cosa, e cioè se davvero il Custoza sia il bianchetto dell’immaginario collettivo. E per dare un abbozzo di risposta, credo ci sia un’unica via: la verticale.
Ognuno ha le sue fisime. Io in fatto di vini ho quella dei bianchi che sanno invecchiare. Mi piacciono avanti cogli anni. Assumono un’eleganza che da giovani raramente riescono a sfoggiare. Epperò, ovvio, mica tutti ci arrivano. Ché solo le terre e le vigne e i vigneron più vocati sanno combinare quel che serve alla longevità in bottiglia. E dunque adoro i Riesling del Reno, che superano i decenni. E gli stranissimi bianchi del Jura. E, in Italia, ho bevuto gran cose ultradecenni a Soave e in Lugana.
Ordunque, quasi più che coi rossi, credo si debbano assaggiare, nei bianchi, varie annate di fila, in modo da capire se sotto il vestitino della festa, se dietro l’esuberanza adolescenziale, ci sia carattere autentico.
Per il Custoza, m’è capitato due sole volte d’affrontarne più annate insieme d’un unico vino. La prima fu tre-quattro anni fa, con pochissime annate. Ed ebbi confortanti riscontri. Ed ora la seconda chance me l’ha offerta, e l’ho subito accolta, Silvio Piona, che coi fratelli ha preso in mano l’azienda che porta il nome del papà Albino, ch’è fra i nomi «storici» del mondo bianchista di quelle plaghe gardesane, uomo di punta del Custoza fatto a Custoza, ché, com’è noto a chi ha studiato storia, il villaggio presso il quale si combatté due volte nelle guerre dell’indipendenza d’Italia, e due volte vinsero invece gli austriaci. Sommacampagna è il comune.
Dei Custoza targati Albino Piona ho testato (e meglio sarebbe dir tastato, alla veronese, che vuol dire assaggiato) il Campo del Selese, ch’era in origine – vendemmia ’99 – nato come una sorta di crû. Poi col 2001, rinnovato il disciplinare e introdotta la nuova tipologia, divenne un Superiore. E n’ho provate tutte le annate sin qui prodotte, ossia, in continuità, dal ’99 al 2004. Nel 2005 s’è preferito non farlo: troppa pioggia in vendemmia. Eppoi il 2006 è ancora a meditare nelle vasche, ma anche questo ho assaggiato, e ve ne dirò comunque l’esito attuale.
Aggiungo un’altra informazione che mi pare importante, e cioè che la vendemmia del ’99 è anche la prima che ha visto i Piona avvalersi d’un giovane consulente di valore: Flavio Prà, da Monteforte, terra del Soave. E di prove del suo valore ce ne sono in giro parecchie.
Devo poi dire delle uve e della cuvèe. Sempre, in ogni annata, il Campo del Selese lo si fa col 70 per cento di garganega, il 10 di trebbiano e il 20 di chardonnay. Fino al 2001 la garganega e il trebbiano erano in acciaio e lo chardonnay nella barrique. Dal 2002 s’è portato nel legno un 20 per cento di garganega, mentre tutto il resto, chardonnay compreso, è andato in acciaio.
Se ne fanno in tutto fra le 8 e le 12mila bottiglie per anno, a seconda di com’è andata la stagione. E costa, in cantina, ai privati, sugli 8 euro.
Dimenticavo: il nome. Si chiama Campo del Selese perché alla Palazzina, la campagna che Albino Piona ha nella frazioncina di San Rocco, da dove proviene in maggioranza l’uva di questo Custoza, c’è, appunto, il sélese, ossia l’aia di mattone su cui si batteva, un tempo, il frumento. Il campo vitato è sulla collinetta dietro al sélese.
Dunque, vediamo com’è andata.
Bianco di Custoza Campo del Selese 1999 Prima annata, e vino magrolino. Ancora giovanilmente bello il colore: chiaro, cristallino, con vena verdina. Ed ha bouquet finissimo di fieno secco e fiori appassiti, e nuance di mineralità intrigante. In bocca è tuttora fresco, ma mostra pure accenni di decadenza, di dolcezza ossidativa. In ogni caso: soddisfatto, ché era vino pensato, allora, per esser presto bevuto e finito.
