sabato 24 marzo 2007

Se il digiuno è questione di gastronomia

Angelo Peretti
Mi capita a volte di scrivere queste note viaggiando in treno. Stavolta su un eurostar che va verso Milano. Siamo a Brescia. È appena salita gente: sono le 13. Poco discosti da me han preso posto due uomini, in giacca e cravatta. Hanno in mano, entrambi, un vassoietto di carta, e sopra un trancio di pizza. Lo trangugiano in fretta, in un battibaleno: han finito che il convoglio non s’è ancora mosso. E poi subito tuffati nel lavoro: l’uno al pc, l’altro al telefonino.
Ecco: manca il tempo, manca una dimensione. E per riagguantarne una briciola ci priviamo del gusto, che è, per me, un’altra dimensione importante del vivere. Ce ne priviamo inghiottendo qualunque cosa fra un’occupazione e l’altra, purché abbia la parvenza di cibo. Ce ne priviamo incamerando alimenti da catena di montaggio.
Sembra un fatto banalmente accettato come necessario. Ma è preoccupante. E non per motivi salutistici o dietetici. Il problema è un altro. È culturale. E cito una frase di Carlo Petrini, fondatore si Slow Food: «Il cibo è il principale fattore di definizione dell’identità umana, perché ciò che mangiamo è sempre un prodotto culturale». Se è vero, il mangiar d’oggi è culturalmente preoccupante: è la riprova che qualcosa non va in questa nostra vita che corre, corre, corre senza una mèta precisa. Viviamo per il lavoro. In catena di montaggio.
Allora, viva la moderazione. E dunque stavolta parlo del digiuno.
Oh, sì, me la sento l’obiezione: InternetGourmet è un web magazine di gastronomia, e allora perché filosofeggi di digiuno? Rispondo: perché anche questo appartiene alla gastronomia.
Certo, non a tutti interessa. Eppoi viviamo in una società che è pervasa di sana laicità ma pure di laicismo esasperato. Però è quaresima, e la tradizione (la ritualità) cristiana vorrebbe fosse periodo d’astinenze dai cibi. Ma non ne faccio (solo) una questione di precetto religioso, di propensioni morali. No: è ragione di gusto.
Mi spiego. Il digiuno, di tanto in tanto, fa bene. Al fisico, alla mente, al gusto. Sembra un paradosso, ma è così. Perché per apprezzare fino in fondo qualcosa (qualcuno) bisogna averne provata la privazione. Fors’è un’esperienza che avete anche voi vissuto, ché fa parte del vivere. E dunque per dar valore per esempio al cibo occorre averne provata l’assenza che stringe alla gola. Per dar credito al vino serve aver testato l’arsura della sua lontananza coatta.
Mi diceva in questi giorni un amico della sua fatica a non poter gustare un bicchier di vino a tavola, ora che i medici gliel’hanno vietato per via di certe cure che gli tocca fare. Ecco: son certo che quando potrà tornare a berne, di vino - e son sicuro che potrà - ne saprà assaporare sino in fondo il gioioso ritrovamento. E avrà bisogno di berne meno di prima, ché il ritrovamento darà più sensibile il piacere.
Dico per esperienza, ché nella vita l’incidente di percorso capita, oh se ti capita! Ed anche per aver provato la volontaria costrizione dell’astinenza. Sia chiaro: occasionalmente. Mica faccio l’asceta. Magari mi si prenderà per matto, ma sia: ma garantisco che è prova utile. Comunque.
È il desiderio struggente di quel che non hai (più) a farti meglio apprezzare quel che hai avuto e a farti sognare quanto potrai avere. E i nostri genitori e nonni e avi molto probabilmente hanno vissuto il morso della privazione. Di qui nasceva il gusto - ahiloro, molto occasionale - del convivio. E il ritrovarsi a festeggiare a tavola era occasione solenne. E il bere insieme il bicchiere era profondo segno di condivisione.
Oggi non è così. Oggi il cibo trabocca. Magari di plastica, ma ve n’è in eccesso nel mondo occidentale. E non v’è più sacralità del desco: si trangugia il pranzo di mezzodì al bancone d’un anonimo bar, coi paninacci scaldati alla piastra puzzolente d’untume abbrustolito, coi sedicenti tralci di pizza conditi con improbabili formaggi. Cinque, dieci minuti al massimo, e il pranzo - che dico pranzo? l’assunzione del nutrimento - è cosa fatta. E via al lavoro. Che se ci pensi non è molto diversa la vita del pollo in batteria.
Meglio dir no, almeno una volta. Rinunciare. Rivendicare il proprio essere persona.
Ecco, che ci si creda o no nella dimensione di fede, il digiuno è pratica che comunque può valer la pena d’esercitare, talvolta. Anche per il gastronomo. Anzi: forse di più proprio per lui, ché si rischia di perdere il senso, la misura, il gusto vero. Ed è prova contro se stessi, contro lo stimolo belluino. E quando n’esci vincitore hai dominato te stesso e l’istinto primordiale che è in te, e dunque più controllato e vero sarà il successivo (re)incontro col piacere del cibo e del vino. Vedete? È questione di gusto, anche.
Poi, se si vuole, si può vestire quest’assenza alimentare con valori che possono essere più nobili e più elevati e anche colti, e ritrovarvi motivazione eticamente apprezzabili. La storia del mondo cristiano vede il santo trovare nel digiuno la purificazione e il viatico per la grand’impresa (della fede e non solo). E proprio, per dirla con Leo Moulin, medievista, i regimi alimentari monastici d’età medievale erano tutti comunque concepiti come un «sistema di privazioni, di digiuno e di astinenza». Ho letto nei giorni scorsi sul quotidiano della mia provincia, L’Arena (ed è testata alla quale anch’io collaboro da anni et annorum), che il vescovo veronese raccomandava di digiunare dedicando il denaro risparmiato all’opera buona, al povero, al derelitto. Per condividerne un po’ l’asprezza del vivere.
Ecco: è cosa apprezzabile, questa, anche per chi fede non ha. Come è apprezzabile il privarsi del cibo richiesto da altre religioni. Ma è questione di scelta personale. Mi basta molto, molto meno. Non dobbiamo far gli eremiti. Solo capire un po’ meglio la nostra dimensione. E quella del cibo. E quella del vino. Che son poi frutti della fatica e dell’intelligenza e della genialità.
Non è piccola cosa. Forse, il privarsene occasionalmente ce li fa meglio capire, quei gusti, quei sapori, quelle fragranze, quegli afrori, quegli aromi, quei succhi, quelle sapidità, quelle freschezze, quel pastoso calore. Ce li fa meglio apprezzare. Per apprezzare di più la vita. Che è nostra. Solo nostra. Ed è vita, con le sue fatiche, i suoi dolori, le sue assenze. E, talvolta, le gioie.

