sabato 23 giugno 2007

Per dirla col Blasco

Angelo Peretti
Mentre studiavo per gli esami di maturità, ed è passata una vita, ascoltavo una radio modenese. Trasmetteva da Zocca. Si chiamava Punto Radio. Non c’è n’è mai più stata una di così belle. Aveva, tra i suoi animatori, un tipo che cominciava allora a fare i primi concerti. Si chiamava Vasco Rossi. Oggi riempie gli stadi. Bene, i miei esami non c’entrano niente, e neppure la radio, ma quand’ho finito di leggere il numero di maggio di Wine Spectator mi si è stampato in testa il Blasco che canta: «C’è qualcosa che non va». E a non andare sono i rosé, quelli italiani: saranno anche buoni, ma sono muti. E così mi son dato il pretesto per spiegarmi.
La copertina del più venduto fra i magazine enoici del mondo, in maggio era dedicata - udite, udite - al rosé. «Explore the many flavors of this attractive wine», strillava, invitando il lettore ad «esplorare i molti aromi di questo seducente vino». Ma non era proprio Wine Spectator la Bibbia dei vinoni pieni, robusti, tannici, concentrati, palestrati che hanno imperversato per un decennio almeno? Qualcosa sta cambiando, ed era ora. E i rosati stanno davvero imperversando. Al punto da conquistarsi la massima visibilità anche sulla testata leader degli States. Qualche anno fa sarebbe probabilmente sembrato eretico solo pensarlo. È la nuova tendenza, che attrae anche i guru a stelle & strisce. Che sia venuta l’ora che capiscano anche loro che il vino si deve bere, vivaddìo? Bene.
Dice il servizio che negli ultimi cinque anni i bevitori americani hanno mostrato un crescente interesse verso i rosé. Le vendite si sono incrementate del 40 per cento già nel 2004. Le regioni meridionali della Francia, «the spiritual home of rosé», la casa spirituale dei rosati, hanno aumentato del 50 per cento l’export verso gli Stati Uniti fra il 2005 e il 2006. Nel ’95 Wine Spectator recensiva solo 94 rosé, nel 2006 è passato a 200. I ristoranti statunitensi hanno cominciato a inserire pagine di rosé nelle loro liste. Segnali importanti. Di nuovo bene.
Ma allora, cosa c’è che non va? C’è che l’articolone entra nel dettaglio delle aree di produzione. E all’Italia, che di rosé ne produce parecchi - e anche di parecchio buoni, talvolta - dedica queste sole parole: «In Italy, rosé is known as rosato and is often made from Sangiovese». Tutto qui. E per chi non mastica l’inglese traduco: «In Italia, il rosé è conosciuto come rosato ed è spesso fatto da uve di sangiovese». Roba da restare allibiti.
Come dite? Americani ottusi? Può anche darsi. Ma qui balza all’occhio soprattutto un’altra realtà, quella degli italiani incapaci di comunicare. Se in America si pensa che gli italici rosé siano roba toscana fatta col sangiovese, be’, c’è da preoccuparsi. E i fascinosi rosati del Salento? E i Chiaretti del mio lago di Garda? Inutile che i produttori rosatisti delle nostre parti se la tirino tanto: di là dell’oceano non li considerano, non li conoscono, non se li filano. Evviva.
Non sappiamo comunicare: mi sembra chiaro. Non sappiamo mettere in rilievo le nostre prerogative, le nostre peculiarità. Ci contentiamo di seguire l’onda, fiutando il mercato. Vanno i rossi concentrati? Facciamo rossi concentrati. Vogliono i bianchi in barrique? Mettiamo i bianchi nelle botticelle. Parte il trend dei bianchi in acciaio? Contrordine compagni: via il legno. Monta la moda dei rosati? Tutti a fare rosé. Tutto lecito, tutto comprensibile: business is business. Ma se per una volta ci concentrassimo a mettere in luce quello che siamo? Possibile che noi, da sempre ottimi produttori di vini in rosa, non l’abbiamo mai gridato al mondo, quasi vergognandocene? Come fossero stati roba da femminucce nei tempi delle bottiglie tutto muscoli e pettorali. Anzi: avvalorando quasi quest’ipotesi. Autolesionisti. E adesso che il rosato spopola, eccoci a inseguire affannati. Con la Provenza che domina, ché lì non hanno mica mai avuto vergogna. Anche nei giorni di crisi.
