venerdì 15 giugno 2007

Tradizione & marketing: è Sherry, olè!

Angelo Peretti
Sarà che son duro a comprendere io, ma quello dello Sherry è un mondo complicato, credetemi. Epperò, soprattutto andando sul posto, sud della Spagna, uno ci si pone un sacco di domande. Ad esempio del perché miriadi di vigneron di mezzo mondo facciano così tanta fatica a lavorare il vino in riduzione, senz’ossigeno, per evitar d’ossidarlo, e invece laggiù, in quell’angolo di terra spagnola fra il Mediterraneo e l’Atlantico, una tribolazione titanica la si affronti per farlo volutamente ossidare. Con quelle cataste enormi di botti, vecchie a volte anche d’un secolo, da cui vien fatto continuo travaso, fino a portare, pian piano, un po’ di vino a quella più in basso, al suolo: la botte solera. E son botti, tutte, sempre scolme: dei seicento litri che potrebbero contenere, se ne metton dentro cinquecento, in modo che ci sia aria. E da lì, quand’è tempo, una porzione andrà in bottiglia. Con calma, anche dopo venti, trenta e pass’anni.
Ci si chiede, poi, perché si continui cocciutamente, orgogliosamente, a far questi vini, che son tanto forti d’alcol (vengono appunto fortificati, con l’aggiunta d’alcole) e così decadenti e meditativi, quando il mondo enoico ha scelto la freschezza.
E perché in fondo qui l’enologia conti poco: si fa vino coll’uva (bianca) di palomino, lo si fortifica, si fa l’invecchiamento coi travasi, da secoli. Neanche pensarci a far vini… normali, di più pronta beva.
E perché ci si radichi dunque così accanitamente nella tradizione produttiva, quand’invece nel far business si è tanto marketing oriented. Ché questo ho percepito visitando le bodegas (le cantine): da quelle parti sanno utilizzare tutti gli strumenti del marketing, eccome. E vale sia per le aziende maggiori (roba da milioni di bottiglie l’anno, tipo Gonzalez Byass, quella del Tio Pepe, o Osborne, quella che ha riempito d’enormi tori neri le collinette fianco autostrada di mezza penisola iberica) e pur anco quelle più piccine (tipo Bodegas Tradicion, con tanto di splendida, piccola galleria d’arte adiacente ai locali d’invecchiamento).
Aggressivamente, perfino, fanno marketing questi jerezani. Tanto da destinare - il consorzio - più di quattro milioni d’euro l’anno alla promozione: olè!
E i mega-produttori fanno del gran merchandising di magliette, cappellini, cavatappi, portafogli, foulard, cinture, orologi, spille, matite colorate, macchinine, giubbini e chissà quant’altro ancora, tutto rigorosamente marcato col logo aziendale e nient’affatto a buon mercato. E fan visitare i centri di produzione a bordo del trenino, con spiritosa & professionalissima guida: insomma, come a Gardaland, che uno i conti di quant’ha speso li fa solo il giorno dopo, ma in fondo non gliene importa granché dei quattrini lasciati, ché s’è divertito e quello è l’importante. Di nuovo: olè!
Insomma: tradizionalissimi a produrre, avanzatissimi a commercializzare. Anche se un po’ di crisi la tocchi con mano pure là: il mercato è asmatico. Ma pazienza - sembrano dir gli jerezani - se il vino è in controtendenza e i tempi son difficili e in fin dei conti il grosso si limita alla Spagna e al Regno Unito e all’Olanda e adesso anche al Giappone: avanti così, ché cambiare è quas’impossibile, visto le gigantesche masse di botti che fanno invecchiare il vino (ma lo sapevate che qualcheduna di quelle botti, avvinata per qualche anno con lo Sherry, finisce alle distillerie di whisky?).