domenica 18 marzo 2007

E il vignaiolo parlò al giornalista

Angelo Peretti
Nereo l’aveva detto: è ora di aprire un dibattito sul tema della comunicazione del vino.
Nereo è il Nereo Pederzolli, giornalista trentino, di cui ho (ri)pubblicato la settimana scorsa un pezzo scritto originariamente per Slowfood, la rivista del movimento della chiocciolina. In argomento. E sull’argomento, appunto, abbiamo poi, lui ed io, ricevuto qualche interessante feed back.
Uno, in particolare, lo vogliamo condividere con gli internetgourmettiani lettori di questo web magazin. Ed ha firma autorevole, quella di Riccardo Ricci Curbastro, uno dei nomi più conosciuto del bollicinoso mondo della Franciacorta.
Ecco dunque, sena’altri indugi, le sue parole. E solo a conclusione, poi, le mie.

IL VINO DEI VIGNAIOLI
di Riccardo Ricci Curbastro
«Caro Nereo,
ho letto quest’oggi, grazie ad Angelo Peretti, il tuo articolo “In barba all’effimero” e desidero ringraziarti per aver posto l’accento su un tema che mi sta particolarmente a cuore: tutti i vini rischiano di diventare simili o addirittura globalizzati (brutta parola, ma rende il concetto) se ci limitiamo a descrivere la”fermentazione a temperatura controllata, l’affinamento in barrique ecc.”
Abbiamo la necessità di raccontare un po’ di più l’uomo che sta dietro quel vino, il suo amore per la vigna e i suoi sogni.
Sì, i sogni. Senza sogni non si può fare il vino, perchè è qualcosa di così lontano dalla frenesia odierna che solo un sognatore può pensare, guardando un terreno nudo, a piantarvi una vigna, attendere che faccia frutto, vinificarlo, attendere che maturi... e intanto sono passati 8 o 10 anni ed il mondo è cambiato un’altra volta.
Prendi il nostro Franciacorta: già nella realizzazione del taglio, prima del tiraggio, l’uomo disegna un quadro, una propria opera d’arte, utilizzando come colori i diversi vini base, e trasmette in quella bottiglia i propri sentimenti, il proprio modo di vedere la vita e quel vino; ma è possibile comunicare questo nei 25-30 secondi di un’intervista televisiva o nelle poche righe di un articolo (sapendo che tanto molti leggono solo le fotografie)?
Personalmente sono un po’ pessimista su questo punto; riesco a trasmettere questi sentimenti, tradizione e spinte innovative, quando parlo ai miei clienti, in cantina o durante una degustazione, ma raramente riesco a farlo sulla carta stampata. Mi sembra che oltre al sesto d’impianto ci sia poco spazio per altro e perciò desideravo ringraziarti. Ogni tanto un colpo va dato, speriamo che sia l’inizio di una bordata!»
Riccardo Ricci Curbastro

Fin qui la lettera aperta del vigneron franciacortino al Nereo tridentino. Adesso tocca a me dir due parole sul tema vino&comunicazione: senno che direttore di testata sarei? E dunque sia.
E la prima cosa che mi viene in mente di dire è questa: a ciascuno il suo, come il titolo d’un libro, bellissimo, di Sciascia. Già, perché far vino è mestiere di chi fa vino e comunicare è mestiere di chi comunica. E forse (senza forse, magari) c’è un po’ di confusione di ruolo. Così chi comunica vuol insegnare a far vino a chi il vino lo fa e chi fa vino vuol insegnare a comunicare a chi comunica di suo. A condizione che l’uno e l’altro - vigneron e comunicatore, intendo - il loro mestiere lo sappiano fare per davvero, ché di dilettanti allo sbaraglio (citazione dalla mitica Corrida di Corrado) ce n’è fin troppi in giro, fra chi fa vino e chi ne scrive. E l’altra condizione è che si rispettino l’un l’altro – vignaiolo e comunicatore - e che rispettino i rispettivi ruoli, ma se son professionisti veri il rispetto di certo non mancherà. E qui chiudo con quest’osservazione, ché sennò pare che voglia far polemica, e invece non voglio proprio per niente.
