giovedì 31 agosto 2006

Quei piccoli e liberi vignaioli del Südtirol

Angelo Peretti
L’impressione di fondo è che questi il vino lo san fare, sissignori. Dico dei Freie Weinbauern Südtiroler, ossia i Vignaioli dell’Alto Adige. È, questa, un’associazione che riunisce gente che ha piccola vigna in terra altoatesina. E che sa fare vino bene, ché la gran parte di quant’ho provato valeva la pena di bersela.
Sono stato a Bolzano a provare i loro vini, che hanno mess’in mostra al Parkhotel Laurin. E n’ho ricavato bella impressione. Certo, qualcosa che non andava c’era anche lì. Ma era l’eccezione, anche pescando a caso fra i nomi sconosciuti. La media è dunque alta. E qualche gotto da incorniciare l’ho trovato pure sui tavoli di chi mai avevo (colpa mia) prima sentito nominare. D’altra parte, se tutti fossero noti e stranoti, a cosa servirebbero manifestazioni come questa?
Parlano quasi tutti, quei vini, la lingua del vitigno e del terroir. Insomma, c’è personalità, e poca sudditanza al gusto sedicente internazionale, alla concentrazione pacchiana, al frutto dolcissimo, al tannino palestrato. Vini che narrano invece di montagna e d’aria buona e di roccia. Bene. Bene davvero.
Confesso che non tutto ho assaggiato, ché gli espositori erano una sessantina e tutti avevano almeno quattro bottiglie e qualcheduno anche di più. Il che voleva dire metter’in bocca qualcosa come duecentocinquanta vini suppergiù. Il che sarebbe impresa farlo già in due giorni di lavoro. Figurasi solo nel pomeriggio e nella sera d’un sabato. Per di più in piedi, col taccuino in mano e la penna e il bicchiere e la cartella stampa.
Il Laurin, centro di Bolzano, è bella struttura, magari un po’ piccolina, ché a una cert’ora si cominciava a muoversi a fatica fra i tavolini. Ma il contesto era piacevole e cortesi i produttori all’inpiedi dietro il tavolo. Forse qualcheduno un po’ spaurito, fors’anche poco avvezzo a simili assalti di folla, ché c’era gente che ha campagna dal mezz’ettaro ai tre, roba che trovi uguale solo in Borgogna o in Alsazia o sul Reno tedesco. Piccolo è bello, in Südtirol. Tant’è che la parte di quello grand’e grosso finiva per farla Manincor, forte dei suoi quarantacinque ettari vitati in Oltradige.
Ma torno indietro un passo. E dico ancora qualche cosa sull’associazione, profittando delle note che m’ha fornito la cortesissima pr Beatrix Unterhofer.
Ordunque, fondata l’11 maggio del ’99 a Bolzano da dodici vignaioli, la squadra dei Freie Weinbauern Südtiroler raccoglie oggi settantott’aziende agricole che vinificano e imbottigliano in proprio: dalle loro parti li chiamano masi vitivinicoli. Sono distribuite, queste aziendine, in tutte le zone viticole altoatesine: a Bolzano ce ne sono diciannove, nel Burgraviato-Meranese cinque, in Val d’Isarco dodici, in Valdadige un paio, nell’Oltradige diciotto, nella Bassa Atesina diciassette, in Val Venosta cinque. In tutto, dispongono d’una superficie vitata di 290 ettari, che rappresenta grosso modo il 6 % del vigneto totale dell’Alto Adige. E le dimensioni sono talvolta lillipuziane: si parte, come ho detto sopra, da mezz’ettaro appena. E da cantine piccine picciò. Per un totale complessivo - m’informa Beatrix, con teutonica precisione - di circa 1.720.000 bottiglie per anno. Quanto alla filosofia sottostante, ecco cosa dichiarano: «Curare la cultura del vino locale e promuovere l’immagine dello stesso». E poi anche: «Vinificare in autonomia le proprie uve e presentarsi al mercato in modo indipendente vuol dire distinguersi e sottolineare la tipicità dei vini sudtirolesi». Che son dichiarazioni semplici e complesse insieme. E c’è tanto valore in questa semplicità.
Chiudo le citazioni dicendo che presidente è Josephus Mayr, che è vignaiolo d’indiscusso valore. Aggiungo solo: se avete voglia di navigare un po’, il sito dell’associazione è questo: www.fws.it.
Ora, eccomi finalmente a raccontar de’ vini bevuti. Mi fermo a quindici, ma altri meriterebbero citazione. Eppoi, l’ho detto sopra, mica tutto ho testato (tastato, direi: da tastàr, veneto assaggiare). Una quindicina, dunque. Dieci bianchi e cinque rossi. Da bere con gioia, tutti quanti.