E poi c’è un’altra cosa: occorre convinzione. Già, essere convinti che fare rosati non è un ripiego. Che non sono, questi vini, figli d’un dio minore. Che hanno dignità, appunto, di vino, in senso pieno. Che non devono finire la loro vita col declinare dell’estate. Prendiamo i quindici rosati recensiti a fine articolo da Wine Spectator: tutti vini che hanno ottenuto valutazioni fra gli 87 e i 90 punti, che sono risultati mica da scherzo. Undici vengono dalla Francia. Due dalla Spagna (Rioja e Navarra). Uno dagli Stati Uniti (Oregon). Uno perfino dall’Australia. Niente Italia. Dei quindici, ben tredici sono rosé del 2005. Del 2005, ripeto. Due soli del 2006.
Ho organizzato di recente una degustazione di rosé francesi per un gruppetto di produttori chiarettisti del Garda. Ho aggiunto alla descrizione delle bottiglie le note dei vigneron francesi e degli enotecari transalpini: nessuno di loro parlava di bere quei vini per forza entro l’anno, quasi tutti suggerivano il biennio a venire. Senza vergogne, con l’orgoglio d’aver fatto dei vini. Rosati, certo, ma vini. Con pienissima dignità. Ecco, credo sia questa la cosa più importante che ho potuto illustrare quella sera. Che poi mica pretendo che si tenga lì il vino, che non si beva giovane il rosato. Uno se lo beve quando vuole. È il produttore che deve avere più determinazione: altroché vini da trincare in pochi mesi! Sarà il consumatore a scegliere quando scolarsela, la boccia in rosa.
Ché poi, il rosato, se è ben fatto, l’anno dopo sa essere ancora più seducente. Cade un po’ il colore, certo, si fa aranciato, oppure vira verso la buccia di cipolla. Ma il fiore e il fruttino della prima età s’aprono verso nuovi orizzonti speziati, aristocratici e fascinosi. Aprendosi a rinnovati abbinamenti in tavola: con le carni, col tartufo nero, per esempio. Provate.
Di tutto questo il mondo enoico rosatista d’Italia tace. Muti, mutissimi i consorzi di tutela, indaffarati in altre promozioni. Incapaci di capire che in cert’aree la diversificazione è un valore, se la sai mettere in luce. Per dirla col Blasco, c’è qualcosa che non va.
Ripenso al mio Garda, dove i rosé si chiamano, per disciplinare, Chiaretti: possibile che mai si sia pensato di puntare a questo nome di territorio per valorizzare davvero il terroir gardesano? Nossignori, sempre lì a begare (leggasi litigare) nel nome del campanile: meglio il bresciano, meglio il veronese. Ma piantiamola! Meglio il vino che sa della sua terra, della sua tradizione, della sua gente. Da una parte questi valori s’interpretano in cantina attraverso le uve di groppello e dall’altra tramite la corvina, tutto qui: ma la filosofia dev’essere comune, e ha da esser quella di mettere il terroir gardesano in bottiglia.
Ora, devo aggiungere che qualche segnale interessante lo sto pur vedendo. Già ho detto dei nuovi rosati nati in riva orientale del Garda: il CorDeRosa delle Vigne di San Pietro, il Rosa Rosae di Guerrieri Rizzardi, il Feniletto della Prendina. E son rosati capaci di durare. In costa occidentale cambia il vento anche lì. All’ultimo Vinitaly Lucia Zuliani ha scelto di portare l’annata 2005 del Chiaretto di famiglia: qualche collega (suo) ha storto il naso, ma i visitatori e qualche collega (mio) hanno gradito. Cà Lojera da sempre vende il rosato (cabernet e merlot delle vigne di Ponti sul Mincio) senza badare all’annata, ché tanto col passar dell’anno il vino non fa una piega. E Gianfranco Comincioli ha appena messo in bottiglia due Chiaretti: quello dell’ultima vendemmia e il Vintage, figlio del 2005, costruito appositamente per più lunghi affinamenti. Precursore di tutti è Costaripa, che pure è pluri-rosatista, col suo Molmenti che da sempre s’affina in legno ed esce dopo lunga sosta, nell’anno successivo alla raccolta dell’uve, ed è buonissimo, credetemi.
Ora queste cose occorrerebbe raccontarle. Con orgoglio, che è pure componente del terroir. E un briciolo di coraggio. Ma i consorzi non parlano, la promozione è affidata alle sagre paesane e i produttori non riescono a far sistema. E Wine Spectator dice agli americani che anche in Italia si fa il rosé, e si chiama rosato, e lo fanno i toscani col sangiovese, e poi basta. Ohibò.

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