sabato 24 marzo 2007

Se il digiuno è questione di gastronomia

Angelo Peretti
Mi capita a volte di scrivere queste note viaggiando in treno. Stavolta su un eurostar che va verso Milano. Siamo a Brescia. È appena salita gente: sono le 13. Poco discosti da me han preso posto due uomini, in giacca e cravatta. Hanno in mano, entrambi, un vassoietto di carta, e sopra un trancio di pizza. Lo trangugiano in fretta, in un battibaleno: han finito che il convoglio non s’è ancora mosso. E poi subito tuffati nel lavoro: l’uno al pc, l’altro al telefonino.
Ecco: manca il tempo, manca una dimensione. E per riagguantarne una briciola ci priviamo del gusto, che è, per me, un’altra dimensione importante del vivere. Ce ne priviamo inghiottendo qualunque cosa fra un’occupazione e l’altra, purché abbia la parvenza di cibo. Ce ne priviamo incamerando alimenti da catena di montaggio.
Sembra un fatto banalmente accettato come necessario. Ma è preoccupante. E non per motivi salutistici o dietetici. Il problema è un altro. È culturale. E cito una frase di Carlo Petrini, fondatore si Slow Food: «Il cibo è il principale fattore di definizione dell’identità umana, perché ciò che mangiamo è sempre un prodotto culturale». Se è vero, il mangiar d’oggi è culturalmente preoccupante: è la riprova che qualcosa non va in questa nostra vita che corre, corre, corre senza una mèta precisa. Viviamo per il lavoro. In catena di montaggio.
Allora, viva la moderazione. E dunque stavolta parlo del digiuno.
Oh, sì, me la sento l’obiezione: InternetGourmet è un web magazine di gastronomia, e allora perché filosofeggi di digiuno? Rispondo: perché anche questo appartiene alla gastronomia.
Certo, non a tutti interessa. Eppoi viviamo in una società che è pervasa di sana laicità ma pure di laicismo esasperato. Però è quaresima, e la tradizione (la ritualità) cristiana vorrebbe fosse periodo d’astinenze dai cibi. Ma non ne faccio (solo) una questione di precetto religioso, di propensioni morali. No: è ragione di gusto.
Mi spiego. Il digiuno, di tanto in tanto, fa bene. Al fisico, alla mente, al gusto. Sembra un paradosso, ma è così. Perché per apprezzare fino in fondo qualcosa (qualcuno) bisogna averne provata la privazione. Fors’è un’esperienza che avete anche voi vissuto, ché fa parte del vivere. E dunque per dar valore per esempio al cibo occorre averne provata l’assenza che stringe alla gola. Per dar credito al vino serve aver testato l’arsura della sua lontananza coatta.
Mi diceva in questi giorni un amico della sua fatica a non poter gustare un bicchier di vino a tavola, ora che i medici gliel’hanno vietato per via di certe cure che gli tocca fare. Ecco: son certo che quando potrà tornare a berne, di vino - e son sicuro che potrà - ne saprà assaporare sino in fondo il gioioso ritrovamento. E avrà bisogno di berne meno di prima, ché il ritrovamento darà più sensibile il piacere.
Dico per esperienza, ché nella vita l’incidente di percorso capita, oh se ti capita! Ed anche per aver provato la volontaria costrizione dell’astinenza. Sia chiaro: occasionalmente. Mica faccio l’asceta. Magari mi si prenderà per matto, ma sia: ma garantisco che è prova utile. Comunque.
È il desiderio struggente di quel che non hai (più) a farti meglio apprezzare quel che hai avuto e a farti sognare quanto potrai avere. E i nostri genitori e nonni e avi molto probabilmente hanno vissuto il morso della privazione. Di qui nasceva il gusto - ahiloro, molto occasionale - del convivio. E il ritrovarsi a festeggiare a tavola era occasione solenne. E il bere insieme il bicchiere era profondo segno di condivisione.
Oggi non è così. Oggi il cibo trabocca. Magari di plastica, ma ve n’è in eccesso nel mondo occidentale. E non v’è più sacralità del desco: si trangugia il pranzo di mezzodì al bancone d’un anonimo bar, coi paninacci scaldati alla piastra puzzolente d’untume abbrustolito, coi sedicenti tralci di pizza conditi con improbabili formaggi. Cinque, dieci minuti al massimo, e il pranzo - che dico pranzo? l’assunzione del nutrimento - è cosa fatta. E via al lavoro. Che se ci pensi non è molto diversa la vita del pollo in batteria.
Meglio dir no, almeno una volta. Rinunciare. Rivendicare il proprio essere persona.
Ecco, che ci si creda o no nella dimensione di fede, il digiuno è pratica che comunque può valer la pena d’esercitare, talvolta. Anche per il gastronomo. Anzi: forse di più proprio per lui, ché si rischia di perdere il senso, la misura, il gusto vero. Ed è prova contro se stessi, contro lo stimolo belluino. E quando n’esci vincitore hai dominato te stesso e l’istinto primordiale che è in te, e dunque più controllato e vero sarà il successivo (re)incontro col piacere del cibo e del vino. Vedete? È questione di gusto, anche.
Poi, se si vuole, si può vestire quest’assenza alimentare con valori che possono essere più nobili e più elevati e anche colti, e ritrovarvi motivazione eticamente apprezzabili. La storia del mondo cristiano vede il santo trovare nel digiuno la purificazione e il viatico per la grand’impresa (della fede e non solo). E proprio, per dirla con Leo Moulin, medievista, i regimi alimentari monastici d’età medievale erano tutti comunque concepiti come un «sistema di privazioni, di digiuno e di astinenza». Ho letto nei giorni scorsi sul quotidiano della mia provincia, L’Arena (ed è testata alla quale anch’io collaboro da anni et annorum), che il vescovo veronese raccomandava di digiunare dedicando il denaro risparmiato all’opera buona, al povero, al derelitto. Per condividerne un po’ l’asprezza del vivere.
Ecco: è cosa apprezzabile, questa, anche per chi fede non ha. Come è apprezzabile il privarsi del cibo richiesto da altre religioni. Ma è questione di scelta personale. Mi basta molto, molto meno. Non dobbiamo far gli eremiti. Solo capire un po’ meglio la nostra dimensione. E quella del cibo. E quella del vino. Che son poi frutti della fatica e dell’intelligenza e della genialità.
Non è piccola cosa. Forse, il privarsene occasionalmente ce li fa meglio capire, quei gusti, quei sapori, quelle fragranze, quegli afrori, quegli aromi, quei succhi, quelle sapidità, quelle freschezze, quel pastoso calore. Ce li fa meglio apprezzare. Per apprezzare di più la vita. Che è nostra. Solo nostra. Ed è vita, con le sue fatiche, i suoi dolori, le sue assenze. E, talvolta, le gioie.

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