Secondo, e qui entro nel contenuto della lettera di Ricci Curbastro: che cosa comunicare?
Ecco, io credo molto in quella magica parola che è il terroir. Solo che di questo concetto c’è duplice interpretazione. L’una razionalista, l’altra umanista. La prima intende il terroir come mix di vitigno, di suolo e di clima (coll’aggiunta della tecnica). L’altra tien conto di questi stessi aspetti, ma mette in primo piano l’uomo, inteso come singolo e come comunità di persone che (con)vivono su un medesimo territorio. Ed anzi, in Francia si direbbe che soprattutto c’entra non già l’uomo in sé soltanto, ma il suo orgoglio. L’orgoglio d’un produttore che nel suo vino vuole interpretare se stesso e il suo territorio.
Eccolo qui il terroir. Ergo, questo è da descrivere.
E siccome tutto non si può descrivere in poche parole, allora a mio avviso il vignaiolo che voglia comunicare una cosa soltanto deve descrivere del terroir: se stesso, se davvero è l’uomo alla base del terroir.
Ha da raccontare, intendo, le sue passioni, i suoi pensieri, i suoi sentimenti. E l’ha da fare raccontando onestamente, ché sennò si scatena l’effetto boomerang. Ha da mettersi in qualche modo a nudo davanti all’intervistatore o al consumatore che sia. Spiegare il suo esser persona che fa vino, e che ha scelto di farlo non per un accidente del destino, ma perché quel mestiere lo sente suo.
Inutile che descriva il vino sotto il profilo tecnico: interessa a pochi, e quei pochi cui può interessare o sono addetti ai lavori o sono onanisti della degustazione, e in più si finirebbe inevitabilmente per accreditare la tendenza più razionalista dell’interpretazione del terroir. Inutile più ancora descrivere il vino sotto il profilo organolettico, come se gli altri non avessero naso e bocca e pensiero.
Se stessi occorre descrivere. Usar la prima persona singolare: io.
Il pittore, davanti a un suo quadro, mica ti racconta di che marca erano la tela e il pennello e il tubetto di colore, e neppure ti parla di tela e pennello e tubetto e neanche ti dice se il cavalletto era esposto a nord o a sud, perbacco. Ti dice il suo sentimento, che è all’origine del quadro. Solo questo, ti dice il pittore vero. Lo stesso, se vuol far arte, ha da essere per il vignaiolo. Anche nei 25-30 secondi di un’intervista.
A un’amica produttrice che mi chiedeva cosa rispondere a chi le domandasse perché dovrebbe mai comprare il suo vino, ho suggerito di rispondere così: «Perché questo vino l’ho fatto io». Sembra risposta immodesta, fors’anche orgogliosa. E invece è proprio orgogliosa, ché l’orgoglio del vigneron è alla base dell’idea umanistica del terroir. E dunque chi fa vino prima di tutto deve dire che il suo vino va bevuto perché lì dentro c’è un po’ di sé. Del proprio sentire la vigna e il clima e il suolo e il territorio. Del proprio ragionare della vita e dei suoi misteri. Del proprio essere uomo o donna che ha scelto di far vino. Qui è la fascinazione autentica: l’essere umano è il mistero da disvelare.
Questa è la mia opinione. E quindi andrebbe letta al condizionale, e dove dico deve s’avrebbe da leggere dovrebbe. Ma è opinione mia, al singolare.

