domenica 24 dicembre 2006

Top 2006 secondo me: venti bottiglie indimenticabili stappate nell’anno

Angelo Peretti
Eccoci qui con la classifica. La fanno tutti, perché non dovrei io? Del resto, c’è cambio d’anno, e dunque occorre far sintesi e metter ordine alla memoria. Eppoi, l’ammetto, è piacevole andare a rivedere gli appunti di tante bottiglie stappate, assaggiate, a volte proprio bevute, godute. E raccontarle.
Certo, far graduatorie è sempre arbitrario. E difficile, ché a volte quel certo tal vino porta con sé anche ricordi, emozioni, sensazioni che vanno oltre il fatto edonistico in sé. Ed è pure ingiusto, finendo inevitabilmente per accantonare qualcosa, qualcuno, che comunque vorresti - dovresti - valorizzare. Ma tant’è: il rito va rispettato.
Dunque: venti e non di più.
Dieci di quella che amo chiamare la Regione del Garda, ossia le province di Verona, di Brescia, di Mantova e Trento. Più Verona che le altre, e mi perdonino lombardi e tridentini (m’accorgo che soprattutto a Trento e dintorni ho avuto poche occasioni d’assaggio nell’ultimo anno, e dunque mi riprometto di rimediare nel nuovo).
Dieci fuori dai paraggi, altre latitudine, altre longitudini, altra Italia, altra Europa, e per stavolta niente fuori Europa.
In ogni caso, venti vini che mi piacerebbe ribere. Che mi hanno convinto. Emozionato, anche. E sono, insieme, bianchi, rossi e rosati. Già, anche i rosati: perché, son forse minori nell’Olimpo del vino? Ce n’è un terzetto addirittura, di rosé: due gardesani, uno francese. Piacevolissimi, secondo me.
Fuori Italia, c’è tanta Francia - e non sarebbe possibile altrimenti - un pelo di Germania (ah, i Riesling del Reno!), un vino dolce - straordinario e «antico» - di Crimea. E in terra italica anche un Moscato, ch’è un vino adorabile e troppo trascurato da’ bevitori, e n’ho trovato un’espressione altissima.
M’accorgo che non ho scelto bollicine. E comunque di buone - buonissime, talvolta - n’ho bevute, ma nella classifica non hanno trovato spazio: pazienza.
Eccoli, dunque, i venti top secondo me. In ordine rigorosamente alfabetico all'interno delle due categorie.
Prosit!

Top 10 della Regione del Garda

Amarone Classico della Valpolicella 2000 Manara
Lo scorso anno nella mia top c’era il 2001. Ebbene, di meglio c’è l’annata precedente: l’Amarone 2000. Ribevuto a distanza di tempo, m’ha nuovamente impressionato, e dimostra di tener salda quella sua eleganza delicatissima eppure lung’assai, quel frutto così calibrato. Niente palestra, per questo rosso: evviva. Bevuto a novembre.

Amarone Classico della Valpolicella Sergio Zenato 2001 Zenato
Inserendo fra i preferiti del primo semestre l’Amarone basic 2001 di Zenato, avevo detto che il fratello maggiore, la Riserva assaggiata allora solo en primeur, sarebbe finita probabilmente fra i miei must di fine anno. Così è. Grande Amarone. Tanto frutto, tanta spezia, corpo potente eppur anche agile e beva lussuriosa. Bevuto a luglio.

Bardolino Chiaretto 2005 Giovanna Tantini
Ah, Giovanna, che Chiaretto! Frutto, frutto e frutto. Da riempirseme l’olfatto e il gusto. Da masticare. Da assaporare. Da far rotolare in bocca. E poi la vena speziatina ch’è tipica delle corvine gardesane. E un colore deciso, marcato, eppure anche brillante e cristallino. Bell’espressione bardolinista. New Bardolino. Bevuto in settembre.

Garda Classico Chiaretto 2005 Vedrine
D’accordo: non è un colosso, ma vivaddìo m’è piaciuta l’opera prima di Vedrine, microazienda del Garda lumbàrd, che ha fatto, nel 2005, solo e soltanto questo vino rosè (ci vuol coraggio). Atipico, atipicissimo Chiaretto rivierasco. Più vegetale che fruttato, anche se la fragolina s’avanza impertinente. Avanti così. Bevuto in agosto.

Quaiare 2003 Le Fraghe
L’avevo detto a maggio che questo rosso era (è) un gioiello in termini d’espressione del terroir. «E pazienza se gli altri non saranno d’accordo», scrissi. Le guide non sono state d’accordo, ma per me resta uno dei vertici assoluti nell’area gardesana, un benchmark, un vino che ha un’anima e uno stile inconfondibili. Ribevuto a luglio.

Recioto Classico della Valpolicella Capitel Monte Fontana 2000 Tedeschi
L’annata 2000 fu d’equilibrio in Valpolicella. E gli Amaroni son buoni. Però straordinarie son certe bottiglie di Recioto, soprattutto oggi che cominciano ad aver maturità. Questo dei Tedeschi è un grand’esempio: avvincente per complessità e ampiezza olfattiva, ha in bocca finezza ed eleganza e misurata dolcezza. Goduto a dicembre.

Soave Classico Cà Visco 2005 Coffele
Oh, se mi piace il Cà Visco. Già en primeur, ancora scomposto dall’imbottigliamento di pochi giorni, m’aveva intrigato. Facendosi adulto, ecco l’inconfondibile suo charme. Il frutto pulitissimo entra deciso e lascia poi spazio alla freschezza e quindi riemerge, asciutto, nel finale. Bevuto in luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre...

Soave Classico La Rocca 1993 Pieropan
È tuttora buonissimo questo Soave del ’93. In forma smagliante dopo tant’anni, e freschissimo, e giovine direi, e vibrante e nervoso e teso. Ha frutto denso e vene minerali e lunghezza sorprendente e avvincente. Un bianco italico che può reggere il confronto coi grandi di Francia e di Germania. Bevuto a fine maggio.

Soave Classico Monte Fiorentine 2005 Cà Rugate
Che gran bianco che è il Monte Fiorentine. A mio avviso, uno dei bianchi più buoni e appaganti che sia dato di trovare sull’italico suolo. Gioiosamente bevibile, giocosamente succoso di frutto, festosamente vestito di fiori. Un vino che riesce a mettere insieme nobiltà e spensieratezza. Bevuto in luglio e in ottobre e in dicembre.

Valpolicella Classico Superiore Il Taso 2003 Villabellini
L’annata della svolta. Cecilia Trucchi col 2003 ha deciso di trarre uno e un solo vino dalle uve del suo brolo di Castelrotto, rinunciando (incredibile) perfino all’Amarone. Che vino che ne è venuto! Personalissimo, succoso di frutto, pregno di spezia, bevibilissimo e possente insieme. Gran bel rosso valpolicellese. Ribevuto a luglio.

Top 10 d’altre terre

Ai-Danil Tokay 1938 Massandra
Sul Mar Nero, in Crimea, esiste la più imponente collezione mondiale di vini invecchiati. In genere dolci o fortificati. È la Massandra Collection. Ho avuto la fortuna di poter bere il Tokay del ‘38 fatto ad Ai-Danil, vicino a Yalta. Poesia. Dattero, fico secco, arancia candita, melata, cognac, nocino, mandorla... Grandissimo. A dicembre.

Alsace Riesling Grand Crû Hengst 1997 Domaine Josmeyer
Quando lo comprai, in Alsazia, in cantina a Wintzenheim, ero convinto d’aver fatto un bell’acquisto. A distanza di mesi e mesi, questo Riesling s’è mostrato anche sopra le attese. La vena minerale e quella fruttata s’intersecano, si fondono in quello che ho già definito un amplesso lunghissimo e passionale. Bevuto a febbraio.

Côte Rôtie 2003 Benjamin et David Duclaux
Se non sbaglio, Parker, a questo syrah della Cote Rotie ha dato 93 centesimi di valutazione. Be’, li vale tutti. Il prezzo è sui 30 euro, pochi per un rosso di questa denominazione. Ancora giovane, ma già sul frutto s’innestano sentori d’erbe officinali, di timo. Elegantissimo oggi, chissà cosa potrà diventare. Bevuto in dicembre.

Côtes de Provence Château Sainte-Marguerite 2005 J. P. Fayard
Che la Provenza sia terra di bei rosati è noto. Quest’era bellissimo già dal colore, abbastanza tenue invero. Fragranze fruttate d’avvincente finezza: il piccolo frutto rosso di sottobosco, soprattutto. E poi una nota quasi balsamica, officinale, sottile, elegante. Una freschezza nervosamente sensuale. Buonissimo. Bevuto in agosto.

Côtes du Rhône Parallèle 45 2001 Paul Jaboulet Ainè
D’accordo, d’accordo: questo è «solo» il rosso di base di Jaboulet, ma porca miseria che base! Succoso di piccolo frutto, di mirtillo e d’amarena. Di lunga persistenza. Giovane dopo un quinquennio. Eppoi accettabile nel prezzo. Ve lo dico io: sarà anche un vino di base, ma rimpiango fosse l’ultima boccia. Bevuto a Pasqua, coll’agnello.

Erbacher Hohenrain Riesling Spätlese 1990 Schloss Reinhartshausen
Per me, non c’è bianco che tenga, di fronte a un gran Riesling. Tedesco magari, e invecchiato. Fra i Riesling - parecchi - bevuti nel 2006, questo l’ho trovato elegantissimo e splendido per equilibrio, dopo quindici anni. Il frutto e la vena citrina perfettamente integrati. La nota minerale equilibratissima. Fascinoso. Stappato a giugno.

Fiano di Avellino Clelia Romano 2004 Colli di Lapio
Uno dei bianchi più buoni che mi ricordi d’aver bevuto in Italia. Forse il più buono. Vino di terroir, classico e modernissimo assieme. Descrive i caratteri del vitigno e della terra. Un tripudio d’erbe aromatiche e di cedro e di litchie e di pesca bianca croccante e integra. Freschezza, armonia, lunghezza infinita. Bevuto a maggio.

Menetou-Salon Morogues 2004 Domaine Henry Pellé
Adoro i Sauvignon della Loira. Ma devo ammettere che questa bottiglia - d’una denominazione che m’era sconosciuta - l’ho comprata giusto per curiosità, perché era coup de coeur della guida Hachette 2006. E meno male che ho letto l’Hachette, ché questo è bel bianco, freschissimo, floreale, denso di frutto bianco. Bevuto a marzo.

Piemonte Moscato d’Autunno 2005 Paolo Saracco
Che complessità d’agrumi e albicocce surmature e pesche gialle in piena estate e fiori primaverili e miele e perfino la speziatura fine di certi dolcetti tedeschi. E che equilibrio, con quella freschezza che dà grande slancio e rende onore alla dolcezza. Ed ha lunga persistenza e gratificante beva. Gran Moscato, gran vino. Bevuto a settembre.

St.-Émilion Gran Crû Classé 1970 Chateau Fombrauge
Miseria che slancio giovanile che ci ho trovato in questo rosso bordolese ormai più che trentacinquenne. Il naso non era magari di quelli indimenticabili, ma la bocca, ragazzi… Che succosa freschezza. Quasi vinosa. Piena di vita. Ricca di frutto. Trovarne, di vecchietti così. Bottiglia bevuta, con soddisfazione, ai primi d’aprile.