Un lieto faccino :-)
Bianco di Custoza Campo del Selese 2000 Ahimé, nulla da fare: due bottiglie aperte, e due vini ossidati. Il tappo non ha tenuto.
Bianco di Custoza Superiore Campo del Selese 2001 Giallo, traversato da lampi verdi e dorati. Ha naso ampio di fiore essiccato di camomilla e di frutto giallo. E c’è, curiosa, la presenza del caco maturo. E ricordi citrini. La bocca è ampia, polposa, succosa di frutto. Ha vena d’agrumi (la buccia d’arancia candita). Bella freschezza, e insieme anche qualche traccia di miele d’acacia. E spezia. Durerà, bello, ancora.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Bianco di Custoza Superiore Campo del Selese 2002 Giallo dorato nella colorazione, ha naso subito chiuso, e minerale, epperò s’apre verso toni vegetali e lievemente speziati. La bocca ha frutti tropicali e ancora il caco. Eppoi la spezia dolce e traccia d’incenso. E c’è pienezza di frutto e burrosità borgognona. Magari non è il mio stile di bianco, ma c’è stoffa da vendere. E cresce alla distanza, nel bicchiere.
Due lieti faccini :-) :-)
Bianco di Custoza Superiore Campo del Selese 2003 Tu valla a capire l’annata calda del 2003. E la dovremo pur capire se è vero che ci stiamo tropicalizzando. Comunque, ci ha dato un Selese chiuso chiusissimo al naso e fruttato fruttatissimo in bocca. Vino sodo, polposo, nemanco troppo dolce come me lo sarei invece aspettato. E con vena minerale che gli dà equilibrio. Manca però un pochetto in tenuta.
Due lieti faccini :-) :-)
Bianco di Custoza Superiore Campo del Selese 2004 Magrolino, direi sulla scia del ’99, ma parecchio meglio definito nel carattere e nei dettagli. Giallo brillante, mica carico. Bel naso, floreale soprattutto: fior di camomilla e cenni d’anice e rosmarino abbozzato. Scriverei: Loira style. In bocca è ancora camomilla e pera e mela asprigna e cotogna e susina gialla. Annata la più elegante fra quelle provate in bottiglia.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Bianco di Custoza Superiore Campo del Selese 2006 (vasca) Ovvio: ci vuol cautela. A scriver d’un vino che ancora non è. In acciaio resterà sulle fecce fini almeno - è l’intenzione - sino alla prossima vendemmia, e poi decideranno. Me ne prenoto qualche bottiglia. Perché quella tensione, quella freschezza, quelle vene agrumate, quella pesca bianca che s’apre lenta mi fanno presagire cose buone. Incrociamo le dita.
In sintesi: già, il Custoza sa dar bianchi che hanno chance di tenuta. Lo dobbiamo rimetabolizzare. Preferisco, per mio conto, le annate più fresche. Ma anche quelle che sono sul frutto s’esprimono bene: vorrei ribere in futuro il 2002, ché mi piacerebbe capire dove andrà a finire quel suo mix di frutta e di spezia, e potrebbe dar sorprese. Epperò lo stile s’è comunque definito, pulito. E il 2006 potrebb’essere la quadratura del cerchio.
Ringrazio l’Albino Piona family per la chance che m’ha dato. Di capire qualcosa di più di quelle terre moreniche. E dei vini che se ne possono trarre.

domenica 3 giugno 2007

Della pro loco, dell’olio e della qualità fra le colline vicentine

Angelo Peretti
Ci credreste mai? Una pro loco - già, proprio una di quelle associazioni strapaesane che di solito organizzano le sagre - cambia le prospettive agricole di un’area, puntando tutto sulla qualità? In campo oleario. In una zona che olearia non sembra. Eppure succede. Nel Vicentino. Sui Colli del Basso Vicentino.
Oh, mica è sola, nell’avventura, la pro loco di Nanto, ché non ce l’avrebbe mai fatta, in solitaria. C’è di mezzo l’amministrazione provinciale col suo servizio fitopatologico (quello che di solito spiega agli agricoltori quando e come intervenire contro le malattie delle piante). E poi la Camera di commercio. Insomma: gli enti pubblici del territorio.