domenica 11 marzo 2007

Il vino dei comunicatori, il vino dei vignaioli

Angelo Peretti
Questa volta cedo la mano, ma non mi si accusi d’essermi fatto pigro. Il fatto è che mi ha scritto una mail l’amico Nereo Pederzolli, giornalista Rai di Trento e figura storica di Slow Food in terra tridentina. E m’ha ricordato il pezzo di commento che ha scritto sul periodico della chiocciolina, Slowfood numero 24, appena uscito. Dove prende spunto dalla cerimonia di consegna dei tre bicchieri di Vini d’Italia, al Lingotto di Torino. Per parlare poi - e approfondire, con spunti di notevole interesse - il tema della comunicazione & dei comunicatori, o presunti tali, del vino. Ed è riflessione interessante assai. E siccome lui, il Nereo, m’ha detto che, insomma, la faccenda potrebbe magari interessare ai lettori internetgourmettiani (neologismo suo, e mi piace), e che si potrebbe aprire una sorta di dibattito, allora quell’articolo gli ho chiesto il permesso di ripubblicarlo anch’io, e così faccio. Godetevi, qui sotto, il suo scritto.

IN BARBA ALL'EFFIMERO
di Nereo Pederzolli
«In fila, come scolari. Per ricevere un premio che per molti è una sorta di laurea. Emozionati, orgogliosi, appagati. Interpreti sul gran palco dell’evoluzione del vino italiano. Al Salone del Gusto giungono in sordina, per non disturbare, per lasciare la scena mediatica alle comunità del cibo provenienti da tutto il mondo. I vent’anni della guida Vini d’Italia sono stati, giustamente, sovrastati da Terra Madre. Anche se, idealmente, al Lingotto c’erano tutti i 2206 produttori degli oltre 16mila vini selezionati da Gambero Rosso & Slow Food e, certo, non mancavano i premiati, quanti hanno conquistato i 282 Tre Bicchieri, così come gli autori dei 25 Tre Bicchieri non dati. Il premio del poi, che rilancia il dibattito su cosa significhi giudicare un vino, capirne l’indole, prevederne l’evoluzione. Uno stimolo ulteriore a leggere Vini d’Italia come strumento di comunicazione. Senza dogmi, per dare senso al modo di gustare il vino.
Troppi “comunicatori” del vino dimenticano di liberare le opinioni personali da stereotipi che portano a una certa normalizzazione del gusto. Una tendenza emersa anche in molti servizi radiotelevisivi sul Salone di Torino. Dove spesso è stata messa in evidenza l’estetica del cibo: certi cuochi come star cinematografiche, la cucina come luogo di sogni irrealizzabili. Se poi il soggetto dell’articolo diventa il vino, ecco rilanciare ulteriormente i concetti di una qualità percepita solo esteriormente. Vini buoni perché esclusivi, quasi impossibili da trovare, riservati a una sorta di casta enoica.
Con una schiera sempre maggiore di giornalisti, operatori, opinion makers che suggeriscono abbinamenti enogastronomici “a getto continuo”; con “tuttologi” che riempiono contenitori televisivi ostentando calici di cristallo, roteando bicchieri, brandendo decanter come se il vino fosse solo una questione d’immagine.
L’utente, il consumatore, pure l’appassionato di gastronomia rischiano di subire le insidie di un messaggio basato sulla superficialità e che mina l’identità del vino stesso, stravolgendo l’impegno di quanti lavorano in vigna per ottenere un prodotto caparbiamente voluto. E si rischia, insieme, di travisare il senso di verità che lega la vite alla terra e all’uomo.
L’incredibile, fascinosa kermesse del recente Salone del Gusto doveva essere raccontata da noi operatori dell’informazione senza troppo esaltare il “gusto estetico” dell’evento, specialmente per quanto riguarda i vini.
Descrivere, comunicare un vino di successo è facile e può essere anche gratificante. La ricerca esasperata della novità e dell’effimero - da infilare in articoli o servizi televisivi - per stimolare l’immaginario del consumatore forse non aiuta ad educare, anzi, spesso maschera un certo impoverimento del livello di percezione gustativa, rendendo quasi tutto omologabile.
Ecco perché anche alla gioiosa cerimonia di premiazione dei 282 Tre Bicchieri, il vino italiano ha dimostrato come la sua tradizione e le spinte di innovazione siano temi ancora da comunicare.
Pochi gli spazi nei vari telegiornali sono stati riservati ai veri artefici del buon bere italiano, a quei piccoli quanto autorevoli produttori che sono saliti sul palco di Torino, quasi impauriti, spaesati nell’insolito ruolo di protagonisti. Un premio ritirato con orgoglio, che pensano subito di dedicare più alla vigna che alle loro fatiche. Vignaioli importanti, già famosi o che lo saranno. Fianco a fianco con i nomi delle aziende blasonate, i miti dell’enologia, non solo italiana. Inutile citarne qualcuno. Tutti assieme, con i loro 282 gioielli, poi in degustazione sulla rampa del Lingotto. Gente sobri, che dà voce anzitutto al prodotto ma che, proprio per questo motivo, spesso i canali di informazione relegano tra gli argomenti minori o da presentare come evento di folklore, dando invece spazio alle cantine che sul marketing aziendale hanno impostato gran parte del loro - per altro giusto - successo.
Meglio sarebbe riportare in prima pagina quanti fanno il vino per scelta di vita. E che testimoniano con il loro lavoro come la qualità e l’identità dei loro vini siano davvero legate alla terra.
Ma per raccontare questi autentici interpreti del vino bisogna avere - come giornalisti - anche l’umiltà di ascoltarli, di capirli, di vivere almeno qualche ora in vigna con loro che non hanno addetti stampa e, in tanti, sono giunti a Torino come se fosse stato il primo giorno di scuola.
Per contro, è facile comunicare l’effimero, il vino visto come tendenza, moda e argomento di successo. Un settore in grande espansione. Dove gli stereotipi certo non mancano. Con ogni comunicato stampa - o trasmissione radiotelevisiva - farcito con frasi dove qualità e territorio predominano e con frasi predefinite, con le uve che “vengono raccolte al culmine della maturazione, accuratamente cernite, prima di passare alla pigiatura soffice, alla fermentazione a temperatura controllata e all’affinamento in piccole botti di rovere... per avere un vino sinonimo di tradizione ed evoluzione del miglior made in Italy...”
Quasi che fare il vino sia ormai attività riservata più ai (falsi) comunicatori che ai vignaioli, ai cantinieri».
Nereo Pederzolli

