sabato 24 febbraio 2007

Bulfon, che riscopre le vigne dimenticate

Angelo Peretti
Prima o poi mi toccherà farci un salto dalle parti di Valeriano, Valli Pordenonesi, Friuli Venezia Giulia. Mi toccherà perché m’è venuta la curiosità di conoscerlo di persona, Emilio Bulfon. L’ho solo sentito un paio di volte al telefono. Contattandolo perché Marco Sabellico m’aveva chiesto una mano a rivedere qualche scheda della guida ai vitigni autoctoni del Gambero Rosso. E così ne ho potuto assaggiare i vini. Rari. Unici. Rustici. Inusuali. Antichi.
Bulfon ha una caratteristica: fa solo vini da uve autoctone. Capisco l’obiezione: sarà mica una novità far vino da vitigni locali. Già, ma le sue vigne le ha solo lui, o quasi. Le ha strappati alla morte, all’oblio, alla consunzione, li ha ritrovati nel bosco, riaddomesticati, resuscitati. Si chiamano scjaglìn, cividìn, ucelùt, piculìt neri, cjanòrie, forgiarìn, cordenossa. Alzi la mano chi ne aveva già sentito parlare.
Una volta erano coltivate, quei vitigni. Poi si sono scelte altre cultivar, più produttive, meno rognose, di tendenza. E così se n’erano perse le tracce da almeno trent’anni. Per dirla con Bulfon, «sembravano scomparsi e fagocitati dai rovi della boscaglia e dall’incuria degli uomini». Ritrovati, a mo’ di reperto archeologico, ecco la voglia di farli rivivere. Con la collaborazione di Antonio Calò, direttore dell’istituto sperimentale per la viticoltura di Conegliano, e di Ruggero Forti, ampelografo, studioso cioè di varietà di vigne. Ma quest’era solo l’inizio della trafila, ché non ce n’era citazione nei repertori ufficiali, nel novero delle varietà autorizzate ufficialmente a far vino. Dunque s’è dovuto attivare il canale della burocrazia, perché il vino che se ne ricavava non fosse, pensate un po’, fuorilegge. Finché, nel ’91, è arrivato il primo successo: l’allora ministero dell’agricoltura e delle foreste (quante volte ha cambiato nome, referendum a parte?) ha incluso il fogiarìn, il piculìt neri, lo scjaglìn e l’ucelùt nel Catalogo nazionale delle viti. Per altri la storia è appena (ri)cominciata.
Dicevo, prima, di resurrezione, per queste vigne riemerse dalla storia. E fors’è termine azzardato. O forse no, ché c’è un qualche cosa di sacrale davvero nell’opera d’Emilio Bulfon. E questa sacralità, questo rispetto nel porsi verso il vino lo si trova fin dall’etichette, disegnate di pugno, prendendo ispirazione da un affresco d’una chiesetta della zona, e anche questa mi piacerebbe andar a vederla. Era, quel tempietto, caro alla divozione della Confraternita di Santa Maria dei Battuti. E accoglie sulle pareti l’affresco di un’Ultima Cena. Fascinoso, come lo sono tutti i dipinti murali delle Cene medievali. Che raccontano storia cristiana, ma che sono pure testimoni dei loro tempi. Ché i dipintori, spesso itineranti, nel tratteggiar le vesti e soprattutto gli utensili e i cibi si rifacevano agli usi del luogo. E così, per esempio, nella chiesuola della Trinità della mia Torri del Benaco ci si vede un pesce che somiglia a un carpione del Garda, e in posti di rivoli d’acqua si trovano pitturati i gamberi (con la loro simbologia di resurrezione, appunto: ma sarebbe questione lunga a rinnovarne qui la trattazione). Ebbene, a Valeriano, sulla mensa dipinta, ci sono stoviglie e brocche e coppe che, mi si dice, son somiglianti a quelle ritrovate dagli archeologi sul posto. Ed è bello che l’affresco venga reinterpretato sulle bottiglie. Perché anche questo, anche questa sacralità oggi magari sopita, è in verità parte del terroir. Come il vitigno. Come il suolo. Come il clima. È genius loci, genialità dell’uomo in quelle pezze di terra.
Ho divagato. E adesso dunque torno ai vini (o forse non mi ci sono mai staccato, chissà). E li racconto uno per uno. Descrivendo insieme vino e vitigno. Cominciando da quello che m’è piaciuto di più e via a scalare. E comunque son vini che danno emozione.

Cjanòrie Rosso. Perbacco che interessante! Evviva evviva d’averla ritrovata questa vigna dai chicchi blu violetti. Chissà perché non fu mai coltivata intensamente. Pare abbia origine dalle parti di Gemona. Era usata nei pergolati: è rigogliosa. Il nome deriva dal friulano «ciane», che sta per «canna»: Bulfon ipotizza lo chiamssero così perché lo si tracannava a canna. Mah. Ho bevuto (proprio bevuto, macché assaggiato) la versione del 2005. E se mi capitasse la ribevo di gusto. M’ha stregato per beva. Per malizia. Rosso rubino che sfuma nel violaceo. Naso intrigante da vin brulè (chiodo di garofano e cannella e scorza d’arancia) eppoi fruttino in confettura (il mirtillo, le bacche del sambuco). La bocca ha freschezza e frutta succosa e golosa, con la marasca in primo piano e la mora di rovo e la prugna cotta. Non ha potenza, ma lunghezza ammirevole. Wow!
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
In cantina, prezzo a privati, costa 5 euro alla bottiglia.