E tutt’insieme cos’hanno dunque fatto? Hanno mess’insieme un progetto qualità. Attenti: qualità, mica solo produzione. E qualità s’è ottenuta. In una manciata d’anni appena. Cinque anni. Incredibile. Quando si dice pianificare per bene le cose.
Il servizio fitopatologico ha ideato e varato e gestito il progetto di qualificazione della produzione dell’extravergine vicentino, la Provincia l’ha sostenuto, la Camera di commercio l’ha sponsorizzato, la pro loco ha fatto da referente per le realtà locali.
Complessivamente, gli olivicoltori coinvolti sono una trentina. Ognuno ha accettato un regolamento che dettaglia obiettivi, ruoli, condizioni. Undici di queste aziendine, le più rappresentative, sette sui Berici e quattro sui Lessini, vengono seguite settimanalmente dal personale tecnico del servizio fitopatologico. Per introdurre le «buone pratiche» agronomiche.
Quando s’avvicina il momento di tirar giù i frutti, tutti insieme scelgono tempistiche di raccolta e di molitura. Puntando a fare buon olio. Il migliore possibile.
Ciascuno provvede in proprio a tirar giù l’oliva. Ciascuna singola partita viene mandata rapidamente, più rapidamente possibile, all’impianto di frangitura preselezionato. L’olio ottenuto da ogni lotto viene stoccato in vasche d’acciaio: si prelevano i campioni destinati alle valutazioni e si sigillano i fusti. Se il campione passa il test chimico e quello d’assaggio, si va all’imbottigliamento: vetri uguali per tutti, etichette identiche (arancioni), con la sola personalizzazione del nome del produttore. E prezzi convenzionati sul mercato.
Alcune delle partite più interessanti finiscono anche in un blend destinato alla certificazione nella dop Veneto Euganei Berici.
Tutto questo consente di ottimizzare i costi, di ridurli all’osso. Questa è capacità di industrializzare i processi in un mondo di microproduttori.
L’olio con la dop si chiama Gaudio, quello fuori dop Laudo, quello biologico Gemmo. Il laudo costa 8 euro nella bottiglia da mezzo litro (ma ci sono anche quelle da 250 e da 750), il Dop viene fra i 10 e i 12 euro (sempre la mezza), il Gemmo 11. Questo è diversificare, far marketing.
Roba che se non l’avessi seguita dall’inizio, passo dopo passo, dalla primissima, quasi metafisica riunione in un teatro di Barbarano Vicentino, non ci crederi neppure. E invece i risultati sono lì a dimostrare che le cose si son fatte, e bene. Bravi. E bravo, lasciatemelo dire, in particolare Sergio Carraro, che coordina il progetto per la Provincia.
Adesso vi racconto gli oli. Col solito criterio dei miei faccini.
Rezzadore - Lonigo - Olio Extravergine di Oliva Laudo Un monocultivar di grignano. Al naso ha i tratti tipici della varietà, quando le olive son colte freschissime: un’esplosiva, fascinosa sensazione di succo, fiore & foglia di limone. I medesimi tratti tornano senz’esitazione al palato, arricchendosi di sentori di rafano, rucola ed erba luigia. La piccantezza è vivida, ben tratteggiata. La pasta ha buona astringenza. Poi esce la frutta secca. Il migliore olio sin qui assaggiato in zona.
Nel suo genere, tre lieti faccini :-) :-) :-)
Roberto Possia - Castegnero - Olio Extravergine di Oliva Laudo Altro bell’olio. Si fa apprezzare per la pulizia. Tratto da olive di frantoio, leccino, coratina e altre varietà minori, ha livrea gialla brillante che sfuma nel verde. Al naso, l’erba di prato, l’oliva a prima invaiatura, il pomodoro verde, la rughetta. Al palato, le vene erbacee si fondono con la mandorla e la nocciola ancora verdi, appena colte. Una sottile piccantezza rinnova lo slancio. Nel finale ancora frutta secca.