Sin qui lo scritto di monsieur Pederzolli. Che condivido. E in effetti ritengo che il parlar di vino sia giunto ormai ad un bivio: di qui il marketing buono per tutte le occasioni, con la bottiglia omologata a una scarpa, a uno shamppo, a un’automobile, di là la voglia d’informare, di formare, di far cultura.
Già: cultura, sapere, conoscenza. Che son davvero il plus che il vignaiolo vero mette nella sua bottiglia. Il genius loci, la genialità sua e della sua terra: questo sa descriverci il vigneron autentico dentro al bicchiere. Peccato che quella voce resti spesso muta. E mica sempre è colpa solo di chi scrive. Ma c’è anche ritrosia, testardaggine, scontrosità nella gente del vino. Difficoltà all’incontro fra i due mondi del far vino e del far parola. Ha ragione Nereo: occorre passar qualche ora fra vigna e cantina, e conversare, e confrontarsi, e bere e parlare. Se ne riparlerà, anche qui, su InternetGourmet. Per quel che può contare.
D’accordo: questo non è (e non vuol essere) un blog, ma chi volesse intervenire sulla faccenda non deve far altro che scrivermi all’indirizzo solito, che è questo qui: angelo_peretti@tin.it . Girerò poi tutto a Nereo. E chissà. Magari ci si torna su. Sicuro.

domenica 4 marzo 2007

E se il Lugana del 2006...