L’occasione d’entrare nel profondo della terra dello Sherry me l’ha offerta la sezione del Veneto Occidentale dell’Associazione degli enologi ed enotecnici italiani, col suo viaggio di studio a Jerez de la Frontera. Con la guida di Daniele Accordini, presidente appunto degli enologi veneti, e di Giancarlo Prevarin, che guida l’Assoenologi nazionale. E col supporto di due aziende del settore: Vason (marchio noto, ma non conoscevo la simpatia di Giancarlo Vason) e Cadalpe. Eravamo, in squadra, una trentina di tecnici, tre giornalisti (c’erano Elisabetta Tosi e Lucio Bussi) e un blogger (Giampiero Nadali) e le note di viaggio di Lizzy-Elisabetta e Aristide-Giampiero le potete leggero rispettivamente su Vinopigro.it e su Aristide.biz.
Ora, aggiungo che Sherry-Xérès-Jerez sono nomi equivalenti: il primo è quello usato dagl’inglesi, il secondo arabeggia (fu plurisecolare il dominio islamico), il terzo è l’attuale, post riconquista cristiana. Il (ricco e ben organizzato) consorzio di tutela del luogo ha un nome complicato: si chiama Consejo regulador de las denominaciones de origen Jerez-Xérès-Sherry, Manzanilla-Sanlúcar de Barrameda y Vinagre de Jerez. Significa che sovrintende ai vini della zona, ma anche all’aceto che da quelle parti traggono dallo Sherry e che, garantisco, è interessante assai. Epperdipiù promuove il brandy locale (pronunciano bràndi, coll’accento sulla a, mica brèndi alla francese come noi), che non ha una denominazione d’origine, ma è famoso e molto presente anche sugli scaffali della distribuzione italiana. Per chi volesse approfondire, il sito consortile è questo qui: www.sherry.org.
Ora, mi resta da dire, e già sono stato lungo, delle due maniera di far affinare questi benedetti strani vini di Jerez. E dir dunque della crianza biologica e della crianza ossidativa.
L’origine è la stessa. Si pigia, in modo soffice, l’uva di palomino (più raramente il moscatel o il pedro ximènez, che si fa appassire sull’aia per una settimana e darà un vino dolcissimo e fascinoso, collo stesso sistema degli altri). Le fermentazione s’innesca con lieviti autoctoni. Compare a quel punto la flor, che è un velo di microrganismi (la fioretta, la chiamiamo da noi) che s’ispessisce poi fino a un centimetro e che protegge il vino dall’ossidazione e che conferisce sentori tipicissimi al vino. La flor agli jerezani non toccategliela: la considerano il vero segreto dei loro vini, insieme all’albariza, la bianca terra del posto, che s’indurisce e tiene sotto la poca acqua piovuta in primavera.
In gennaio-febbraio, si passa all’encabezado, alla fortificazione coll’alcol e al travaso in botte di legno. E qui si aprono due strade: le due crianze, le due diverse maturazioni, con la flor (la crianza biologica) e senza flor (la crianza ossidativa). Perché la flor per vivere e lavorare ha bisogno d’ossigeno (e dunque la botte viene lasciata scolma, ma il vino non ha contatto coll’ossigeno perché la flor lo protegge) e alcol non enorme, ché sennò muore. Dunque, alcune tipologie di vino verranno fatte fortificando a 15 gradi, e si continuerà l’affinamento in botte con quel velo di microrganismi (e il colore rimane intatto, giallo paglierino), mentre altri vanno oltre i 17 gradi e continueranno a invecchiare, anch’essi nel legno in parte vuoto, a contatto coll’ossigeno (e il colore va man mano imbrunendo).