mercoledì 20 dicembre 2006

Il cioccolato, il vino, il fiume

Angelo Peretti
Mi piace il cioccolato. Ne ho quasi dipendenza. Ma adoro gustarlo in solitudine. Ergo: niente bagno di folla alle fiere cioccolataie, che si moltiplicano da qualche tempo. Una di queste kermesse, fra le più importanti, è il Cioccoshow, che s’è tenuto a Bologna. E del Cioccoshow ho tenuto da parte un comunicato stampa, ripromettendomi di tornarci su. Spiegava che in occasione della rassegna bolognese nasceva il premio «Perfetto per il Cioccolato» riservato ai vini italiani passiti, liquorosi, da meditazione e da dessert. Diceva, testuale, così: «Il premio intende individuare non solo il vino più adatto ad essere abbinato al cioccolato, ma anche il perfetto connubio tra il vino stesso e una particolare tipologia di cioccolato artigianale».
Ebbene, ci torno sopra a questo comunicato per dire che no, non sono d’accordo. Perché ritengo che non cia sia e non ci possa essere alcun vino «perfetto» per il cioccolato.
Ora, capisco: gli organizzatori han fatto bene - in quanto a strategie di comunicazione - a mettere in pista ‘sto concorso, ché d’abbinata wine & chocolate si fa un gran parlare. È un argomento di tendenza, che attrae l’attenzione del pubblico. Per esempio, sui forum on line ogni tanto la questione torna d’attualità, e i post di commento s’infittiscono. E si finisce sempre lì: il Barolo Chinato, il Banyuls, il Porto Vintage, l’Ala Amarascato. Di più: cresce il numero de’ produttori che nel descrivere i loro vini dolci spiegano d’averli trovati adatti allo sposalizio cioccolatoso. Mosse di marketing: se la gente cerca vini da cioccolata, facciamogli credere ch’esistano, e piazziamoli. Poco importa, poi, se il vino vincitore del premio al Cioccoshow è gardesano, un passito della Civielle, leggasi Cantine della Valtenesi e della Lugana, ch’è un’affidabile realtà della riva lombarda del Benaco. Poco importa perché nossignori: vino e cioccolato insieme non ci stanno. Per dirla col Manzoni, «questo matrimonio non s’ha da fare».
Ma il Barolo Chinato… E ridagli con questa storia che ti ficcano in testa nei corsi di degustazione e sui rotocalchi da parrucchiera. Sì, ammetto, il Barolo Chinato ci può anche stare, come altri vini aromatizzati. Così come i fortificati francesi. Così come il Porto. Perfino qualche Recioto della Valpolicella riesce a reggere il cioccolato. Ma il problema è proprio lì: son tutte soluzioni che «reggono» il cacao, che lo sopportano, che sopravvivono. Mica che ci si esaltano. E un buon abbinamento è invece quello in cui il vino esalta il cibo e il cibo esalta il vino. È questo e solo questo, citando Veronelli, il «matrimonio d’amore».
A proposito di Luigi (Gino) Veronelli e della sua definizione. Riprendo il mano il suo libretto dell’84 «Veronelli. Matrimoni d’amore». E rileggo: «Nessun vino sulla cioccolata, torta e pasticcini al cioccolato, e sui gelati qualsiasi il loro gusto. Provocano un improvviso e immediato sovvertimento, un vero e proprio terremoto “palatale”. Il vino, bevuto sopra, avrebbe, a sua volta, sapore del tutto bistorto». Ecco, concordo e sottoscrivo.
Il fatto è che il cioccolato è il simbolo stesso della complessità. È grasso. È tannico. Talvolta è acido. Dicono che contenga qualcosa come trecento sostanze. Un gran bazar organolettico. Che liquido vinoso volete trovare ch’abbia una simile ampiezza? Per sgrassare la bocca da una grassezza del genere servono forti dosi d’alcol e d’acidità. E come li contrasti invece quei tannini?
Certo, sì, qualche gran vino riesce - dicevo - a sopravvivere. A malapena sopravvivere, insisto. Ma in genere è, appunto, gran vino, dal costo altrettanto grandicello. Che senso ha sprecarlo in un accostamento che sta in piedi a fatica, che non amplifica il piacere della beva, dell’assaggio, della gastro-libidine? Meglio gustare il vino e poi, di lì a un po’, il cioccolato. Solitario l’uno, solitario l’altro. Ma che gioia queste solitudini.
Piuttosto, cercate altri orizzonti.
Dicevo: serve alcol. E dunque alcol sia. Distillati. Rum, soprattutto, di bell’età. E poi forse Cognac, Armagnac, Calvados, whisky. Qualche grappa. Peccato che io non beva distillati…
Oppure, acidità. Acido come certe birre artigiane - magari d’abbazia - non trovate nulla. Le grandi birre ambrate e scure del Belgio, con quel loro fondo amarognolo e quella lunghezza speziata e quel tono di liquirizia e quei vaghi ricordi di frutta rossa macerata e fors’anche candita, e di buccia d’arancia essiccata. Ho testato, col cioccolato, l’Abt 12 della St. Bernardus, da Watou, Belgio: che bell’abinamento! E buono ho trovato il biscotto di cioccolato con la McChouffe, che viene dalle Ardenne, birrifico La Chouffe (e che dire dello sposalizio con N’Ice, la birra di Natale della stessa ditta?).
Ecco: questa è la frontiera: distillato o birra belga o acqua o nulla. Ma niente vino, please, col cioccolato.
Ora, almeno un’altra dritta ve la devo dare. Se siete a Verona, andate a cercare in via Fama. Un vicoletto che si distacca da corso Portoni Borsari, a due passi da piazza Erbe. Ci potete trovare buona musica e cioccolato lussurioso. La musica è quella dei cd che vende Carlo, ai Dischi Volanti. Il cioccolato è quello del negozietto della Magioca.
Dovete sapere che, in realtà, La Magioca è un bed & breakfast in Valpolicella, a Negrar. Un posto - credetemi - di quelli che pensate esistano solo sulle riviste d’arredamento. Una casuccia antica. Un salotto in stile provenzale che neanche in Provenza lo trovate così bello. Delle stanzette che uno non gli viene proprio voglia d’uscire. E una chiesuola dove fanno i matrimoni. Un giardinetto curato fin nel dettaglio. Una quiete assoluta.
Ecco, nel cucinino della Magioca si fanno poi cose miracolose. Si fanno cioccolatini. O meglio, li fa - iperartigianalmente - la signora Marisa. E sono delizie. A volte li infiocchetta uno per uno, a mano, con un fil di raso. Provate il marrone ricoperto di cioccolato: da svenire. E il cioccolato al caffè? E l’albicocca al cioccolato? E i quadrotti di cioccolato? Insomma: ne tastate uno e vi vien voglia di mangiarli tutti, alla faccia delle calorie.
Bene, dalle colline negraresi di Moron, i cioccolatini della signora Marisa sono scesi al capoluogo, a Verona, dove La Magioca ha aperto un piccolo shop. In via Fama, appunto. Li trovate lì, se volete. Garantisco: vale la pena.
Visto che siete nella viuzza, passate anche da Carlo, ai Dischi Volanti, e compratevi l’ultimo cd di Madeleine Peyroux. S’intitola «Half the perfect world». C’è sopra un brano di Joni Mitchell, e la Peyroux lo ricanta ch’è una meraviglia. Si chiama «River», che è il fiume. Ecco, a casa mettetevi in poltrona, abbassate le luci, accendete il lettore, fate partire «River», sbocconcellate il cioccolatino e beveteci insieme un po’ di birra ambrata, mica fredda. Tornerete a credere nelle favole, come quando eravate bimbi e aspettavate che arrivasse Santa Lucia o pensavate che Babbo Natale ci fosse davvero o insomma confondevate il sogno e la realtà.
Oh, se poi avete voglia, qui sotto chiudo col testo di «River». Portate pazienza: la traduzione è mia, l’inglese originale suona meglio. Spero solo d’averne resa, un po’, la malinconia.
Buon Natale.

River
di Joni Mitchell
Ecco, arriva Natale
Tagliano gli alberi
Appendono decorazioni
E cantano canzoni di gioia e pace
Oh, vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Ma qui non nevica
Qui resta tutto d’un verde così bello
Sento che farò un sacco di soldi
E poi la pianterò con questa pazzia
Oh, vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Vorrei avere un fiume così lungo
Da insegnare ai miei piedi a volare
Oh, vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Ho fatto piangere il mio uomo
Lui ci ha provato ad aiutarmi
Sai, m’ha fatta sentir bene
E l’ha amata così tanto questa birbante
Da farmi cedere le ginocchia
Come vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Sono così difficile da trattare
Sono egoista e triste
Ora me ne sono andata e ho perso l’uomo migliore
Che avessi mai avuto
Come vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Vorrei avere un fiume così lungo
Da insegnare ai miei piedi a volare
Oh, come vorrei avere un fiume
Al mio uomo gli ho fatto dire addio
Ecco che arriva Natale
Tagliano gli alberi
Appendono decorazioni
E cantano canzoni di gioia e pace
Oh, vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare.

sabato 16 dicembre 2006

Dell’appassimento breve: sarà New Valpolicella?

Angelo Peretti
L’Italia del vino di qualità si muove da sempre - che vuol dire da quindici-vent’anni, da dopo l’affaire metanolo - essenzialmente lungo due direttrici: il vitigno e la tecnica. Entrambi son al contempo, a mio pensare, punti di forza e di debolezza. Di forza, certo, ché da qui è scoccata la ripresa ed è scaturito il successo. Di debolezza, anche, ché non sono elementi unici e irripetibili. Il vitigno lo puoi ri-piantare altrove (il sangiovese - è un esempio - si coltiva anche in California o in Australia, adesso) quando non viene addirittura d’altri luoghi (leggi cabernet, chardonnay e dintorni). La tecnica è di per sé ri-producibile ovunque: uso del legno, riduzioni, appassimenti, ripassi, metteteci quel che volete.
La Francia del vino di qualità ruota da sempre - che vuol dire almeno da un secolo e mezzo, dalle prime classificazioni bordolesi - attorno a due perni: il marchio e il terroir. Il marchio è quello dei grandi (in dimensione e valore) negociant, oppure degli stessi château storici del Médoc (Latour, Margaux & Co.). Il terroir è affermato da chiunque voglia esprimere, appunto, l’idea di qualità, e alla regola non sfuggono gli stessi negociant. Giusto a titolo d’esempio, La Turque è sì un grande (grandissimo) rosso targato Guigal, ma è prima di tutto un crû e un’espressione del terroir straordinario della Côte Brune, nella vallata del Rodano, e in più porta bene in evidenza, in etichetta, la denominazione d’origine Côte Rôtie. Ecco, è vino di terroir, e l’espressione ingloba vitigno e tecnica e ne fa elementi d’un insieme virtuoso.
La premessa, lunga, è per dire che m’è capitato di partecipare all’ingresso in società d’un «nuovo» rosso di «scuola italiana» ch’avrebbe i crismi per diventare un vino di «pensiero francese». Per saltare l’ostacolo e guardare al domani.
Il vino è un Valpolicella Superiore dell’area classica: il Verjago della Cantina Valpolicella di Negrar. Sì, la cantina sociale negrarese, ch’è di quelle che lavorano bene, e bene tanto.
Ora, questo Verjago, alla sua prima uscita oggi coll’annata 2004, è un vino che potrei dir progettuale. Daniele Accordini, che della Cantina è direttore tecnico, ne ha illustrata l’origine, la concezione. Che provo qui di seguito a riassumere in tre fasi.
Fase uno: l’espressione di volontà. «Verjago - spiega Accordini - nasce con l’intento di restituire attenzione al vino simbolo della Valpolicella, al Valpolicella appunto. In un momento in cui l’Amarone sembra offuscare ogni luce proveniente da altri vini grazie alla sua potenza, alla sua concentrazione e al suo gusto internazionale, abbiamo sentito l’esigenza di riportare al centro della scena un prodotto legato anche con il nome al suo territorio di appartenenza, per secoli riferimento economico dell’intera regione». In sintesi: oggi che l’Amarone «tira», è ora di ridare smalto al Valpolicella. Applaudo.
Fase due: per mirar l’obiettivo, l’attenzione s’è focalizzata - correttamente - sull’indagine territoriale. «In collaborazione con l’Università di Verona - mi si dice - abbiamo analizzato per diversi anni le potenzialità viticole ed enologiche di numerosi vigneti situati nella fascia collinare della vallata di Negrar. Il lavoro ha richiesto lunghe indagini, tuttora in corso, portando alla luce l’essenza qualitativa di alcuni siti produttivi, prima conosciuti solo parzialmente, facendo emergere le espressioni più nascoste di alcuni territori e la maggiore adattabilità di determinati vitigni a particolari ambienti». Bene: è indagine sulle potenzialità del terroir negrarese e su alcuni suoi possibili crû.
Fase tre: il ritorno all’abitudine enologica italiana. «Nell’ideazione di questo vino - racconta il direttore - abbiamo quindi coniugato le varietà risultate più idonee con la tecnica tradizionale e antichissima dell’appassimento, prefiggendoci di ottenere un Valpolicella che potesse esprimere caratteristiche di eleganza e potenza unite ad autenticità e originalità». Ecco: vitigno più appassimento. Il Verjago è dunque figlio d’uve appassite, uve autoctone di Valpolicella. Come l’Amarone, pur d’appassimento più breve, molto più breve: la metà circa e fors’anche meno di quanto si usa per il potente rosso amaronista. Comunque vino «tecnico», ché mette in luce, soprattutto, la tecnica d’appassir l’uve, che trova nella Valpolicella la massima espressione. Ergo: il terroir, che pure era stato centrale nella progettazione, è in disparte. Ma mica gli faccio una colpa, alla Cantina, ché quest’è, appunto, l’impostazione italica, la scuola del pensiero nostrano.
Ma sarebbe ora di una svolta. E il progetto Verjago potrebbe essere un’occasione di quelle giuste. Così adesso cerco di spiegare perché.
Riparto dalla fase due: la ricerca sui terroir. I vigneti su cui la Cantina ha condotto l’indagine insieme coll’Università son tutti a Negrar e in collina. Anzi, in collina alta. Talvolta terre ch’erano quasi abbandonate, ritenute com’erano in passato meno interessanti in fatto di resa, quando la viticoltura era orientata a dar più quantità che qualità. Ma credo invece che quelli siano potenzialmente i pezzi di terra da seguire con più attenzione. Quelli da cui proviene la memoria storica dell’appassire. Ché ho una convinzione. Questa: l’appassimento, padre del Recioto e del figliolo suo Amarone, nasce da un’esigenza empirica, che è far fronte alla fame e alla carestia.
Era questa l’esigenza prima delle genti del passato: mettere da parte riserve d’alimenti per i giorni di vacche magre, così frequenti, ché i raccolti eran soggetti alle bizze del tempo. Nasce da qui l’industriosa creatività di tutti gl’insaccati e de’ salumi e delle conserve e delle marmellate e dei sott’aceti e dei sott’oli e dell’affumicato e dell’essiccato. Per il vino, era importante averne. Ma per chi tirava avanti vigna in collina alta c’era guaio in più: l’uva non maturava, e dava dunque vinelli aspri e subito acetici e per nulla capaci di durare. Ed ecco l’ingegno: se l’uva non matura in vigna, la si può far maturare in casa. Di qui l’appassimento, che concentra zuccheri. Se ne traeva dunque vino poco, ma alcolico e ricco di zucchero, nutritivo molto, e dunque passibile d’essere allungato coll’acqua per farne quantità maggiore. Per la romanità e per il tempo medievale e per l’età rinascimentale e insomma fin quasi ai giorni moderni, allungare il vino con l’acqua è stato normalità, per averne più quantità, più alimento.
Se quest’è vero, è forse la collina la terra madre dell’appassimento valpolicellese. Dunque, se si vuol fare Valpolicella da uve appassite, è corretto andare a cercarle lassù. Come ha fatto la Cantina di Negrar. Il problema è spostar la focalizzazione: non è per fare appassimento che si deve andare a trovar uve ne’ vigneti in quota, ma è per valorizzare il carattere - il genius loci - del terroir d’alta collina che si può utilizzare «anche» l’appassimento. E il Verjago questo passaggio culturale lo potrebb’affrontare, ché i presupposti ci sono - mi pare, e son convinto - tutti. E dunque potrebb’essere questo il New Valpolicella, il domani, il rosso valpolicellista di terroir. Che sia figlio d’appassimento, è meno importante.
Intanto, prendiamolo com’è, e ringraziamo la Cantina di Negrar che il coraggio, in questo progetto, l’ha mess’in campo per davvero.
Prima uscita, ho detto, è quella della vendemmia del 2004. Che ha fatto quaranta giorni d’appassimento e due anni di botte grande e nuova. Mi spiegano che l’uva messa ad asciugare fino a due settimane perde acqua nel graspo e solo poi concentra il frutto, che resta integro nelle fragranze sue fin verso i quaranta giorni e poi comincia la modifica aromatica che troveremo piuttosto nel bouquet dell’Amarone. Dunque, per conservar fruttato originario, occorre agire entro il mese e mezzo. Bene: questa è tecnica e va tenuta a mente: pre-requisito.
Adesso, qui di seguito, la scheda.
Valpolicella Classico Superiore Verjago Domini Veneti 2004
Alla sua prima uscita il Verjago è vino che sa il fatto suo. Ha oggettivamente all’olfatto frutto tanto e integro, fascinoso e piacevole, pur virando un po’ verso l’accento amaronista. La bocca apre ampia, ancora sul frutto. A mio dire, esce un poco il legno (ma ad altri non dà noia), e penso che forse due anni di botte son tanti. Vorrei un pelo in più di spinta acida, che dia slancio, lunghezza. In ogni caso, piacerà. Commercialmente sarà un successo, non dubito.
Per me, ora, vale un lieto faccino e quasi due, da rivedere, probabilmente, al rialzo col passar del tempo :-)
Verjago 2006 (dalla vasca)
Ho avuto occasione di provar la vasca del 2006 che sta nascendo. Prima della malolattica. Prima del legno, ovviamente. E be’, se il buon giorno si vede dal mattino… Ci ho trovato frutto bellissimo, che d’uva appassita non aveva neppure memoria. Ecco: queste fragranze van conservate.
Restasse questo slancio giovanile unito alla struttura ch’è di tutto rispetto, i faccini sarebbero di certo, domani, tre :-) :-) :-)
Ci va aggiunto, adesso, al Verjago, il carattere della terra sua, la capacità di narrarla, questa terra valpolicellese e i suoi crû e le sue vigne. E va modificato - penso - quanto dichiara l’etichetta: appassimento, legno - vabbé - ma mi dica qualcosa anche delle vigne, di dove sono e perché son quelle, proprio quelle. Sia vino terroirista della Valpolicella alta: trovi il coraggio. E gli sia lunga e lieta la vita.