Angelo Peretti
Che la Lugana, intesa come area vitivincola, e il Lugana, ossia il pargolo in bottiglia di quella terra, siano argomenti di mio interesse, credo sia noto a chi mi frequenta. Ma ho anche a più riprese detto di come in quella zona si siano sì fatti bei passi in avanti, senza però arrivare ancora a saltare davvero l’asticella. Mantenendo invece un fraintendimento di fondo. Che è certo difficile da sciogliere, dato l’attuale successo commerciale della zona. Il Lugana va, tira sul mercato: dunque, giù a farlo morbido e piacione, tradendo così la sua essenza naturale di figlio delle argille, e come tale vocato alla vena minerale e quasi d’idrocarburo, alla freschezza, alla longevità.
Ora, per non ripetere ancora le mie perplessità, per chi avesse perso la puntata e avesse qualche minuto da sprecare, l’invito è quello di rileggere il pensiero sul misunderstading luganista). Epperò devo anche dire che forse le cose sono lì lì per cambiare. E dicendolo incrocio le dita in segno scaramantico. Ché non vorrei trovarmi poi a rimangiar l’affermazione.
La propensione al (moderato) ottimismo mi viene da una giornata trascora in zona ad assaggiare vasche. A tastare vini non ancora vini. A spillare dalle grandi masse in acciaio. Prima che vengano fatte le cuvèe e si passi all’imbottigliamento. E trovo la cosa di particolare interesse, perché mi pare l’unica occasione per verificare per davvero che cosa la stagione abbia dato vigna per vigna, giornata per giornata. Senza la mediazione che si fa poi coll’assemblaggio e il passaggio alla bottiglia.
Mèta del mio breve tour luganista sono stati la Roveglia, che da tre anni, coll’arrivo di Flavio Pra ad affiancare il bravo Paolo Fabiani, è cresciuta parecchio, e poi Cà Lojera, dove Franco Tiraboschi va avanti per il fatto suo, e poi ancora un’aziendina emergente, quella di Anna Palvarini, il cui bianco non m’era passato inosservato nella precedente annata e che ha la consulenza di quel Marco Zizioli che già m’ha favorevolmente impressionato coi vini che fa a casa sua a Capriano del Colle.
Le vasche in questione erano quelle - ovvio - del 2006, l’ultima vendemmia. E, per farla breve, ho trovato cose interessanti, parecchio. Che segnano in qualche caso una svolta che mi piacerebbe poi ritrovare nelle bottiglie. Chissà. Intanto, prendo atto (con soddisfazione) che qualche vino che mi pare vada per il verso giusto lo si rintraccia. E tanto, per ora, mi basta.
Adesso passo a dirvi cos’ho trovato.
Tappa numero uno: Tenuta Roveglia. La perizia di vigna e la genialità di cantina del team Fabiani-Prà balzano agli occhi, o meglio, al naso e al palato. Lugana che diventa passo passo sempre più soavista. Nel senso che mi pare stia percorrendo quella strada che già a Soave (e da là viene Prà) i migliori hanno tracciato nel campo de’ bianchi autoctoni. E dunque diviene progressivamente crû, che interpreta la terra e il vitigno e la stagione con pienezza e potenza e anche però con tensione e freschezza e che non gioca sulla nota morbida per piacere, ma sull’armonia d’assieme. Qualche cosa del 2006 è già andato in bottiglia, alla Roveglia, perché il 2005, stagione grama per quantità, era già da tempo esaurito e i clienti premevano. Ma credo occorra attendere soprattutto l’imbottigliamento delle vasche nuove. Che, alla prova del bicchiere, propongono vini che nascono col frutto e poi virano verso la freschezza salina e poi sfoggiano un attimo di ruvidità di carta vetrata a interrompere il flusso di fruttuosità e di saliva e infine chiudono su una vena di clorofilla e su un frutto croccante ma non dolce, non morbido, e resta quasi asciutto il palato. Come piace a me. Aspetto ora la bottiglia, perché quello sarà il test vero. Vedremo quest’estate.
