domenica 4 marzo 2007

E se il Lugana del 2006...

Angelo Peretti
Che la Lugana, intesa come area vitivincola, e il Lugana, ossia il pargolo in bottiglia di quella terra, siano argomenti di mio interesse, credo sia noto a chi mi frequenta. Ma ho anche a più riprese detto di come in quella zona si siano sì fatti bei passi in avanti, senza però arrivare ancora a saltare davvero l’asticella. Mantenendo invece un fraintendimento di fondo. Che è certo difficile da sciogliere, dato l’attuale successo commerciale della zona. Il Lugana va, tira sul mercato: dunque, giù a farlo morbido e piacione, tradendo così la sua essenza naturale di figlio delle argille, e come tale vocato alla vena minerale e quasi d’idrocarburo, alla freschezza, alla longevità.
Ora, per non ripetere ancora le mie perplessità, per chi avesse perso la puntata e avesse qualche minuto da sprecare, l’invito è quello di rileggere il pensiero sul misunderstading luganista). Epperò devo anche dire che forse le cose sono lì lì per cambiare. E dicendolo incrocio le dita in segno scaramantico. Ché non vorrei trovarmi poi a rimangiar l’affermazione.
La propensione al (moderato) ottimismo mi viene da una giornata trascora in zona ad assaggiare vasche. A tastare vini non ancora vini. A spillare dalle grandi masse in acciaio. Prima che vengano fatte le cuvèe e si passi all’imbottigliamento. E trovo la cosa di particolare interesse, perché mi pare l’unica occasione per verificare per davvero che cosa la stagione abbia dato vigna per vigna, giornata per giornata. Senza la mediazione che si fa poi coll’assemblaggio e il passaggio alla bottiglia.
Mèta del mio breve tour luganista sono stati la Roveglia, che da tre anni, coll’arrivo di Flavio Pra ad affiancare il bravo Paolo Fabiani, è cresciuta parecchio, e poi Cà Lojera, dove Franco Tiraboschi va avanti per il fatto suo, e poi ancora un’aziendina emergente, quella di Anna Palvarini, il cui bianco non m’era passato inosservato nella precedente annata e che ha la consulenza di quel Marco Zizioli che già m’ha favorevolmente impressionato coi vini che fa a casa sua a Capriano del Colle.
Le vasche in questione erano quelle - ovvio - del 2006, l’ultima vendemmia. E, per farla breve, ho trovato cose interessanti, parecchio. Che segnano in qualche caso una svolta che mi piacerebbe poi ritrovare nelle bottiglie. Chissà. Intanto, prendo atto (con soddisfazione) che qualche vino che mi pare vada per il verso giusto lo si rintraccia. E tanto, per ora, mi basta.
Adesso passo a dirvi cos’ho trovato.
Tappa numero uno: Tenuta Roveglia. La perizia di vigna e la genialità di cantina del team Fabiani-Prà balzano agli occhi, o meglio, al naso e al palato. Lugana che diventa passo passo sempre più soavista. Nel senso che mi pare stia percorrendo quella strada che già a Soave (e da là viene Prà) i migliori hanno tracciato nel campo de’ bianchi autoctoni. E dunque diviene progressivamente crû, che interpreta la terra e il vitigno e la stagione con pienezza e potenza e anche però con tensione e freschezza e che non gioca sulla nota morbida per piacere, ma sull’armonia d’assieme. Qualche cosa del 2006 è già andato in bottiglia, alla Roveglia, perché il 2005, stagione grama per quantità, era già da tempo esaurito e i clienti premevano. Ma credo occorra attendere soprattutto l’imbottigliamento delle vasche nuove. Che, alla prova del bicchiere, propongono vini che nascono col frutto e poi virano verso la freschezza salina e poi sfoggiano un attimo di ruvidità di carta vetrata a interrompere il flusso di fruttuosità e di saliva e infine chiudono su una vena di clorofilla e su un frutto croccante ma non dolce, non morbido, e resta quasi asciutto il palato. Come piace a me. Aspetto ora la bottiglia, perché quello sarà il test vero. Vedremo quest’estate.
Tappa seconda: Cà Lojera. Cercavo, se era possibile, qualcosa che mi ricordasse la clamorosa bottiglia del Lupo dell’annata anomala del 2003. Uno dei Lugana che in assoluto mi siano più piaciuti da sempre e che tuttora reputo di livello splendido, ed anzi, son convinto che ancora si debba quel vino cominciare ad esprimere in bottiglia, ed abbia anzi lunga, lunghissima vita davanti (e fortuna che Ambra e Franco non tutto l’han messo in vendita ed anzi, com’è loro abitudine, conservano tuttora casse ad affinare in cantina: sia benedetta la loro parsimonia che permette di bere bianchi luganisti di più annate). Mi piaceva e mi piace, in quel Lugana di tre vendemmie fa, soprattutto la nota, nettissima, di clorofilla che accompagna il lungo finale nel quale non c’è - evviva - morbidezza che emerga. E che mi ricorda in qualche modo quei cenni resinosi che un tempo esistevano nel Vigna Silva, Lugana oggi non più prodotto da Cà Lojera. E dunque è caratteristica del terroir loro e del loro modo di far vino. Se l’ho ritrovato, quel carattere, quell’imprinting? Sissignori. Ci son belle cose che maturano nell’acciaio. E in particolare ho bevuto da una vasca di 2006, ch’è smagliante di freschezza eppure anche piena di corpo, tesissima e nervosa. Chissà che cosa ne uscirà quando (quando?) passerà in bottiglia.
Tappa tre: Corte Anna. L’ha chiamata così, quella tenuta, il sciur Palvarini - industria metalmeccanica - in onore della figlia, che fa di nome Anna, appunto, e che oggi conduce l’azienda. L’han comprata negli anni Settanta, quella terra: era pura diversificazione d’investimento, e solo poi, come spesso accade, è nata la passione per il vino. S’è cominciato a far bianco da cisterna e damigiana. Primo imbottigliamento solo nel ’98. Cambio di passo un paio di vendemmie fa, ascoltando un consulente enologo, Zizioli, e investendo sull’apporto agronomico di Marco Tonni, team Sata. Otto ettari in tutto, 50mila bottiglie. Le vigne nuove son nate per selezione massale dai ceppi più vecchi presenti nel vigneto, piantati attorno al 1935. Il vino conosce solo acciaio: non c’è legno in cantina per questi bianchi luganisti. Bene. Fino al 2004, poca cosa, vinello. Il 2005, eccolo buono davvero. Il 2006 matura in vasca che è un piacere. Figlio d’una vendemmia lunghissima, com’è stata quella dell’ultima annata, ha già bel naso, rusticheggiante nelle sue sensazioni di frutto e di colorofilla e di fior di camomilla. La bocca è piena, soda, e ha bell’acidità e non v’è - ora - dolcezza o morbidezza di sorta nel finale ed anzi ha conclusione asciutta e quasi tannica e con note di erbe e vegetalità e ha carattere e personalità. Anche qui, aspetto, ovviamente, la bottiglia, ma le premesse (le promesse) son belle, belle.
Oh, insomma: tre tappe e tre cose «nuove» che mi son piaciute. E se dunque l’annata luganista del 2006…
Speriamo bene, e lasciam tempo al tempo, ché quello è galantuomo sempre.

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