sabato 9 dicembre 2006

Quei gemelli così diversi: i bianchi del monte del Toni e del Fice

Angelo Peretti
È un bene che ci siano persone intraprendenti, non c’è dubbio. Certo, il mondo va avanti grazie chi fa ogni giorno con giudizio l’opera loro: il panettiere che fa il panettiere, l’insegnante che fa l’insegnante, l’impiegato che fa l’impiegato e via discorrendo. Ma un po’ di sana intraprendenza è quella che permette il salto di qualità. Pensate se Cristoforo Colombo e Marco Polo non fossero stati intraprendenti. E se gli ex mezzadri veneti non si fossero scoperti artigiani prima e imprenditori poi, come si sarebbero potuto realizzare quello che chiamano il modello industriale dei distretti del Nord-Est?
Questo per dire che il signor Giorgio Pili, venditore per conto di un’aziendina di vini dell’area soavese, è fra gl’intraprendenti. Ché in ottobre mi scrisse: «Mi permetto di consigliarle un occhiata ai Vini d'Italia de L'Espresso a pag. 277 e pag. 302». E ce ne vuol di spirito per scrivere a uno che di guide ne fa un’altra (sono tra quelli che tastano vini per il Gambero & Slow Food) di leggersi il manuale dell’Espresso.
Ora, alle pagine citate della guida in questione si trovano: a) la scheda dell’azienda I Stefanini, a Monteforte d’Alpone e b) l’elenco dei «migliori acquisti» da farsi del Veneto, col numero uno affidato al Soave Classico Superiore Monte di Fice 2004 dei predetti Stefanini.
Gli è anche che di questa new entry del mondo soavista avevo già dato segnalazione in occasione del Soave Versus, citando il vino basic, il Soave Il Selese, dicendo che se il buon giorno si vede dal mattino...
In più, gli è pure che pochi giorni prima della mail di cui ho detto ero stato in visita alla cantina. E adesso vi racconto com’è andata. Ché ne vale la pena: quest’è una delle piccole realtà che saranno grandi, ci si potrebbe scommettere. Ovvio, se non si montano la testa, se tengono i piedi ben piantati per terra, se fan le cose per bene. Se, se, se, ma l’impressione è che ci siano la testa e il cuore e che ci si possa contare.
Ordunque, I Stefanini - coll’articolo alla veneta, ché i veneti hanno articoli strani (vedi «la» sale e non «il» sale) e in italiano sarebbe invece giusto «gli» Stefanini, e questa scelta vernacola la dice lunga, spero, sul radicamento alla terra natìa - I Stefanini, dicevo, sono in realtà a Costalunga, ch’è frazione del comune di Monteforte d’Alpone, zona classica del Soave. Zona che sembra, nell’aspetto, quasi un pezzo della Sicilia etnea, con quelle pietre laviche nere come il babào utilizzate per farci muriccioli e case, e in mezzo ci crescono perfino i capperi. Qui ci stanno i Tessari, e siccome, come spesso accade, le famiglie collo stesso nome son tante e tante, ci si conosce per soprannome, e dunque quest’è il ramo dei Tessari ch’erano e son chiamati I Stefanini, probabilmente - presumo - per via di qualche antenato che aveva nome Stefano o va a sapere perché. E insomma, hanno deciso di metterlo in etichetta questo loro appelativo quando, viticoltori da sempre, han preso coraggio e, abbandonando la cantina sociale cui conferivano l’uve, han fatto mutuo e mess’in piedi un’azienda tutta loro. Lavorandoci tutti, nella cantina nuova: tutta la famiglia, intendo. Prim’annata il 2003.
Han fatto in tutto, nel 2005 (come sia andata la vendemmia del 2006 e quali siano le previsioni non lo so) trentamila bottiglie in tutto, il che dà l’idea che le dimensioni son piccine, anche se le potenzialità ci sono. Hanno infatti, a Costalunga, una ventina d’ettari di vigna. E solo tini in acciaio: niente, ma niente legno. Bravi.
Dei vent’ettari, una parte è sui pendii d’una collina che qui chiamano il Monte Tenda. Un crû, direbbero i francesi. Era, quel monte, in ampia parte loro, dei Tessari. Poi, man mano, cogli anni, se n’è venduto un pezzo a questo e un pezzo a quello, ché non era terra granché produttiva, difficile da coltivare. Erano i tempi in cui la quantità era la ratio prima della campagna. E insomma, ne son rimasti appena due ettari, e in certe annate siccitose non ci si andava neppure a provare a tirar giù l’uva, ché in vigna n’era rimasta così poca. Giacché, anni fa, questi Tessari del ramo Stefanini decisero che anche quel paio d’ettari tanto valeva darli in gestione agli operai, che ne tirassero fuori quel poco di vino che ne veniva, giusto per il loro consumo familiare.
Ora, i lavoranti in questione erano detti l’uno il Toni e l’altro il Fice, e gli appezzamenti dati in gestione cominciarono a esser chiamati il Monte del Toni e il Monte del Fice. Ed oggi che I Stefanini sono azienda, han capito che quei due lacerti di vigna sono dei gioiellini da valorizzare. E dunque ne han tratto due vini separati. Due Soave di rango. Della categoria Superiore, quella a docg, a denominazione controllata e garantita. Il Soave Classico Superiore Monte de Toni e il Soave Classico Superiore Monte di Fice, appunto. Diversi, i due vini. Diversissimi tra loro. Tanto diversi che – son sicuro – trovano e troveranno entrambi i loro estimatori, pronti a dividersi in fazioni opposte.
In più, oltre ai due Superiori, fanno il Selese, il Soave basic, di cui ho detto. E un Recioto, in acciaio, alla buon’ora. E qui di sotto vi dico quel che penso dei vini. E, attenti, d’entrambi i Superiori racconto due annate, ché credo ne valga la pena. E se avete pazienza, alla fine vi dico anche quanto costano ‘sti vini, e anche questa è una sorpresa interessante.
Soave Il Selese 2005
L’avevo provato a luglio. E avevo scritto che «c’è tensione e mineralità e fiore». Confermo. Aggiungo: naso tra il vegetale e il floreale, ancorché un po’ compresso. Bocca davvero tesa e nervosa, e un po’ rustica, anche. Ribadisco il giudizio d’allora: buono, davvero.
Due faccini contenti :-) :-)
Soave Classico Superiore Monte de Toni 2004
Santo cielo, che scontrosità! Ha, questo Toni del 2004, naso minerale, quasi «cattivo» nella sue espressioni basaltiche. Ed anch’in bocca non scherza, teso come una corda di violino, affilato come un rasoio. Carattere inaudito. Secco, lungo, fresco. Se vi piace un bianco che insieme al frutto e quasi sopra ad esso esprima grafite e pietra focaia, avete trovato risposta. A me piace, sissignori.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Superiore Monte de Toni 2005
Ma come: è il fratello dell’altro e gioca invece su tutt’altri registri? Qui c’è frutto e frutto e frutto. Sembra, quasi, ruffianamente fruttatino, ed è succoso, e gioioso. Dicono, i Tessari: «Era così anche l’altro, e poi, dopo l’estate, è diventato quel che è diventato. È sempre andata così coi bianchi di quel pezzo di monte». E già però s’avverte, sotto il frutto, quella vena quasi balsamica, e un po’ di nota minerale appena appena accennata. Buono oggi, cosa diventerà domani? Il giudizio lo stilo dunque sull’oggi, riservandomi futura rettifica. In crescendo, ritengo.
Per ora, due lieti faccini :-) :-)
Soave Classico Superiore Monte di Fice 2004
Ha, in effetti, bel bouquet fruttato e già memorie minerali che un po’ richiamano quelle del Toni, senza però assumerne la scorbutica possanza. E cenni poi floreali. In bocca è mela, croccante. Agile. M’aspetterei però un finale più asciutto, e invece chiude morbido, ed è un po’ un peccato, ché attendevo un’uscita più vibrante. Ed è propri questa una delle caratteristiche che cerco in un Soave: l’uscita asciutta, che metta a nudo il frutto. Ma son pareri miei, ch’è comunque signor vino, ‘sto Fice.
Un faccino gaudente e quasi due :-)
Soave Classico Superiore Monte di Fice 2005
È davvero il fratello del 2004. Con una marcia in più sulla vena minerale, ché di già ben sottesa, e quest’è un bene, ché mi compensa quel frutto così morbido, concentratissimo. Confermo: buono, ma fra i due crû continuo a preferire il Toni. Anche se so che questa morbidezza troverà molti e molti adoratori di certo.
Ride il faccino e son quasi due :-)
Recioto di Soave Togo Rosso 2004
Ora, non riesco a capacitarmi di come si possa chiamar «rosso» un Recioto bianco. Capisco: è il nome del terreno, quel tufo rossastro che qui chiamano proprio togo rosso. Ma insomma, permettetemi di rimanere perplesso, sull’intitolazione. Perplessità non ne ho invece sul vino, ch’è Recioto fatto in acciaio. Ha fragranza floreale e finezza. E in bocca la freschezza tiene in bell’equilibrio lo zucchero. Più che un passito, sembra quasi una vendemmia tardiva. E ha sentori di nocciola e noce. Finisce quasi tannico ed ha un che di rocciosa presenza: non è un caso che venga dall’uve della zona mediana del monte, vicino alle vigne che furono del Toni.
Due lieti faccini :-) :-)
Ora, avevo detto dei prezzi. Tenetevi: 2.70 per il Selese, 3.70 per il Toni, 4.50 per il Fice, 5.00 per il Recioto. Da comprare a casse.
Ah, non badate alle etichette: quelle non sono gran cosa (anzi!), ma pazienza. Conta di più il contenuto che il contenitore. E teneteli a mente, questi Stefanini da Costalunga.

martedì 5 dicembre 2006

Mi piace il panettone all’amarena (e che dire del Moscato d’Autunno?)