Tappa seconda: Cà Lojera. Cercavo, se era possibile, qualcosa che mi ricordasse la clamorosa bottiglia del Lupo dell’annata anomala del 2003. Uno dei Lugana che in assoluto mi siano più piaciuti da sempre e che tuttora reputo di livello splendido, ed anzi, son convinto che ancora si debba quel vino cominciare ad esprimere in bottiglia, ed abbia anzi lunga, lunghissima vita davanti (e fortuna che Ambra e Franco non tutto l’han messo in vendita ed anzi, com’è loro abitudine, conservano tuttora casse ad affinare in cantina: sia benedetta la loro parsimonia che permette di bere bianchi luganisti di più annate). Mi piaceva e mi piace, in quel Lugana di tre vendemmie fa, soprattutto la nota, nettissima, di clorofilla che accompagna il lungo finale nel quale non c’è - evviva - morbidezza che emerga. E che mi ricorda in qualche modo quei cenni resinosi che un tempo esistevano nel Vigna Silva, Lugana oggi non più prodotto da Cà Lojera. E dunque è caratteristica del terroir loro e del loro modo di far vino. Se l’ho ritrovato, quel carattere, quell’imprinting? Sissignori. Ci son belle cose che maturano nell’acciaio. E in particolare ho bevuto da una vasca di 2006, ch’è smagliante di freschezza eppure anche piena di corpo, tesissima e nervosa. Chissà che cosa ne uscirà quando (quando?) passerà in bottiglia.
Tappa tre: Corte Anna. L’ha chiamata così, quella tenuta, il sciur Palvarini - industria metalmeccanica - in onore della figlia, che fa di nome Anna, appunto, e che oggi conduce l’azienda. L’han comprata negli anni Settanta, quella terra: era pura diversificazione d’investimento, e solo poi, come spesso accade, è nata la passione per il vino. S’è cominciato a far bianco da cisterna e damigiana. Primo imbottigliamento solo nel ’98. Cambio di passo un paio di vendemmie fa, ascoltando un consulente enologo, Zizioli, e investendo sull’apporto agronomico di Marco Tonni, team Sata. Otto ettari in tutto, 50mila bottiglie. Le vigne nuove son nate per selezione massale dai ceppi più vecchi presenti nel vigneto, piantati attorno al 1935. Il vino conosce solo acciaio: non c’è legno in cantina per questi bianchi luganisti. Bene. Fino al 2004, poca cosa, vinello. Il 2005, eccolo buono davvero. Il 2006 matura in vasca che è un piacere. Figlio d’una vendemmia lunghissima, com’è stata quella dell’ultima annata, ha già bel naso, rusticheggiante nelle sue sensazioni di frutto e di colorofilla e di fior di camomilla. La bocca è piena, soda, e ha bell’acidità e non v’è - ora - dolcezza o morbidezza di sorta nel finale ed anzi ha conclusione asciutta e quasi tannica e con note di erbe e vegetalità e ha carattere e personalità. Anche qui, aspetto, ovviamente, la bottiglia, ma le premesse (le promesse) son belle, belle.
Oh, insomma: tre tappe e tre cose «nuove» che mi son piaciute. E se dunque l’annata luganista del 2006…
Speriamo bene, e lasciam tempo al tempo, ché quello è galantuomo sempre.