domenica 11 marzo 2007

Il vino dei comunicatori, il vino dei vignaioli

Angelo Peretti
Questa volta cedo la mano, ma non mi si accusi d’essermi fatto pigro. Il fatto è che mi ha scritto una mail l’amico Nereo Pederzolli, giornalista Rai di Trento e figura storica di Slow Food in terra tridentina. E m’ha ricordato il pezzo di commento che ha scritto sul periodico della chiocciolina, Slowfood numero 24, appena uscito. Dove prende spunto dalla cerimonia di consegna dei tre bicchieri di Vini d’Italia, al Lingotto di Torino. Per parlare poi - e approfondire, con spunti di notevole interesse - il tema della comunicazione & dei comunicatori, o presunti tali, del vino. Ed è riflessione interessante assai. E siccome lui, il Nereo, m’ha detto che, insomma, la faccenda potrebbe magari interessare ai lettori internetgourmettiani (neologismo suo, e mi piace), e che si potrebbe aprire una sorta di dibattito, allora quell’articolo gli ho chiesto il permesso di ripubblicarlo anch’io, e così faccio. Godetevi, qui sotto, il suo scritto.

IN BARBA ALL'EFFIMERO
di Nereo Pederzolli
«In fila, come scolari. Per ricevere un premio che per molti è una sorta di laurea. Emozionati, orgogliosi, appagati. Interpreti sul gran palco dell’evoluzione del vino italiano. Al Salone del Gusto giungono in sordina, per non disturbare, per lasciare la scena mediatica alle comunità del cibo provenienti da tutto il mondo. I vent’anni della guida Vini d’Italia sono stati, giustamente, sovrastati da Terra Madre. Anche se, idealmente, al Lingotto c’erano tutti i 2206 produttori degli oltre 16mila vini selezionati da Gambero Rosso & Slow Food e, certo, non mancavano i premiati, quanti hanno conquistato i 282 Tre Bicchieri, così come gli autori dei 25 Tre Bicchieri non dati. Il premio del poi, che rilancia il dibattito su cosa significhi giudicare un vino, capirne l’indole, prevederne l’evoluzione. Uno stimolo ulteriore a leggere Vini d’Italia come strumento di comunicazione. Senza dogmi, per dare senso al modo di gustare il vino.
Troppi “comunicatori” del vino dimenticano di liberare le opinioni personali da stereotipi che portano a una certa normalizzazione del gusto. Una tendenza emersa anche in molti servizi radiotelevisivi sul Salone di Torino. Dove spesso è stata messa in evidenza l’estetica del cibo: certi cuochi come star cinematografiche, la cucina come luogo di sogni irrealizzabili. Se poi il soggetto dell’articolo diventa il vino, ecco rilanciare ulteriormente i concetti di una qualità percepita solo esteriormente. Vini buoni perché esclusivi, quasi impossibili da trovare, riservati a una sorta di casta enoica.
Con una schiera sempre maggiore di giornalisti, operatori, opinion makers che suggeriscono abbinamenti enogastronomici “a getto continuo”; con “tuttologi” che riempiono contenitori televisivi ostentando calici di cristallo, roteando bicchieri, brandendo decanter come se il vino fosse solo una questione d’immagine.
L’utente, il consumatore, pure l’appassionato di gastronomia rischiano di subire le insidie di un messaggio basato sulla superficialità e che mina l’identità del vino stesso, stravolgendo l’impegno di quanti lavorano in vigna per ottenere un prodotto caparbiamente voluto. E si rischia, insieme, di travisare il senso di verità che lega la vite alla terra e all’uomo.
L’incredibile, fascinosa kermesse del recente Salone del Gusto doveva essere raccontata da noi operatori dell’informazione senza troppo esaltare il “gusto estetico” dell’evento, specialmente per quanto riguarda i vini.
Descrivere, comunicare un vino di successo è facile e può essere anche gratificante. La ricerca esasperata della novità e dell’effimero - da infilare in articoli o servizi televisivi - per stimolare l’immaginario del consumatore forse non aiuta ad educare, anzi, spesso maschera un certo impoverimento del livello di percezione gustativa, rendendo quasi tutto omologabile.
Ecco perché anche alla gioiosa cerimonia di premiazione dei 282 Tre Bicchieri, il vino italiano ha dimostrato come la sua tradizione e le spinte di innovazione siano temi ancora da comunicare.
Pochi gli spazi nei vari telegiornali sono stati riservati ai veri artefici del buon bere italiano, a quei piccoli quanto autorevoli produttori che sono saliti sul palco di Torino, quasi impauriti, spaesati nell’insolito ruolo di protagonisti. Un premio ritirato con orgoglio, che pensano subito di dedicare più alla vigna che alle loro fatiche. Vignaioli importanti, già famosi o che lo saranno. Fianco a fianco con i nomi delle aziende blasonate, i miti dell’enologia, non solo italiana. Inutile citarne qualcuno. Tutti assieme, con i loro 282 gioielli, poi in degustazione sulla rampa del Lingotto. Gente sobri, che dà voce anzitutto al prodotto ma che, proprio per questo motivo, spesso i canali di informazione relegano tra gli argomenti minori o da presentare come evento di folklore, dando invece spazio alle cantine che sul marketing aziendale hanno impostato gran parte del loro - per altro giusto - successo.
Meglio sarebbe riportare in prima pagina quanti fanno il vino per scelta di vita. E che testimoniano con il loro lavoro come la qualità e l’identità dei loro vini siano davvero legate alla terra.
Ma per raccontare questi autentici interpreti del vino bisogna avere - come giornalisti - anche l’umiltà di ascoltarli, di capirli, di vivere almeno qualche ora in vigna con loro che non hanno addetti stampa e, in tanti, sono giunti a Torino come se fosse stato il primo giorno di scuola.
Per contro, è facile comunicare l’effimero, il vino visto come tendenza, moda e argomento di successo. Un settore in grande espansione. Dove gli stereotipi certo non mancano. Con ogni comunicato stampa - o trasmissione radiotelevisiva - farcito con frasi dove qualità e territorio predominano e con frasi predefinite, con le uve che “vengono raccolte al culmine della maturazione, accuratamente cernite, prima di passare alla pigiatura soffice, alla fermentazione a temperatura controllata e all’affinamento in piccole botti di rovere... per avere un vino sinonimo di tradizione ed evoluzione del miglior made in Italy...”
Quasi che fare il vino sia ormai attività riservata più ai (falsi) comunicatori che ai vignaioli, ai cantinieri».
Nereo Pederzolli