Angelo Peretti
Consigli per gli acquisti. Gran bell’eufemismo hanno inventato quelli della tv per sostituire la parola pubblicità. Chi è l’inventore? Chissà, forse Costanzo. Boh.
Adesso, sì, lo capisco: quando leggerete del panettone, qui di sotto, vi potrà sembrare d’essere alle prese con una specie di spot pubblicitario. E so anche che non dovrei fare ‘sta premessa, perché «excusatio non petita, accusatio manifesta». Ma che ci posso fare se son goloso? Allora prendetelo per quel che è, quest’«editoriale»: la confessione d’un golosastro.
Eppoi, ammettiamolo, in giro c’è l’aria del Natale che arriva. Quella più commercialotta, magari, con le botteghe che si riempiono di pupazzi e i supermercati di dolciumi. I babbinatale di pezza sono lì ad arrampicarsi sulle facciate delle case, ché questa sembra la decorazione imperante. E le città sono vestite di lucette, alla faccia della Finanziaria. Dunque, I wish you a Merry Xmas.
Ora, a fare i giornali - anche se sono on line come InternetGourmet - c’è un vantaggio: Babbo Natale arriva talvolta sotto forma di corriere. Magari portandoti un grosso scatolone d’una ditta dolciaria. Tu lo apri, provi i prodotti, e… caspita che roba buona: panettoni. Panettoni tradizionali, panettoni innovativi. Comunque gran panettoni.
La pasticceria che m’ha omaggiato en primeur rispetto ai giorni festaioli la conoscevo di già: Loison, da Costabissara, Vicenza. Pasticceri dal 1938. Qualcosa fra le loro produzioni dolciarie l’avevo assaggiato gli anni passati. Sapevo che lavorano bene, anche con numeri che non son più esattamente quelli del forno di paese. Ma il panettone alle amarene non l’avevo mai provato. Anzi, non sapevo neanche ch’esistesse. Adesso che l’ho finito, un po’ di rimpianto mi viene, e siccome m’è piaciuto, ve lo racconto. Ché chissà che non l’incrociate anche voi.
Dunque: il panettone all’amarena. Lo fanno, i Loison, da tre anni. Per un tardo cedimento - dicono - alle richieste d’alcuni clienti, dopo un paio di test su un ristretto team d’amici e di fans. In sintesi: nell’impasto, che è fatto con roba buona (tanto per dire: vaniglia vera, mica vaniglina chimica), c’è dell’uvetta, per giusto rispetto alla tradizione, e insieme a quella ci sono le amarene intiere, denocciolate, a sostituire i canditi. Ne vien fuori un panettone insieme polposo e delicato. E pazienza per le calorie.
A proposito: dicevo della vaniglia. Usano, i Loison, la Mananara del Madagascar, presidio di Slow Food, ed è una bella cosa che le aziende comincino per davvero a veicolare queste biodiversità che il movimento della chiocciolina ha messo sotto i riflettori. Come in Sicilia, nel Palermitano, dove nasce il mandarino tardivo di Ciaculli, altro presidio Slow, altro prodotto scelto dai Loison. E forse, ecco, se dovessi ritoccare qualcosa, metterei mano a una ricalibratura proprio del panettone al mandarino - altro prodotto del medesimo forno -, in cui l’agrume mi pare un po’ coprente sull’impasto. Insomma, condivido il parere dubbiosetto espresso dal Gambero Rosso nel numero ch’è in edicola ora, in dicembre: «Certo, con le materie prime utilizzate speravamo in un risultato finale di maggior rilievo al palato…» Ma ammette anche, il Gambero, che qui c’è un buon rapporto qualità-prezzo. E dunque sia.
Eppoi, ho detto, c’è il panettone all’amarena, che rimangerei subito, di botta. Ed è di nuovo opulente il panettone classico, il 1476, il top di famiglia.
In più, le confezioni, fatte a mano tutte, son molto belle, e quasi (quasi, suvvia) ti dispiace un po’ a scartarle, a togliere i fiocchetti, a rompere le belle carte. Così si fa. E nelle linee di punta aggiungono un fascicoletto che ti guida all’assaggio e t’invita a compilare la scheda tecnica di degustazione, con tanto di spazio per le sensazioni visive, tattili, olfattive e gustative. Direte: è marketing. Può essere, ma per esempio io non ci avevo mai posto attenzione prima a tutta una serie di parametri come il colore esterno, quello interno, la struttura, la ricchezza, la freschezza, la reazione al taglio, la consistenza, la morbidezza, la fragranza, la complessità, la burrosità, la sensazione del lievito naturale, quella della frutta candita, la persistenza aromatica, l’intensità del gusto, la sua complessità, la dolcezza, il sentore d’uova, di burro, di cedro, ‘d’arancio, d’uvetta, il retrogusto, la piacevolezza complessiva, la soddisfazione personale, la tentazione, l’eleganza. Tutti elementi cui dare un voto: non sufficiente, normale, buono, ottimo, eccellente, secondo la scala di valori individuata. Sarà anche marketing, ma così si fa cultura del cibo.
Buon Natale, gente dei dolci: leverò un calice anche per voi. A proposito: che berci insieme coi panettoni, con che brindare?
Per quello all’amarena, direi nulla, ché è intensissimo e un vino non ce lo vedo insieme. Semmai, dopo, un po’ dopo d’averlo assaporato, andrei a cercar di riprendere il gusto d’amarena in un passito o in un fortificato: un bicchiere di Recioto di Valpolicella ad esempio (magari il tribicchierato, avvolgente Recioto di Bussola) o un Rivesaltes rouge (e qui l’opzione è per quello che fa Chapoutier, annata ’98).
Per il panetùn classico, la scelta è univoca: Moscato. L’effervescenza aromatica d’un Moscato. Quello, straordinariamente buono, di Paolo Saracco: il Moscato d’Autunno, doc Piemonte, annata 2005.
L’ho bevuto a Milano, in un wine tasting, il Moscato d’Autunno. Dico: bevuto. Di solito, in queste occasioni, annuso, assaggio e sputo, ché non puoi mica mandar giù tutto, soprattutto se i vini in prova son decine e decine. Ma questo no, l’ho proprio bevuto. Come facevo a sputarlo, da buono che è? E confesso che son passato due volte al tavolo, per berlo di nuovo. Che complessità d’agrumi e albicocce surmature e pesche gialle in piena estate e fiori primaverili e miele e perfino la speziatura fine di certi dolcetti tedeschi. Che equilibrio, con quella freschezza che dà grande slancio e rende onore alla dolcezza. Ed ha lunga persistenza e gratificante beva. Cercatelo ‘sto vino, suvvia, e godetelo col panettone.
E buon Natale in anticipo anche a voi che leggete. Alla fin fine, manca poco alla festa del Bimbo divino.

mercoledì 29 novembre 2006

Quel colosso che ha sede a Soave si muove fra marchio e denominazione

Angelo Peretti
Impressive, dicono gl’inglesi. «Parla come mangi» mi si può obiettare, e dunque dovrei scrivere, all’italiana, «impressionante». Ma non è la stessa cosa. Se affermo, in italiano, che una tal cosa mi fa impressione, posso voler significare che mi fa ribrezzo. Insomma, impressionante ha spesso, qui da noi, un’accezione negativa. Diverso è dire che la tal cosa è «impressive», ché allora intendo metterne in luce l’imponenza. E infatti «impressionante, imponente, commovente, solenne» argomenta il mio dizionario d’inglese per l’aggettivo «impressive».
Ora, impressive è proprio quanto m’è venuto in testa sfogliando il bilancio della Cantina sociale di Soave, quello chiuso a giugno 2005 (il bilancio qui lo fanno da un giugno all’altro). Che dite? Che esagero? Sentite qua: 63 milioni di euro di fatturato contro i 58 dell’anno prima, 26 milioni liquidati ai millecinquecento soci che hanno conferito uve (26 milioni, capito? vuol dire qualcosa come 48 euro di media al quintale), 757 mila euro di utile (ed è una cooperativa, che per statuto non punta all’utile), cash flow di quasi 5 milioni (tutta liquidità da usare per gli investimenti), un patrimonio di 27 milioni di euro. Chiamatele noccioline…
Capisco la soddisfazione del presidente, il commendator Luigi Pasetto: «La sostanza, la credibilità di un’azienda come la nostra sta nelle somme liquidate ai soci. È un risultato che proviene da un’organizzazione aziendale che ha poco da invidiare ad altre realtà cooperative» dice, e bando alla falsa modestia. «Si tratta di un bilancio – gli fa eco, senza peli sulla lingua, il direttore generale Bruno Trentini – in controtendenza rispetto ad una situazione di grave difficoltà per il settore, a causa dell’incapacità dei produttori di affermare i propri marchi. Tale fragilità si traduce in una debolezza commerciale che gioca a favore della grande distribuzione, la quale progressivamente porta ad una riduzione dei prezzi d’acquisto; così la forbice tra costo del vino e costo della bottiglia finita si riduce sempre di più, con grave sofferenza delle aziende. In questo difficile contesto, la nostra azienda si è mossa cercando innanzitutto di puntare sulla valorizzazione dei nostri marchi, per i quali abbiamo ottenuto risultati significativi». Miseria se è parlar chiaro.
Adesso, un paio di sottolineature.
La prima: avete fatto caso? Pasetto e Trentini, presidente e dg, nelle loro dichiarazioni usano la stessa parola: azienda. Già, sarà anche una cooperativa, ma qui l’impostazione è tutta imprenditoriale.
La seconda: Trentini dice che la priorità è la valorizzazione dei marchi. E qui si apre il dibattito. Il quesito è questo: un produttore del calibro della Cantina sociale di Soave deve valorizzare il marchio o la denominazione d’origine? Insomma: prima l’azienda o prima il territorio?
Facciamo un passo indietro. La scelta strategica della Cantina soavese di puntare su marchi specializzati è stata indovinata, visto che i fatturati son cresciuti in tutti i settori: 20 per cento in più, nel complesso. Se volete, ve li riassumo anche, i brand. C’è il Cadis per la grande distribuzione: è quello più rilevante come quantità. Accanto, ecco il marchio Le Poesie, rivolto al settore ho.re.ca. (vuol dire: hotel, restaurants & catering, se non sbaglio), ma commercializzato dalla medesima rete di vendita del Cadis. Poi, due marchi gestiti da una rete specializzata per la ristorazione: Rocca Sveva e Maximilian, quest’ultimo riservato allo spumante. E altri marchi «minori» a completare la gamma. La diversificazione di etichette e di reti di vendita è risultata un’arma vincente. «Attraverso i marchi siamo riusciti a valorizzare i nostri prodotti ed a gestire i mercati» sostiene Pasetto. Ma il marchio è un’arma di tipo prettamente aziendale. E la doc?
Sulla doc, Trentini ha le idee chiare. Potrei tentare di riassumerle così, se ho ben capito: la doc è una valore, e va sostenuta, ma tutti devono fare la loro parte, altrimenti meglio pensare al marchio. E spiego. «Le doc - fa il direttore - sono delle opportunità, ma anche una possibile palla al piede. È necessaria una politica unitaria. I Consorzi non devono fare solo controlli, ma anche comunicazione e promozione. Occorre promuovere la denominazione nel mondo, attuando una politica strategica comune fra tutti gli operatori. Occorre fare sistema, come accade nell’ambito del Soave, altrimenti prestiamo il fianco a chi fa solo politica di marca». E che la Cantina soavese abbia usato la marca come grimaldello per aprire i mercati, ma che nel contempo pensi anche alle doc, vien fuori da un’altra affermazione di Trentini: «Non è esclusa la nostra progressiva uscita dal settore delle private label, i vini ad etichetta personalizzata per le catene commerciali. È un settore marginalizzato sia in termini di redditività, sia in termini di valorizzazione delle denominazioni. Se la denominazione è molto presente nelle catene dei discount, finisce per essere deprezzata». Insomma: se si vuol investire sulla doc, lo si faccia, ma tutti insieme, inestendo in promozione. «Punteremo sempre al binomio marca-denominazione – aggiunge il direttore – ma quale sarà la visibilità che daremo alla denominazione rispetto alla marca dipende da quanto risalto verrà dato alla denominazione da parte degli altri attori della filiera».
Come dite? Che vi sembra un ricatto? Nossignori: è sano, sanissimo realismo. Ché il vino mica lo si fa per diletto: è un prodotto, e come tale deve stare sul mercato. Anche il vigneron più poetico e garagista le sue bottiglie le vuol poi vendere, mica regalarle ai fan. Ergo: tutti sulla stessa barca. A remare nelle stessa direzione. Ergo, c’è da capirlo Trentini quando sostiene: «Siamo contenti, ma non euforici». Perché - parole sue - «la prospettiva del settore non è rosea». Aggiunge: «La competizione in atto è pesante e se la produzione non si pone di fronte a questa competizione in modo organizzato può prestare il fianco alle speculazioni».
Ora, a parte il realismo, c’è da chiedersi: è questa la via unica? O marchio o doc? E ci potremmo dividere fra il partito del sì, quello del no e quello del forse. Dico solo (ripeto, anzi): questo qui che fanno a Soave è parlar chiaro, è avere una strategia. E con chi parla chiaro e ha strategie - condivisibili o meno che appaiano - ci si può (ci si deve) confrontare. Il problema è quando le idee non ci sono, o al massimo son nebulose o evanescenti, e purtroppo è l’impressione che si ha in tanti territori enoici. Questi invece - insisto - hanno idee e fanno anche risultati. E hanno quattrini, tanti, e se vogliono possono averne anche di più.
Dicevo: 5 milioni di cash flow, fatturati record, pagamenti pesanti ai soci. E un indebitamento bancario che è pari soltanto a un quarto del patrimonio, con la chance, dunque, d’attingere ancora a tanto credito. Insomma: se vogliono, questi sono pronti a fare shopping. Già si son presi la Cantina sociale d’Illasi, arrivando a metter le mani, oltre che sulla maggioranza del Soave, anche su una fetta enorme di produzione di Valpolicella. Più avanti che cosa faranno? Mica possono star lì con le mani in mano, è chiaro. «Abbiamo sempre valutato positivamente le aggregazione nel mondo cooperativo» butta lì, sornione, da politico navigato qual è, il commendator Pasetto. Antenne lunghe, signori, ché questi li san fare gli affari.
Poi, sanno anche leggere il mondo che gli gira intorno. Prendete la relazione di bilancio. In apertura si fa l’esame della vendemmia 2005, che fu scarsa un po’ ovunque a livello nazionale, ma questa scarsità «non ha condizionato, come di solito accadeva, in modo diretto i prezzi dei vini, anzi, nel corso dell’anno i prezzi sono scesi ulteriormente» (sto citando le prime righe). E qui gli amministratori s’interrogano, e redigono una pagina di buona analisi: «Cosa significa – scrivono – questo fenomeno? Significa che la legge della domanda e dell’offerta a livello internazionale non è più condizionata dal variare dell’offerta nazionale e ancor meno dal variare dell’offerta di una singola denominazione. La grande disponibilità a livello mondiale è ormai tale che i nostri prodotti o sono in equilibrio di valori (prezzo, qualità, immagine) o sono fuori mercato». Dunque, c’è da confrontarsi coi prezzi che tendono a scendere. «Questa serie di ribassi nei vini – sta scritto sul bilancio – sta mettendo in discussione la sopravvivenza di tanta viticoltura in aree dove, indipendentemente dalla qualità delle uve dei vini prodotti, la mancanza di capacità commerciale e di organizzazione del territorio sta portando le remunerazioni sotto ai costi di produzione. Ciò deve preoccupare tutto il settore». Sissignori.
Dunque: idee, strategie, capacità di analisi. Già. Ma sanno anche fare il vino, ‘sti signori di Soave? Intendo: hanno vini interessanti, oppure puntano solo alle quantità e ai prezzi?
Per rendermene conto sono tornato in Cantina a fare un wine tasting, scegliendo a caso le bottiglie fra le varie linee. Anche i vini da supermercato, yes. Bianchi e spumanti, soprattutto. Ne ho selezionati quattro: due Soave e due bollicine. Leggete - se volete - qui di sotto.
Soave Classico Superiore Castelcerino Rocca Sveva 2005
Niente da obiettare. Anzi. Un bel Soave Superiore. Pulito. Di carattere. Garganega e trebbiano. Fatto in acciaio. Ha naso tra il vegetale e il floreale. Vi s’avvertono in più toni di mela acerba. In bocca sfoggia struttura. Ed ha beva. Succosa. E buona freschezza. Finale abbastanz’asciutto. Allo shop della Cantina sociale, a Soave, costa, sullo scaffale, 5,99 euro.
Due lieti faccini :-) :-)
Soave Classico Villa Rasina 2005
Se il Superiore della linea Rocca Sveva, quella di punta, m’aspettavo di trovarlo buono, questo qui, un vino destinato alla grande distribuzione, è una sorpresa. Per carità, è la linea top fra quelle da supermercato. Epperò il vino è davvero ben fatto. Magari un po’ didattico, un po’ mirato su quella «tipicità» ch’è dettata dal disciplinare, ma chi lo compra non se ne pente. Non è in vendita allo shop a Soave, e dunque non so cosa costi, ma credo poco.
Un lieto faccino e quasi due :-)
Soave Brut Maximilian
Be’, se cercate uno spumantino senza grilli per la testa da stappare per l’aperitivo disimpegnato, compratelo a casse ‘sto brut soavese. Destinato alla gdo, lo si può acquistare in Cantina sociale a nientepopodimeno che 2,53 euro la bottiglia: non scherzo, costa come una birretta di quarta serie. Ha, all’olfatto, memorie floreali, non intense, d’accordo, ma comunque pulite. In bocca è morbido. Ha fruttino e fiore. La carbonica magari è un po’ in rilievo, ma ci può stare. Un’altra sopresa, dopo il Soave detto sopra.
Un lieto faccino e quasi due :-)
Brut Metodo Classico Equipe 5 2002
Ex marchio di culto della spumantistica trentina, adesso l’Equipe 5 lo fanno a Soave con le uve del posto: lo chardonnay della collina di Campiano in primis. E questo 2002 non è niente male, con tutta quella crosta di pane a renderne intrigante il naso e la burrosità che avvolge il palato. Mica male, proprio mica male. Se poi pensate che allo shop della Cantina lo trovate a 6,89 euro…
Due lieti faccini :-) :-)
E qui mi fermo. Un’altra volta, magari, proverò anche i rossi. Bye.