Dopo la fortificazione, ecco che comincia il passaggio da una botte all’altra. Le file di botti si chiamano criadera: ce ne possono essere quattro, dieci, anche quindici di file, a seconda dello stile dell’azienda. Dalla fila più in basso, la solera, si prende una parte del vino e si passa all’imbottigliamento. Dalla fila di sopra, la prima criadera, si prende una stessa quantità di vino e la si mette nella solera. Dalla seconda criadera passa una medesima quantità di vino nella prima. Dalla terza passa alla seconda, dalla quarta alla terza e così via. Nell’ultima fila si aggiunge il vino dell’annata più giovane. Senza soluzione di continuità. Mescolando così vini di diverse annate. E allora, che età avrà un vino di Jerez? Un’età media: la si calcola in base al numero di criadera utilizzate, alla percentuale di vino che viene tolta a ogni travaso e alla frequenza dei travasi annuali. Quindi, quando su una bottiglia di Sherry vedete scritto 20, significa che lì dentro c’è un vino che ha un’età media di vent’anni, mica che viene dalla vendemmia di vent’anni fa.
A seconda del fatto che si proceda con l’affinamento in presenza o in assenza di flor, si ottengono vini con caratteri diversi, che son quelli che indico qui sotto.
Fino Fatto con la crianza biologica, sotto la flor. Giallo paglierino. Molto secco. Al naso è, come dicono a Jerez, punzante: è l’odore tipico della flor, che somiglia alla pasta di pane che sta fermentando, lievitando. In bocca è salino. Qualche nota di camomilla. Niente fruttato, niente. Piace un sacco agli spagnoli, che lo bevono per accompagnare le tapas, gli spuntini. Io faccio fatica a berlo, l’ammetto.
Manzanilla Sempre crianza biologica. Sempre giallo pallido e secchissimo. Ha, in aggiunta, qualche vena iodata. Per il mio gusto, vale lo stesso discorso fatto per il Fino.
Amontillado Prima crianza biologica e poi ossidativa. Nel senso che a un certo punto, dopo qualche anno, si va svanire la flor e il vino comincia così a ossidare. Diventa di colore ambrato. Ha un po’ la pungenza del Fino e insieme anche memorie di frutta secca, la nocciola in particolare. E quand’è ben fatto tira fuori certe vene che mi ricordano quando da ragazzino buttavo a seccare la buccia d’arancia sulla stufa. Secco. Le cose migliori sono interessanti.
Oloroso Solo crianza ossidativa: non c’è insomma alcuna influenza della flor, e dunque niente pungenza al naso. Può presentare invece ricordi di vanigliatura che ingannano: non è dolce. Ha speziatura (la cannella) e cuoio e vene quasi animalesche. Untuoso. Caldo per l’alcol, che comincia a esser alto. Secco. Ambrato. Ce n’è di molto buono.
Palo Cortado Una specie di Amontillado di categoria superiore. E di bella complessità. Insieme qualche memoria di crianza biologica e bell’evoluzione della crianza ossidativa. Tira fuori toni olfattivi di pasticceria traditori: pensi a un vino dolce e invece è molto secco. In bocca è salato. Finisce mandorlato. Raro, ma ce n’è in giro qualche bottiglia da applauso.
Pale Cream e Cream Uno Sherry secco addolcito con vini dolci. Supera il centinaio di grammi-litro di zucchero. Lo bevono soprattutto gl’inglesi: che lo bevano, preferisco le tre tipologie precedenti.
Pedro Ximénez E al cospetto di questo vino qui, quand’è ben fatto, mi ci inchino. Viene prodotto dall’uva omonima. Ed ha tanto, tanto zucchero: più (a volte ben più) di quattrocento grammi per litro, accidenti! Eppure le bottiglie «giuste» son memorabili: uva passa, caramello, nocino, cannella, chiodo di garofano, fico secco, albicocca secca, crema di nocciole, sentori di mobili antichi. Vellulato, avvolgente. Caldo d’alcol. Lunghissimo. Scuro, a volte nero, d’impenetrabile colore: eppure viene da uve bianche, appassite al sole per qualche giorno. Ma attenti: c’è in giro di tutto, da vinelli di poco costrutto e misero soldo, stucchevolmente dolciastri, a dei fuoriclasse commoventi. Commuovetevi scegliendo i migliori.

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