Scjaglìn Bianco. Si legge S-ciaglìn. Pare citato già nel Quattrocento. Forse corrisponde all’antica schiadina, menzionata come capace di dar «vini eccellenti per delicatezza e dolce sapore». Vigna da Friuli Occidentale. A metà Ottocento era coltivato fra Vito d’Asio e Fagagna, mezzo secolo dopo era testimoniato fra Maniago e Pinzano. Oggi è ridotto a poca vigna. Ed è un peccato, ché dà un bianco interessante parecchio. Ho bevuto l’annata 2006. Ha colore di paglia dorata. Naso direi quasi aromatico, sul floreale. Bocca intrigante, pur’essa aromatica e fiorale, con vena agrumata, con fondo di nocciole di bosco e di mandorla. Ed ha freschezza salina e note vagamente minerali e bella vena acidula. Mi piacerebbe provarne qualche bottiglia più in là d’età: mi dà l’impressione d’un bianco che regge bene il tempo.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Costa 5 euro.

Piculìt Neri Rosso. Niente a che fare col picolìt. Citata fra le uve esposte nelle mostre dell’Associazione Agraria Friulana di Udine nel 1863 e nel 1921, indicandone la coltivazione nel comune di Castelnovo. Il nome sta per «piccolino», per la forma minuta dell’acino. Ho potuto bere il 2006 e il 2004. E c’è bella differenza. Quello più giovane è rubino-violaceo brillante e lucente nella veste, e tradisce così l’estrema giovinezza. Ed è giovanilmente aggressivo il naso con quel piccolo frutto e quel pepe e quella traccia vinosa. Ed anche in bocca il frutto è compresso: difficile giudicarlo ora. Ma potrebb’evolvere, e aver longevità. E la conferma mi viene dal 2004, che intanto è adulto nella coloritura, rubino profonda. E il naso ha frutto, piccolo, nero, ma anche personalissima venatura minerale di grafite. La bocca è tannica, fruttata, ma anche asprigna e quasi acidula, e dunque tuttora giovanilissima. Alla lunga il fruttato poi si dilata, si distende, e s’arricchisce di spezia, e di nuance agrumata e di tabacco.
Due sorridenti faccini al 2004 :-) :-)
Anche questo 5 euro.

Forgiarìn Rosso. Il nome deriva da quello di Forgaria: aveva, il paesetto, celebri potatori di vigne, ch’emigravano persino in Ungheria. Nell’esposizione regionale delle uve tenutasi a Udine nel 1863 ne veniva indicata l’area di coltivazione nei colli di San Daniele. Provato il giovanissimo e non ancora pronto 2006. Ha colore rubino violaceo, tinta antica, da vin ruspo. naso vinoso. Frutto di bosco e marasca e vena vagamente floreale e una spezia immatura e quasi aggressiva. E rustichetto è in bocca, e tannico, e fruttato della bacca di bosco e acidulo. Chissà com’è quando ha maturato tempo in bottiglia.
Intanto, un faccino ridente e quasi due :-)
Ancora 5 euro.

Cordenossa Rosso. L’ultimo ritrovato. Recentissimo ritrovamento, ma Bulfon ci crede. La vendemmia che mi son trovato in bottiglia è quella del 2006. Ed è anche questo - o forse soprattutto questo - rosso che andrebbe provato più avanti, quand’avrà fatto affinamento a sufficienza. Ché ha materia, parecchia. Il colore è scuro, denso, nero, coll’unghia violacea. All’olfatto, ecco il frutto di bosco, la mora, e poi la ciliegia matura, stramatura direi. E il pepe. E il tabacco da sigaro toscano. La bocca è insieme dolce e fruttata. E speziatina (di spezia fine). Ma anche, per ora, un po’ incompiuta. C’è insomma quasi cesura tra la piacevolezza piena del fruttato e un corpo che ha la profondità che t’aspetti. In ogni caso, segnatelo ‘sto Cordenossa, ché potrà dare cosse notevoli con le prossime vendemmie.
Viene 6 euro.
Sospendo il giudizio, per ora: troppo presto.

Cividìn Bianco. Vitigno negletto, mescolato tutt’al più ad altri nei filari. Il nome deriva dalla città di Cividale, da cui pare origini. Destinato tradizionalmente a far vini leggeri. Da ombra. Se ne trae in effetti un bianco semplicino, tutt’al più da aperitivo di poco impegno. Ho bevuto il 2006. Colore paglierino carico, naso rusticheggiante, contadino, che somiglia a certi trebbianelli rurali che s’usavano (e forse ancora s’usano) nei campi delle mie parti. La bocca ha frutto acerbo, tra la mela e la susina. Buona lunghezza, vagamente speziata. Secco. Certo, nulla a che vedere con la fascinosa personalità che ho detto dello Scjaglìn.
Niente faccino, ma tanta simpatia.
Fa 5 euro.

Questi i vini.
Non ho detto dei due passiti che pure son nel repertorio di Bulfon: il Moscato Rosa e l’Ucelùt (8 euro ciascuno in bottiglia piccola). Ma mi fermo, lasciandovi nell’incertezza. E magari nel piacere della scoperta. Sennò, che gusto c’è?

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