giovedì 23 novembre 2006

Nulla accade per caso: le ragioni della Valpolicella felix

Angelo Peretti
Qualcuno che conosco è convinto che nulla accada per caso. Ma difficilmente intelligibile resta, per i modesti mezzi dell’uomo - e soprattutto per i miei -, la ragione di certi accadimenti. È già fatica, molta, capire che t’accade attorno giorno dopo giorno, nella tua sfera personale, ed io non sempre ci trovo risposta. Figurarsi gli eventi che superano la tua dimensione, e che a volte si fanno addirittura planetari. A meno che si creda - e credere è la parola giusta - che l’umana avventura abbia un fine ultimo, assoluto e trascendente. Ma qui entriamo nel campo della filosofia o della fede, che - forse - non compete a un web magazine che s’occupa invece di vino e di gastronomia.
Diversa è la questione quando si gravita nell’ambito dell’economia di mercato, ché qui sì che le cose non possono davvero accadere per caso. Nel senso che ad ogni avvenimento, ad ogni fenomeno, c’è - si può e deve trovare - una spiegazione.
Ordunque, nell’ambito della microeconomia vinicola delle terre di cui più mi occupo, ossia quelle della regione gardense, è avvenuto negli ultimi anni qualche cosa d’anomalo. Mi riferisco al fatto che almeno da un paio d’anni un po’ ovunque, nel mondo intiero, il vino è entrato più o meno in stallo, con poche, pochissime eccezioni, ed una di queste è la Valpolicella. Ma non solo il territorio valpolicellese non ha conosciuto crisi - se non un breve, temporaneo assestamento -, ma addirittura ha consolidato e accresciuto la propria penetrazione sui mercati. Tant’è che perfino un’annata balorda come quella del 2002, con le piogge e la grandine, ha finito per premiare l’Amarone, o almeno quel poco che se n’è fatto, e chi ha optato per la (saggia) scelta di non realizzarlo in quell’annus horribilis, be’, un po’ s’è mangiato le mani, perché la domanda è comunque rimasta buona. Non solo. Nell’ultima vendemmia, sono state rare le aree viticole d’Italia che abbiano visto quotazioni in crescita per l’uve, ed anzi l’unica che ha volumi importanti è, appunto, la Valpolicella. Un successo che lascia letteralmente a bocc’aperta.
Ora, se quest’è un fenomeno dell’economia, e se in economia, appunto, nulla accade per caso, occorre seriamente interrogarsi come sia potuta capitare una cosa del genere. Ritenendo semplicistico sostenere che è andata così perché l’Amarone è un vino di tendenza, che è denso, corposo, fruttatissimo eccetera eccetera. Vero, l’Amarone risponde ai canoni di successo sui mercati internazionali, ma gli altri rossi che hanno identità simili - vedi i Supertuscans - hanno pur’essi conosciuto un cert’arretramento. «Di Toscana non ne vendo più neanche una bottiglia, di Barolo nemmeno» mi dicono molti ristoratori. E allora?
E allora quando si vuol capire un fenomeno economico, occorre far le cose per bene, e ricercare con metodo la spiegazione. Quest’ha fatto il Consorzio di tutela dei vini della Valpolicella, che non a caso, permettetemi d’aggiungerlo, ha al vertice un uomo che i mercati ha mostrato di saperli cavalcare, e mi riferisco - ovvio - ad Emilio Pedron, che oltre che presidente consortile è anche ai vertici del Gruppo Italiano Vini, prima potenza enoica nazionale.
Che cos’ha fatto dunque ‘sto Consorzio. Be’, è andato a chiedere di far l’esame a chi d’esami se n’intende. Ha chiesto aiuto a un’Università. Al Dipartimento di Economia e Politica Agraria dell’Università Federico II di Napoli, che ha mess’in campo uno staff coordinato dal professor Eugenio Pomarici. E il risultato che n’è saltato fuori è, per certi versi, sorprendente.
Ebbene, volete sapere perché la Valpolicella ha tenuto così bene? Be’, lo faccio dire alle parole di Pedron: «Oggi non si va bene per caso. Esistono dei motivi. Il primo è la solidità strutturale. All’interno della Valpolicella esistono dei vantaggi strutturali che la fanno andar meglio di altre aree, di altre denominazioni». Così ha detto il leader maximo a un drappello di giornalisti riuniti alla tavola – eccellente: mangiato benissimo – dell’Enoteca della Valpolicella. Ero tra quelli, e riferisco.
Ora, capisco che quando si dice genericamente di vantaggi strutturali, occorre qualche spiegazione aggiuntiva. E qui entra in ballo la ricerca di Pomarici & Co. Ma fors’è meglio invece fare un passo indietro. Tornare al contesto di mercato, che ha fatto da premessa alla ricerca, e l’ha anzi fatta generare. Lascio ancora spazio alle parole di Pedron, ché meglio di così non saprei fare: «Sono ormai più di due anni - dice - che gli osservatori più attenti hanno delineato uno scenario di difficoltà che interessa il vino di qualità. Uno scenario che pone fine ad un periodo caratterizzato da un importante sviluppo della domanda di vino di qualità dal quale i produttori hanno tratto grande beneficio in quanto hanno potuto commercializzare le loro bottiglie a prezzi in costante crescita. Attualmente, il settore vitivinicolo sta attraversando una fase di grande incertezza originata da un eccesso di offerta mondiale di vino di qualità che causa una diminuzione generalizzata dei prezzi di tutta la filiera, da quelli delle uve a quelli dei vini all’origine, e da una agguerrita competizione su tutti i mercati, sia nazionali che internazionali. In questo scenario la Valpolicella rappresenta un’eccezione in quanto sta vivendo un nuovo importante successo di mercato. Questo è il motivo per il quale abbiamo ritenuto opportuno verificare le ragioni di questo successo e abbiamo inteso farlo in maniera seria e approfondita, fotografando la struttura e le caratteristiche della filiera vitivinicola del nostro territorio». Affermazioni da manuale.
Capita l’antifona? Bisogna investire in conoscenza, e bisogna farlo soprattutto quando le cose vanno bene, per capire le ragioni del successo e farlo durare nel tempo. Inutile correre a chiudere la stalla quando i buoi sono scappati, s’è sempre detto: perché nel mondo del vino, che pure ha radici contadine, non lo si rammenta tanto spesso questo vecchio adagio?
Ordunque, a ricerca eseguita, Pedron dice: «Siamo convinti che in Valpolicella esistano vantaggi strutturali tali da consentire ai vini che nascono da questa splendida terra la possibilità di raggiungere traguardi sempre più brillanti». Alla faccia dei pianti altrui.
Questi vantaggi li riprendo, pari pari, dalla ricerca universitaria, che descrive quello che potremmo definire il «sistema Valpolicella». Ebbene: «Il sistema - si legge - è complesso perché agiscono come propulsori della dinamica una molteplicità di soggetti con caratteristiche dimensionali e di organizzazione dell’offerta molto diverse ma, a ben vedere, complementari. Vi sono le piccole imprese caratterizzate da una forte specializzazione nei vini Valpolicella soprattutto di elevatissimo pregio, fortemente caratterizzate dal territorio, con imprenditori di grandissima capacità relazionale, con politiche distributive molto selettive e orientate prevalentemente al mercato interno. Vi sono poi le medie imprese, di grande talento e esperienza nella produzione, che gestiscono una gamma molto ampia, affiancando ai vini Valpolicella, nei quali mantengono una specializzazione, prodotti di altre aree e che distribuiscono i loro prodotti in Italia ma anche, per una quota importante, all’estero. Operano, infine, grandi imprese che presentano una notevole capacità di innovazione e una notevole solidità e che gestiscono una gamma multiregionale e assai differenziata per fasce di prezzo e una molteplicità di canali di distribuzione in Italia e all’estero». Ebbene, queste tre tipologie d’impresa convivono senza farsi la guerra, senza farsi (troppa) concorrenza, ché hanno scelto di ritagliarsi mercati diversi. Non solo. Tra di loro hanno messo in piedi una sorta di partership ampiamente diversificata, una «molteplicità di relazioni» che si esprime «sotto il profilo della fornitura e dell’acquisizione dei fattori di produzione». «Il sistema – osserva il gruppo di ricercatori universitari che ha condotto l’indagine sul caso valpolicellese – è reso efficiente sotto il profilo produttivo da una rete di scambi di uve e vini tra diversi operatori che consente ai più di ottimizzare lo sfruttamento della propria capacità produttiva e/o commerciale e di valorizzare le specifiche competenze». In poche parole: un tipico caso di distretto industriale, di quelli che hanno fatto grande il nordest.
Ora, si tratta di migliorare, di crescere. E se non è possibile aumentare le quantità, giacché il territorio è pressoché interamente sfruttato, occorre spingere sul tasto della qualità. Che sia possibile? La risposta, stando alle evidenze della ricerca, sembra orientarsi verso un’impronta positiva. E ancora una volta la motivazione sta nelle componenti strutturali del comparto vinicolo valpolicellese. Il fatto è che una parte delle uve o del vino è attualmente consegnata a dei commercianti che non sono basati in Valpolicella: sono in altre regioni d’Italia o addirittura all’estero. Per loro il Valpolicella, come qualunque altro vino che trattino, è una sorta di commodity. Nel senso che si vende finché c’è, e poi può essere sostituito da qualunque altro vino che proviene da qualunque altra parte del mondo. Ecco: questa presenza di commercianti extraconfine è oggi un elemento di potenziale equilibrio del mercato. Sì, perché se i piccoli vogliono accrescere la loro offerta in termini di qualità e quantità, conferiranno meno prodotto ai medi e questi ridurranno i conferimenti ai grandi e questi a loro volta sottrarranno scorte ai commercianti di vini commodity. Insomma: c’è spazio di crescita per tutti gli operatori della filiera locale a parità di produzione complessiva, e il traino verso l’alto è costituito dalla crescita qualitativa. Non è un vantaggio da poco.
Certo, non son mica tutte rose e viole, e anche la Valpolicella ha le sue magagne. Questa docg per l’Amarone che sembra sempre lì lì per arrivare e invece non ci si mette mai d’accordo, ad esempio. Eppoi un numero troppo piccolino di aziende davvero orientate al mercato. Uno sfruttamento eccessivo e ossessivo del territorio, tant’è che ormai molta terra valpolicellese è diventata il dormitorio di lusso della città di Verona. Ma i motivi per esser fiduciosi ci sono. Soprattutto, c’è un livello di conoscenza maggiore. C’è una crescita di consapevolezza di cosa sia - davvero - il comparto vinicolo valpolicellese. Anche finanziando studi, ricerche di settore. Roba che altri, magari, ritengono soldi buttati. Invece no: è investimento. «Vogliamo conoscere di più la nostra denominazione. Conoscerci per poter decidere meglio in tempi difficili e anzi anticipare i tempi. Tutto questo serve per far crescere l’identità della denominazione» butta lì der Präsident Pedron. E non è obiettivo da poco, questo qui: vale più di cento, mille attrezzi di cantina.
La consapevolezza e il terroir, l’orgoglio e la vigna: eccole qui le chiavi per vincere. No, non è un caso che esista una Valpolicella felix.