Sin qui lo scritto di monsieur Pederzolli. Che condivido. E in effetti ritengo che il parlar di vino sia giunto ormai ad un bivio: di qui il marketing buono per tutte le occasioni, con la bottiglia omologata a una scarpa, a uno shamppo, a un’automobile, di là la voglia d’informare, di formare, di far cultura.
Già: cultura, sapere, conoscenza. Che son davvero il plus che il vignaiolo vero mette nella sua bottiglia. Il genius loci, la genialità sua e della sua terra: questo sa descriverci il vigneron autentico dentro al bicchiere. Peccato che quella voce resti spesso muta. E mica sempre è colpa solo di chi scrive. Ma c’è anche ritrosia, testardaggine, scontrosità nella gente del vino. Difficoltà all’incontro fra i due mondi del far vino e del far parola. Ha ragione Nereo: occorre passar qualche ora fra vigna e cantina, e conversare, e confrontarsi, e bere e parlare. Se ne riparlerà, anche qui, su InternetGourmet. Per quel che può contare.
D’accordo: questo non è (e non vuol essere) un blog, ma chi volesse intervenire sulla faccenda non deve far altro che scrivermi all’indirizzo solito, che è questo qui: angelo_peretti@tin.it . Girerò poi tutto a Nereo. E chissà. Magari ci si torna su. Sicuro.

Nessun commento:

Posta un commento