Due lieti faccini :-) :-)
Ettore Busatta – Sossano - Olio Extravergine di Oliva Laudo È d’un limpido, brillante colorito giallo quest’olio che viene in prevalenza da olive di frantoio, leccino e coratina. Ha piacevoli, ben definiti sentori d’oliva a invaiatura, d’erbe pratensi, di basilico, di pomodoro verde, di mela granny smith. Al palato dà prova grintosa con la sua vivace piccantezza. Il quadro aromatico vive sull’equilibrio fra note dolci e amare. Poi, largo alla frutta secca. Con finale di bella tendenza astringete.
Due faccini anche a questo :-) :-)
Olivicoltori Associati Colli del Basso Vicentino - Nanto - Olio Extravergine di Oliva Gaudio Dop Veneto Euganei e Berici Il Dop degli Olivicoltori Associati nasce dalla cuvée di varie partite. Ha tenue tono di giallo. Il bouquet richiama l’oliva, il fiore giallo, l’erba di prato. C’è vena agrumata. Al palato trovi equilibrio nel dolce e nell’amaro. La piccantezza ben s’esprime, senz’essere aggressiva. Un intrigante cenno di buccia di limone verde accompagna nel finale la mandorla e la nocciola.
Un Dop da due faccini :-) :-)
Redenzio Trevisan - San Germano dei Berici - Olio Extravergine di Oliva Laudo Ha tonalità giallo-verdi, quest’olio figlio d’olive di frantoio, leccino e maurino. Porge leggero il fruttato fresco. S’aggiungono profumi lievi d’erbe campestri e carciofo. Subito, in bocca, l’amaro del cardo e fors’anche della foglia d’olivo. La piccantezza avanza a spallate. Ma breve, Con gradualità la sensazione amara vira verso il carciofo, la rucola, il tarassaco, stemperandosi infine nella mandorla.
Due faccini :-) :-)
Alessandro Piovene Porto Godi - Toara di Villaga - Olio Extravergine di Oliva Laudo Nome importante, quello del produttore, e buon olio. Dalla veste verde pastello, limpida, brillante. Viene in prevalenza da olive di rasara, frantoio e leccino. Porge tenui profumi d’erba di prato e d’oliva fresca. Le note vegetali son delicate anche al palato. La pasta è ravvivata da una leggera nota piccante. L’astringenza è sottile. Il finale vira verso nuance della frutta secca.
Un lieto faccino :-)
Aurora – Barbarano - Olio Extravergine di Oliva Laudo Erminio Loro, aziend’agricola Aurora, è un veterano degli oli di qualità dei Colli del Basso Vicentino. Quest’anno è olio aromaticamente delicato, lieve, eppure è anche grintoso nella pasta. Il naso sente fresche vene d’oliva, d’erba di prato. Sottile il fondo d’erba limoncella. In bocca subito ecco il tono floreale. Evolve quasi con immediatezza su sentori di frutta secca. La spinta piccante ravviva la pasta, che ha buona astrigenza.
Un faccino :-)
Emilio Gastaldi – Grancona - Olio Extravergine di Oliva Laudo Ottenuto da olive di rasara, frantoio, leccino e moraiolo. Ha chiara tonalità giallo-verde. Al naso elargisce sentori d’oliva, di frasca spezzata, d’erbe di campo (col tarassaco in bel rilievo), accenni di carciofo crudo. La prova gustativa è invece fin da subito in presenza della frutta secca, su un fondo amarognolo di erbe campestri. Una buona piccantezza dà slancio alla pasta. T’aspetteresti solo un pelo di definizione in più.
Un faccino :-)
Arturo Rigo – Mossano - Olio Extravergine di Oliva Laudo Vestito d’una smagliante tonalità verde chiara, l’extravergine di Arturo Rigo, ottenuto da olive di frantoio, rasara e leccino, offre profumi fruttati e memorie d’erbe di campo. In bocca manca magari un pochettino nella definizione aromatica, ancorchè sappia comunque mettere in gioco buone doti di piccantezza e di astringenza su un fondo amaro di carciofo crudo. Comunque, olio che val la pena di provare anche questo.
Ancora un faccino :-)