giovedì 16 novembre 2006

Bando agli indugi: io sto col tappo a vite

Angelo Peretti
Lo dichiaro pubblicamente: io sto col tappo a vite. A costo di beccarmi improperi di tutti i tipi. Vigneron, usatele ‘ste nuove tappature. Bevitori, compratele ‘ste bottiglie di nuova concezione. Ci salveranno. E cerco di spiegare perché la penso così. Partendo da Merano.
Ma dico io: uno paga settanta, diconsi settanta, euro per andare ad assaggiare dei vini, e poi non s’accorge neanche di quel nauseabondo odore di tappo? Eppoi, uno? Macché: decine.
Con ordine. Luogo: Merano, dicevo. Occasione: Wine Festival. M’avvicino alla postazione d’un produttore di Gattinara. Mi versa l’ultimo goccio, ma proprio l’ultimo, d’una sua bottiglia. Puzza di tappo da far paura. Guardo allibito il vigneron, e chiedo: «Ma fino ad adesso non gliel’ha detto nessuno che sa di tappo?» E lui, allibito: «No, nessuno». L’hanno bevuta tutta, la bottiglia: considerando che, vista la quantità versata, una boccia dà almeno una ventina di porzioni, vuol dire che a non essersi accorto di niente sono stati in tanti. Roba da matti.
Ora, mi domando quale sia la motivazione – per me un mistero – che spinga la gente a sborsare tutti quei soldi per andare a una fiera a trangugiar liquidi alcolici senz’accorgersi se quel che mettono in bocca è accettabile, se insomma quanto meno non genera un tanfo insopportabile. Epperò non è di questo che voglio scrivere stavolta, bensì proprio del problema dei tappi. Che è grosso assai. E a Merano ne ho avuta conferma su conferma: dei primi venti vini provati, un terzo abbondante aveva, più o meno accentuato, l’inconfondibile difetto. Una percentuale drammatica. A un produttore di Riesling alsaziano ch’esponeva nella vicina Naturno è andata anche peggio: dodici bottiglie «tappate» su dodici. Da spararsi: partire dalla Francia per esporre in Südtirol e non aver neppure una boccia presentabile.
Già: un problema ‘sti tappi. E mica solo per la faccenda del tricloroanisolo (in sigla tca), l’agente chimico, presente a volte (e ormai le volte son tante) chissà come e perché nel sughero e che è il vero responsabile del cattivo odore assunto dal vino. Macché. A qualche produttore negli ultimi anni è capitato di dover ritirare dal mercato qualche migliaio di bottiglie perché contaminate dalle colle, dai solventi, dai lavaggi, dai perossidi, da quant’altre diavolerie ci s’inventa nella lavorazione dei tappi. E i danni sono grandi, anche in termini di reputazione, di perdita di clientela. Insomma: brutta rogna.
Ci hanno provato, si sa, a farli sintetici, i tappi. Di materiale plastico (di silicone, s’usa dire, anche se poi silicone non è). Ma, oggettivamente son bruttini. E poi non mi pare abbiano dato gran risultato in termini di tenuta.
E allora? Allora il futuro, per me, è nel tappo a vite. Quello di nuova generazione. Quei tappi che chiamano screwcaps, e se non guardi bene la bottiglia neanche te ne accorgi che non è chiuso al solito modo tradizionale. Quei tappi insomma che non sono neppure male in fatto d’eleganza. Certo, mancherà un po’ la poesia della levatura del turacciolo. Ma che poesia c’è a buttar nel lavandino il vino perché sa di tappo?
Si parla magari di vini da bere giovani, nei due-cinque anni. Mica di più. Lasciando il (poco) sughero sano esistente alle bottiglie da far invecchiare a lungo. E qui il sughero credo sia ancora insostituibile.
All’estero si sono già svegliati da tempo, sulla questione del tappo a vite. Quest’anno è intorno al novanta per cento (novanta!) la quota di chiusure a vite utilizzate dai vignaioli della Nuova Zelanda (eh, sì, fanno il vino anche là, ed alcuni - i Sauvignon della Baia di Marlborough, per esempio – sono dei fuoriclasse). Lo diceva in giugno a MiWine, la fiera milanese, David Skalli di Wine Evolution Network. La progressione del tappo a vite in terra neozelandese è stata impressionante: nel 2000, era usata sul 2% appena delle bottiglie, nel 2005 la quota era già del 72%.
Nei giorni di MiWine, Skalli venne intervistato dal magazine on line WineNews. Diceva che all’estero, e in particolare laddove non c’è una cultura radicata in materia di vino, «il tappo a vite non è visto di cattivo occhio e in futuro potrebbe ‘sigillare’ buon parte dei vini compresi nella fascia di prezzo sotto gli 8 dollari. A facilitare la diffusione della vite ci sta pensando poi lo stesso mercato. I consumatori stanno iniziando ad apprezzare la possibilità di aprire facilmente una bottiglia e altrettanto facilmente richiuderla se non completamente terminata».
Si potrebbe obiettare: ma sì, è roba da gente che di vino non sa niente: Nuova Zelanda, Australia, Sudafrica. Invece no. Invece è ora di svegliarsi. Ché le cose stanno cambiando. In fretta. E se ne stanno accorgendo anche personaggi insospettabili. Uno su tutti: Quinto Chionetti.
Chi sia Chionetti forse non tutti lo sanno, perché non dovunque è inuso tracannare bottiglie di Dolcetto di Dogliani. Ecco, Chionetti è la tradizione del Dolcetto. Classe 1925. Ottant’anni e passa. Autore - da sempre - di bottiglie d’altissimo livello. Un mito. Se fossimo in Valpolicella, sarebbe il Quintarelli della situazione, giusto per fare un paragone. Ebbene: Chionetti passa al tappo a vite. A darne l’annuncio è mica un comunicatore qualunque, però. No: ne ha parlato, sulla Stampa, in settembre, nientemeno che Carlin Petrini, lui, il fondatore di Slow Food, altro baluardo della piemontesità. «Tra i tantissimi argomenti di cui abbiamo parlato – racconta Petrini a proposito d’un incontro col decano Chionetti -, è presto saltata fuori la novità dei tappi che lui ha iniziato a impiegare per sigillare le sue preziose bottiglie. Me l’ha anche mostrate, queste bottiglie: hanno una particolare chiusura a vite che da un parte scongiura il temuto, ormai frequentissimo ‘sentore di tappo’, dall’altro dovrebbe garantire la tenuta perfetta del vino nel tempo. Se vogliamo, la novità - che poi è tale fino a un certo punto - ha il sapore di una provocazione. Ma una provocazione bene ragionata».
Ora, se uno come Chionetti se la sente di fare il salto, e se uno come Petrini non lo disapprova manco per niente, non è che agli altri piccoli produttori nostrani possa venire in mente che quest’è la strada giusta? Invero, qualche segnale l’avverto. Un noto consulente veronese m’ha confidato – proprio a Merano – che sta pensando a un bianco, importante, da imbottigliare col tappo a vite. Da un’aziendina tra le migliori che ci siano in area gardesana mi viene la notizia del (probabile) passaggio alla vite per la nuova annata del rosè. Bene, benissimo. Se non ci pensano le realtà maggiori dimensionalmente (ché quelle tappano già a vite, ma solo per il mercato estero), la rivoluzione la facciano i piccoli. A vantaggio dei consumatori, che spenderanno i loro quattrini senza il rischio di dover buttare via la bottiglia perché puzza di tappo. A vantaggio anche dei sughereti, che, sfruttati all’eccesso come sono oggi, rischiano la scomparsa.
Qui da noi, in Italia, c’è un duplice blocco. Il primo è culturale: facciamo fatica a rinunciare alla tradizionale chiusura col sughero. Il seconso è la legge: il disciplinare di molte doc italiche non prevede il tappo a vite, e per di più la normativa sui vini docg li esclude proprio. Ma fuori dai patrii confini scalpitano. Al punto che uno che conta – parecchio - sul mercato britannico del vino, David Gleave, leader di Liberty Wines (badate: l’azienda commercializza marchi italiani come Allegrini, Pieropan, Isole Olena, mica roba da poco), ha preso carta e penna e ha scritto una lettera al Ministro per le politiche agricole Paolo De Castro, perché riveda il decreto ministeriale del ‘93 che obbliga all’uso del sughero per i vini docg. E adesso invita tutti a far la stessa cosa.
Sul sito di Liberty Wine mette a disposizione il testo della lettera da spedire a De Castro: la trovate, anche in italiano, cliccando qui. E spiega così la faccenda: «Riteniamo che ai produttori italiani di vini docg dovrebbe essere data la stessa libertà che hanno i produttori di vino di ogni altra parte del mondo di usare il tipo di chiusura (sia questa realizzata in sughero naturale, tappo a vite, vinolok o a corona etc.) che ritengono si adatti meglio al loro vino. Come probabilmente sai, a questi produttori tale scelta è attualmente proibita da un decreto ministeriale. Non importa da quale parte del ‘dibattito sul sughero’ tu sia schierato, noi crediamo che ai produttori dovrebbe essere consentito scegliere il tipo di chiusura che prediligono, senza che questo li porti ad infrangere la legge; chiediamo quindi alle persone di scrivere al Ministro italiano dell’agricoltura per chiedere che questo decreto venga revocato».
Non è una richiesta da poco. Aggiunge Gleave che dall’autunno del 2000, da quando cioè ha cominciato a commercializzare vini con chiusure alternative, le vendite son cresciute in modo esponenziale. I consumatori britannici le chiedono, le vogliono. Soprattutto, le comprano. Facciamolo anche noi.
Se proprio non volete andare a cercarvela, ‘sta benedetta lettera proposta da Gleave, ve la riporto qui sotto (in italiano, che correggo un pochetto da un paio di errorucci di traduzione). Così la leggete meglio. Io, comunque, ci sto, e scrivo al Ministro.
Libertà di tappo, vivaddìo.

Fac simile della lettera da inviare al Ministro De Castro
Att. Dr Paolo De Castro
Politiche Agricole Alimentari e Forestali
Via XX Settembre, 20
00187 ROMA

Egregio Dr. De Castro
Con la presente desidero sottoporLe un problema che ha e continua ad avere un effetto negativo sulle vendite e sull’immagine del vino italiano sui mercati esteri.
(se siete operatori, inserite qui la vostra presentazione e l’indicazione dell’attività)
Abbiamo assistito nell’ultimo decennio, da parte di numerosi produttori di vino in tutto il mondo, all’adozione di chiusure alternative al sughero, movimento stimolato ed incoraggiato da due principali fattori:
- il continuo elevarsi del tasso di incidenza di vini con sapore di tappo
- la migliore garanzia di freschezza offerta dal tappo a vite.
Il movimento, voluto e promosso originariamente da produttori australiani e neozelandesi di vini di alta qualità, è stato accolto favorevolmente da altri produttori in Francia, Germania, Cile e gli Stati Uniti. Il valore medio dei vini confezionati con tappo a vite in commercio sul mercato inglese varia dalle 5 alle 50 Sterline, questo a indicare la collocazione di questi vini nella fascia di prodotto di alta qualità.
I produttori italiani, solitamente tempestivi nell’adozione di tecnologie migliorative, sono stati molto lenti nell'approccio a questa innovazione, principalmente per le restrittive norme italiane in materia.
I produttori delle zone doc come Isonzo e Soave sono riusciti, attraverso i Consorzi di Tutela, a modificare i loro disciplinari di produzione così da poter essere autorizzati all’uso del tappo a vite. Altri Consorzi di Tutela, come il Gavi ed il Chianti, non riescono ad avere libera scelta in questo caso, in quanto il Decreto Ministeriale del 7 luglio 1993 obbliga l’uso del tappo di sughero per i vini con classificazione docg.
L’attuale situazione va a discapito dei produttori italiani, che, non avendo la possibilità di scegliere, non riescono a concorrere ad armi pari sul mercato internazionale ed a soddisfare le richieste del consumatore, che allo stato attuale richiede sempre maggiormente il tappo a vite.
Per quanto riguarda il consumatore, la situazione e ancora più complicata. Non ha senso che i vini docg in bottiglie da 50cl o meno possano essere chiuse con tappo a vite, mentre quelle da 75cl ed oltre no!
Con la presente La prego di prendere in considerazione la possibilità di modificare il DM del 7 luglio 1993, dando libera scelta ai produttori italiani sul metodo di chiusura da utilizzare per i propri vini.
Distinti Saluti.
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domenica 12 novembre 2006

Rambo, le buone vibrazioni e l’eterno problema delle carte dei vini

Angelo Peretti
La cosa dicono sia andata così. Protagonista Sylvester Stallone. L’attore: Rocky, Rambo, eccetera. Ebbene, arriva a Milano. Con la moglie. Chiede di cenare nell’albergo (grand’albergo) in cui ha preso stanza. Il responsabile, imbarazzatissimo, deve dirgli che, però, posto in sala non ce n’è. Gli ultimi tavoli li hanno occupati Leonardo D i Caprio con la fidanzata e Inés Sastre col marito. Allora Sly deve trovare ospitalità in un altro ristorante. Dove mangia – pare – le tagliatelle al ragù. Così la racconta Panorama.
Ora, si dà il caso che al ristorante di ripiego ci sia stato, grosso modo negli stessi giorni, anch’io. Insieme con alcuni produttori di vino, al termine d’un wine tasting. Eravamo mezzi bagnati di pioggia, ma vabbé, la compagnia era buona e bella per davvero. Eppoi ci siamo divertiti. Leggendo la carta dei vini. Ma mica perché ci abbiamo trovato chissà quali bocce da stappare (in effetti, un po’ d’aspettativa ce l’avevamo: si beve volentieri un bicchiere di vino intrigante dopo ore a testare e sputare campionature). Nossignori: la lista era scontata, i soliti nomi (nelle città capita). Il divertimento stava nel testo. O meglio, nelle parole dell’ultima paginetta. Che non resisto alla voglia di trascrivervi.
La pagina era titolata «Le stelle». Diceva, testuale: «Il mondo del vino ha oggi nuovi confini. Accanto alle nazioni tradizionalmente all’avanguardia, ecco affacciarsi quasi ad ogni vendemmia altre emergenti. Quindi c’è parso importante rendere omaggio ai grandi apripista, a quelle stelle che, con costanza indiscutibile, tengono altissima la bandiera dei rispettivi territori di provenienza. Sette Super-Vini per ora. I Grandi di Bordeaux, la gemma Yquem, lo spagnolo Unico, il Grande campione del nuovo mondo. Pronti ovviamente ad ampliare la hit parade con altre stelle di pari splendore».
Ci siam passati la lista di mano in mano. Tanta prosopopea per presentare sette bottiglie non l’avevamo mai vista. E poi... E poi ecco l’elenco dei vini, così com’era scritto:
Chateau Lafite 1er Cru Classè 2001 Rothschild Francia 640,00
Chateau Latour 1er Cru Classè Pauillac Bordeaux 2001 Latour Francia 680,00
Château Margaux 1er Cru Classè Bordeaux 2001 Margaux Francia 660,00
Château Mouton Rothschild 1er Cru Classè 2001 Bordeaux Rothschild 660,00
Château d’Yquem (0,375 cl) 1998 Lur Saluces Francia 320,00
“Unico” 1994 Vega Sicilia Spagna 640,00
Penfolds Grange Shiraz 1999 Penfolds Australia 780,00
Et voilà: la lista dei sogni e delle contraddizioni è servita.
Ora, non si pensi che voglia prendermi gioco di quel ristorante, dove oltretutto non abbiamo mangiato male e per di più abbiamo trovato, alla prenotazione, gran cortesia. Ma un commentino ci vuole. Magari facendo i pedanti. Ma insomma, quando ci son vini che stanno oltre i 600 euro, qualche pelo nell’uovo lo si potrà pur cercare, no? E di peli quest’ovetto è proprio pieno.
Da dove comincio?
Primo. Le annate dei bordolesi. D’accordo, a me di spendere certe cifre per una bottiglia di vino non passa neanche per l’anticamera del cervello, ma se proprio avessi da scialare, be’, lo farei per qualcosa che sia effettivamente bevibile. Ma stappare un 2001 per rossi di quella tal fatta è infanticidio. Saranno pronti da bere fra una decina d’anni almeno. Giusto per dire: Chateauonline.com, un sito francese che vende vini, per il Lafite dà l’apogeo nel 2020 (per inciso: il vino, che ha avuto una valutazione di 96 centesimi da Wine Spectator, viene venduto on line a 175 euro la bottiglia, e da qui ai 600 e passa ammetterete che di ricarco ce n’è abbastanza). Capisco comprarli adesso, questi vini, per investirci (ma allora era meglio prenderli en primeur) o per farli affinare in cantina, ma metterli in lista al ristorante mi pare decisamente prematuro. A quelle cifre, poi.
Secondo. Le scelte bordolesi. Capisco, si è voluto puntare ai premier crû. Ma se hai fatto trenta fai anche trentuno, e mettici pure il quinto: l’Haut-Brion, niente male. Così almeno c’è la collezione completa. E oltretutto non è una lista monopolizzata dai Pauillac (Lafite, Latour e Mouton son tutt’e tre della stessa denominazione comunale). Ma poi, siamo proprio sicuri che fuori dal quintetto non c’è niente di Grande (con la g maiuscola, com’è scritto in carta)? Giusto per dire, mi risulta che dalle parti di Pomerol ci sia un certo merlot: si chiama Petrus, mai sentito? Eppoi qualcosa di buono lo si trova pure a Saint-Emilion, a Saint-Esthepe, a Sain-Julien...
Terzo. Le scritture bordolesi. Almeno scriverli giusti ‘sti quattro premier crû. Il Lafite è da parecchio che si chiama Lafite-Rothschild. E poi non capisco perchè, come sono scritti in lista, dei primi tre si dica che vengono dalla Francia, e il quarto da un posto di nome Rothschild: la famiglia è di quelle che contano, ma mica hanno fatto la secessione. Che poi del Latour e del Lafite si dica correttamente che sono della denominazione di Pauillac sta bene, ma allora non ci sta che si legga che il Margaux e il Mouton sono dei Bordeaux: roba quasi offensiva, ché questa è la denominazione generica, quella dei vini d’annata più semplici, senza specifico lignaggio comunale.
Quarto. I Grandi francesi (g maiuscola, ancora). I bordolesi, d’accordo, sono spesso grandi per davvero, e i quattro rossi prescelti, più l’Yquem, il più celebre dei Sauternes (a proposito: perché anche qui manca la denominazione d’origine?), non c’è dubbio che siano fantastici. Ma la Francia dei Grandi si ferma davvero qui? I cabernet, il merlot. E il pinot nero? In Borgogna in fin dei conti qualche rosso di valore lo si trova. Per esempio, col pinot noir al Domaine de La Romanée Conti fanno un vinello che si chiama La Tache. Qualcuno lo considera uno dei migliori rossi del mondo.
Quinto. Il fantomatico “Unico”, così, fra virgolette. Viene di Spagna, giusto. Ma più correttamente si dovrebbe dire che fa da punto di riferimento d’una denominazione d’origine, la Ribera del Duero. E nelle carte di mezzo mondo lo indicano com’è scritto in etichetta: Vega-Sicilia Unico, senza virgolette. Si dirà: ma almeno qui l’annata è di quelle vecchie, già bevibili. Invece no, ché in Spagna hanno un sistema diverso nelle uscite. I vini li mettono in commercio secondo la maturazione, per cui può essere che esca prima un’annata più recente di una più remota. Il ’94 è giovane.
Sesto. Il «campione del nuovo mondo», il Grange. Certo, è lo Shiraz più celebre che ci sia, fuori di Francia. Ma il campionato del nuovo mondo è tutto da giocare. Perché è vero, «il mondo del vino ha oggi nuovi confini» e certamente ci sono «i grandi apripista», ossia «quelle stelle che, con costanza indiscutibile, tengono altissima la bandiera dei rispettivi territori di provenienza». Però che esista solo l’Australia... Dico per dire: e la California? Da quelle parti Robert Mondavi e la baronesse Philippine de Rotshschild firmano un rosso la cui costanza mi par proprio indiscutibile. È l’Opus One. Un mito - il mito - della Napa Valley. Mica degno della lista dei Super-Vini?
Settimo. E i bianchi? Possibile che l’unico super-bianco sia un Sauternes? E gli chardonnay di Borgogna? E i riesling di Germania?
Insomma: un pasticciaccio. E tutto in una paginetta.
L’ho già detto: non ce l’ho con quel ristorante, tant’è che non ne ho nemmeno detto il nome. Solo che questa è l’ennesima prova di come vengano trattati i vini dalla ristorazione italiana. Ovvio, ci son le eccezioni, luminosissime. Ma sono, appunto eccezioni, ché spesse volte è roba da brividi: ignoranza, noncuranza, superficialità trasudano dalle liste. Compilate non dico facendo lo sforzo della ricerca degli emergenti, che forse è chieder troppo (tanto lo so che la scelta ai ristoratori gliela fa il distributore), ma senza neppure legger l’etichette. Almeno li scrivessero giusti.
Il vino al ristorante è un problema. Pensando poi a certi ricarichi. Son d’accordo che il ricarico ci sta, ma a fronte ci dev’essere servizio. Ma tante volte – troppe – il servizio non c’è: cattive conservazioni, temperature sballate, bicchieri inadeguati.
Primi mesi dell’anno. Vado in un ristorante d’ottima cucina. Siccome voglio spassarmela, ordino – bando alla spesa – un vino per ciascun piatto. L’ordine è dato all’inizio, insieme a quello dei piatti. Be’, volete sapere? Nessun vino m’è arrivato col piatto richiesto. E nessuno alla giusta temperatura. Roba che uno un pochettino ci si incazza.
Secondo: la conservazione. E qui la prendo un po’ da lontano.
Li ricordate i Beach Boys? Sembrava (erano) l’alternativa ai Beatles e ai Rolling Stones. Anni Sessanta. Cantavano: «I'm picking up good vibrations», «sto raccogliendo buone vibrazioni». Mi sono tornati in mente perché m’accorgo che nel descrivere i vini – quelli che mi piacciono - uso spesso l’aggettivo «vibrante». Già: nel vino cerco le «good vibrations», le buone vibrazioni.
Quand’è che un vino lo trovo davvero «vibrante»? Potrei dire, in prima battuta, quand’ha quell’equilibrio che derivi da una freschezza, da una vena acida che sostenga il frutto, il corpo, il tannino, l’alcol. Che faccia insomma da substrato alle diverse componenti del vino, tenendole legate e dando loro slancio. Ottenendo così due risultati: aumentare la piacevolezza di beva e dare chance di longevità (al vino, of course).
Mi piace, bevendo, che la bocca venga rinfrescata da una piccola alluvione di saliva. Che quest’offra contributo a rendere snella la beva. Contenendo, ove ci siano, gli eccessi di tannino, frutto, alcol, zucchero. Eccessivi non sono se l’acidità li rimette in carreggiata.
Guai se non trovo questa sensazione. Posso accettare qualche vena ossidativa, se la bottiglia è di vecchia annata, ma non sopporto il palato che s’asciuga dopo pochi secondi dall’aver deglutito un sorso. Ma è una sensazione che, purtroppo, capita di trovare. In due tipologie di vini: quelli troppo moderni, artificiosi e palestrati, e quelli mal conservati, e il luogo della cattiva conservazione è troppo spesso il ristorante.
Per i vini fantoccio, la soluzione è semplice: basta non berli. Per i vini mal conservati, è un bel guaio. Perché, come fai a contestare al ristoratore una bottiglia che non ha difetti apparenti al naso e che in bocca comunque si presenta col suo frutto? Come fai a dirgli ch’è questione di piacere mancato? Eppure...
L’ultima disavventura in una trattoria gestita da volenterosi giovani. Ordino, da una lista piccolina e un po’ scontata, un rosso valpolicellese. Lo portano caldo, alla temperatura quasi del brulè, e pazienza. Naso a posto. Ok. Al primo sorso, la spiacevole sorpresa: fruttone immediato e subito dopo - zac! - lingua asciutta. Riprovi, idem. Risultato: la bottiglia resta lì, quasi piena.
Ho guardato il tappo: compresso e per nulla bagnato dal vino. Il che conferma la tesi: bottiglia conservata al caldo all’inpiedi, in ambiente asciutto, e tappo che s’asciuga anch’esso facendo passare ossigeno. Ossidazione incipiente. Come accade in tanti, tanti ristoranti. Che però ti ricaricano il prezzo del vino come se te l’avessero affinato con tutti i crismi e te lo servissero a regola d’arte.
A volte ho provato a contestarlo. Ma è inutile: se una bottiglia è così, è probabile che tutte le altre abbiano la medesima magagna. M’è successo: ordino un ottimo bianco veronese e m’accorgo del problema, chiedo un’altra bottiglia ed è uguale, una terza ed è la sorella. Rinuncio e bevo acqua. Tornato a casa apro una mia bottiglia dello stesso vino e della stessa annata, ed è tutt’altra musica. Sono andato di nuovo a far visita a quel ristorante e ho visto il locale dove conservano i vini: hanno il deumidificatore!
Può succedere. È capitato anche a me di sprecar bottiglie tenendole all’asciutto. Risultato: il vino lo butti nel secchiaio. Ma non fate la spia, ché non credo che il regolamento comunale lo consenta di buttar vino negli scarichi.
Mi resta un dubbio: chissà che ha bevuto Stallone con le sue tagliatelle. Panorama non lo dice, mentr’informa che Di Caprio ha affondato il coltello in una gigantesca cotoletta, accompagnata da litri di Coca-Cola: non ci sono più le star di una volta.

sabato 4 novembre 2006

Del Bardolino e dei progetti che (forse) verranno

Angelo Peretti
L’Arena è il quotidiano di Verona. Mi verrebbe da dire che è anche il «mio» giornale, perché ci collaboro suppergiù dal novembre del ’79, che non è mica esattamente ieri mattina. Bene: sulle pagine dell’economia del «mio» quotidiano è uscito il 2 di novembre un pezzo che ho trovato, ahimè, interessante già dal titolo. Diceva così: «Ripresa di Soave e Custoza Valpolicella e Amarone super», ma poi anche, nell’occhiello: «Continua la crisi del Bardolino». Ahimè, sì: crisi del Bardolino.
Se m’impunto a parlar del rosso bardolinista è perché, come ho scritto sul libro che gli ho dedicato, questo è per davvero il «mio» vino. Perché a Bardolino sono nati mio padre e mia madre. Perché passavo le estati sulla Rocca, fra le vigne, e vendemmiavo le corvine e le rondinelle e le molinare. Perché nonno Piero lo tracannava di gusto. Dunque, non ci rinuncio – non posso - a considerarlo il vino del cuore. Lo considero anzi potenzialmente gran vino nel genere suo, per la sua duttilità d’abbinamento in tavola. I love Bardolino. E sui miei amori son cocciuto, ché sennò non m’innamoro proprio: non avrebbe senso.
Ma torno all’articolo areniano del 2 di novembre. Raccoglieva il parere del responsabile dell’ufficio economico veronese di Confagricoltura, che informava che «si nota una ripresa nelle quotazioni dei bianchi, in particolare Soave e Custoza, un ottimo trend per il Valpolicella - soprattutto quello da riposo per la produzione di Amarone - mentre continua la crisi del Bardolino, dovuta essenzialmente alla mancata promozione dopo anni di surplus produttivo e dopo che il Consorzio di tutela, avendo avuto il riconoscimento erga omnes non fa più promozione».
Già, Bardolino che flette. Anche nell’ultima vendemmia le uve sono state pagate poco, pochissimo. Mi domando come abbian fatto certuni a coprire i costi. Il vino non va: le scorte si sono ridotte, ma il mercato non tira. Però non sono d’accordo che la crisi sia legata solo alla mancata promozione. Certo, questo è un problema. Grosso. Ma ci sono, a mio avviso, altre concause. Che cerco di raccontare, pur sapendo che rischio d’esser tacciato per quello che tira fuori castronerie. Eppoi tento di scrivere del Bardolino per parlare (anche) del Valpolicella, che per certi versi potrebbe rischiare di percorrere la stessa china del rosso bardolinista. Per certi versi, mica per forza.
Dunque, partiamo.
Prima lagnanza, s’è detto, è quella della promozione. Il Bardolino in questo momento non gode di gran visibilità. Anzi. Ha immagine offuscata. O semplicemente non ha immagine. S’è forse ritenuto in passato di poter vivere di gloria, ma il mondo del vino è in continuo movimento. Ci si è poi quasi rassegnati, nei giorni – e sono giorni recentissimi – dei rossi muscolosi, iperalcolici, iperconcentrati, ipertannici, a pensare che per il Bardolino non ci fossero (più) chance da giocare. Dunque, inutile promuoverlo, ci si è forse detti: malato senza speranze. Ma i mercati sono ciclici, ed era logico che una qualche inversione di tendenza ci potesse (dovesse) essere, prima o poi. Il poi è adesso.
Oggi si torna a dire della necessità d’avere vini che si bevono, che siano sì piacevolmente fruttati e morbidi, ma che possano anche accompagnare la tavola senz’eccessivo impegno. Che non abbiano troppo alcol (ah, la patente a punti! ah, le scuole salutistiche!). Che siano abbordabili in fatto di prezzo. È il ritratto del Bardolino, che potrebb’essere il vino «quotidiano» del momento. Potrebb’essere e non è, perché quest’identità di «quotidianità di valore» non è stata consolidata, cullata, coccolata. E la si è smarrita.
La promozione è mancata, sì. Ed è una rogna. Ma, insisto, non è l’unica.
Un’altra grana, a mio avviso, è un malinteso ormai «storico», perché data un quinquennio: aver fatto nascere il Bardolino Superiore docg nel momento e nel modo sbagliato. In termini di strategia. Lo capisco: il mercato chiedeva vini pieni, corposi, e il Bardolino non lo era. Dunque, s’è ritenuto di dover creare un «nuovo» Bardolino che rispondesse ai canoni stilistici di stampo «internazionale», americaneggiante. Ecco dunque scaturire il progetto d’un Bardolino Superiore a denominazione controllata e garantita. Un vino più denso, più marcato nei toni, carico nei colori, concentrato il più possibile. Uscito per la prima volta con la vendemmia del 2001, ci si è accorti che finiva coll’essere quasi una duplicazione del Valpolicella Superiore, senz’averne però la fascinazione indiretta – e il traino - dell’Amarone. Innescando lo smarrimento dell’unico requisito sin lì identitario del Bardolino, l’essere «easy wine», piacevolmente, maliziosamente beverino. Ma fin qui, passi: ci poteva stare. Il fatto è che il «nuovo» docg non aveva, a mio avviso, le caratteristiche per ambire ad un corretto posizionamento in termini di prezzo. Ed è l’obiezione che sollevai allora, e per la quale venni tacciato d’essere «nemico» del Bardolino. Io, proprio io nemico delle mie radici? Suvvia!
Cosa intendevo e intendo? Semplicemente questo: o il Bardolino Superiore docg riusciva a spuntare quotazioni significativamente più alte dello storico Bardolino, oppure la sua nascita avrebbe finito col cannibalizzare il doc, spingendone in giù i prezzi. E così è stato. Purtroppo. D’accordo, i produttori mi dicono che il Superiore si vende. Ma è poca cosa, rispetto ai quantitativi (e alle potenzialità) del doc.
Perché è accaduto? Credo sia successo perché sul mercato esistono quelli che ho il vezzo di definire «prezzi di supporto». Sono i prezzi «base», quelli che effettivamente supportano una certa filiera di prodotto. Con la nascita del Bardolino Superiore docg, il «prezzo di supporto» della filiera bardolinista restava, ovviamente e inevitabilmente, quello del doc. E questo prezzo «base» avrebbe potuto resistere alle quotazioni usuali solo se il valore commerciale del docg fosse stato sensibilmente più alto, in modo da far emergere un chiaro spread fra le due tipologie. Nel momento che invece il Bardolino Superiore è uscito con quotazioni oggettivamente poco discoste da quelle del doc, era inevitabile che, per garantire lo spread, la quotazione del doc venisse spinta in basso. Così la pensavo (e la penso). Sarà anche stato casuale, ma si è verificato proprio questo problemuccio. Ma non voglio atteggiarmi a esperto d’economia, né a profeta (quelli, poi, fan quasi tutti una brutta fine), e dunque ammetto: è stato un caso.
Qui entra in ballo il Valpolicella. Già, perché quest’anno, in quest’ultima vendemmia, ha cominciato a circolar la voce di quantità grosse d’uva in appassimento, di aziende che hanno deciso d’abbandonare il Valpolicella base per puntar tutto sul Superiore, magari di Ripasso, e sull’Amarone. Non so se risponda al vero. Ma dico: attenti, ché si rischia l’effetto Bardolino. Se sparisce il Valpolicella «basic», scompare anche il suo riferimento come «prezzo di supporto». E dunque dovrà scendere la quotazione del Superiore, perché sarà questo il nuovo prezzo su cui poggia la filiera. Spero di sbagliarmi. Anzi, sono sicuro che mi sbaglio, che son solo fantasie (malinconie) mie, dato che non ha cognizione di macroeconomia. Però le scrivo.
Ritorno al Bardolino. Ché c’è, mi spiegano, anche un grattacapo strutturale. Questo: tante vigne lacustri e d’entroterra sarebbero di proprietà di gente che ci ha investito per fini diversi dalla produzione dell’uva e del vino. Attenti: tutto lecito. Semplicemente, s’è trattato d’investimenti fatti per diversificare le immobilizzazioni in tempi di caduta dei tassi. Magari sperando – ed anche questo è comprensibile e lecito - che prima o poi il piano regolatore trasformi l’area da agricola a residenziale. Oppure puntando tutto sul caseggiato rurale da trasformare in villetta, che ha quotazioni, queste sì, siderali. Se quest’è vero, è chiaro che su quelle terre si fa uva giusto per non tagliar per terra le piante. Dunque c’è in giro tanta roba che non mira alla qualità, che si trasforma in massa di vino di livello magari semplicemente decoroso. Da destinare all’esigenze d’una rete di commercianti che non hanno nelle vene spirito bardolinista, passione di terroir. Gente che, lecitamente pur’essa - ci mancherebbe -, compra cisterne e le piazza là dove c’è richiesta, al prezzo che trova. E i prezzi scendono. E se a servirgli è il Bardolino, perché ha il prezzo «giusto», compra e vende Bardolino, e sennò fa lo stesso piazzare Nero d’Avola o Montepulciano o insomma quello che vuole il mercato di sbocco di quel preciso momento a quel preciso prezzo.
Se quest’è vero, è chiaro che qui serve ridar ordine all’intera filiera. Serve un nuovo patto fra le parti. O forse serve pattuire quanto non è mai stato prima pattuito. Occorre trovare il punto d’equilibrio, di convergenza, fra vignaioli «puri», proprietari di vigna «per caso», piccoli produttori, negociants di qualità, cantine sociali, cisternisti, ché tutti han dignità su un mercato complesso come quello del vino. E questo patto non è dilazionabile, pena la prosecuzione del loop, dell’avvitamento, della crisi.
C’è adesso l’altro tema, quello della qualità. Anche qui ci sarebbe da discutere. O meglio, da fare. Ché manca – ed è mancato troppo a lungo – un tavolo in cui si progettasse davvero la «giusta» qualità del Bardolino. La riprogettazione, intendo, dei cratteri somatici del Bardolino e del Superiore. E se oggi sono parecchi i Bardolino di cui non disdegni il bicchiere – e quest’è un bene, ovvio, ed è anche un bel punto di partenza – son per converso pochissimi quelli che puntano davvero in alto, che hanno personalità e classe e finezza. Ed anche questa convergenza verso l’alto non è dilazionabile. Qui un’idea ce l’avrei, ma forse non è il momento e la sede.
Dico ancora però – e infine - che manca uno studio. Quello dell’effettiva percezione che del Bardolino hanno i mercati di sbocco. Attuali e potenziali. Perché non si può progettare senza conoscere. Mi si obietterà che con le quotazioni d’oggi mancano i quattrini per fare una ricerca del genere, così come latitano i denari per la promozione. Balle: io non ci credo che il cane si mangi la coda. A latitare è la progettualità. Se c’è un progetto serio, i schèi saltano fuori. Ci credo.