Bianchi

Alto Adige Eisacktaler Sylvaner Alte Reben 2005 Pacherhof
Che bel posto. Una delizia soggiornarci da Pacherhof. Ancora più deliziosi i bianchi che qui si producono. Il primo di cui m’innamorai fu il loro Kerner, e della nuova annata parlo più sotto. Ma soprattutto il Sylvaner 2005 l’ho trovato splendido, appagante. Naso elegante d’erbe fini e fieno. Bocca ampia, distesa e vibrante. Floreale. Lunghissima E perfino tannica nel finale. Grande.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

Alto Adige Eisacktaler Kerner 2005 Hoandlhof Manfred Nössing
Che gran vino che è sempre il Kerner di Manni Nössing. Anche l’annata 2005 non tradisce. In grande spolvero. Agrumi e fiori e pesca bianca ed erbe officinali emergono dal bicchiere a gratificare l’olfatto. La bocca corrisponde, netta. E c’è struttura, e alcol, eppure la freschezza n’attenua l’impatto e dona perfetto equilibrio. E il finale è lunghissimo e fascinoso. Un gioiello.
Tre faccini ridenti :-) :-) :-)

Alto Adige Weissburgunder Helios 2005 Ansitz Kränzel
In bottiglia solo da un mese e mezzo, ecco un Pinot Bianco della Val Venosta da tenere a mente. Di più, un vino di quelli che vale davvero la pena avere in cantina, a mio avviso. Fragranze floreali, ricordi di frutta esotica magari un pelettino acidula (l’alchechengi, direi) e anche di pesca bianca matura. Scattante. Teso. Una complessiva idea d’eleganza. E un a lunghezza intrigante.
Tre faccini gaudenti :-) :-) :-)

Alto Adige Gewürztraminer Mazzon 2005 Gottardi
Che Gottardi sia il sovrano del Pinot Nero altoatesino è – per me – cosa scontata, e più sotto dico della nuova annata. Ma non conoscevo il suo Gewürztraminer, e se il Pinot è il più borgognone fra quegli italici, be’, questo bianco sa d’Alsazia. Tutta spezia e marzapane e cedro candito e agrume e fiore giallo. Ha grande struttura e tensione nella beva. Insomma: un gioiellino.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

Alto Adige Eisacktaler Kerner 2005 Pacherhof
E già, l’ho detto di spora che avrei parlato anche del Kerner. Che non cito solo per affetto, essendo stato il primo amore. Ma perché invece è buono per davvero. Come nelle annate più felici. Offre le consuete fragranze di salvia e d’ortica e d’agrume, e d’erbe alpestri. La bocca è solida, tesa, piacevolissima. Agrumi da vendere. E ortica, ortica, ortica. Lunghissimo.
Due lieti faccini e quasi quasi tre :-) :-)

Alto Adige Eisacktaler Sylvaner 2005 Garlider
Il Veltliner 2004 di Garlider è uno dei bianchi che più ho amato fra quelli assaggiati (bevuti) nell’ultimo anno. Ma della nuova annata apprezzo soprattutto il Sylvaner, che ha personalità, eccome. La bocca è magnifica nelle sue intense memorie di frutto bianco e fieno e fiori. Ed ha una vena mandorlata piacevolissima, sottesa, e finale tannico e una strutturona che impressiona.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

Alto Adige Gewürztraminer Praesulis 2005 Gumphof
Tenetelo da mente: Gumphof di Markus Prackwiesr, a Fié allo Sciliar. Quattro ettari appena e sei vini e tutti ben fatti. Col Gewürztraminer e il Blauburgunder di piacevolissima, appagante beva. Il Traminer ha fragranze di marzapane e spezia fine. La bocca è scattante, un po’ dolce, magari, ma sorretta da una bella freschezza. Può sembrar semplice, ma va giù che è un piacere.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

Alto Adige Vinschgau Riesling Windbichel 2005 Unterortl
Due Riesling e tutt’e due di buon livello per Unterortl. Al buon Castel Juval 2005, di cui parlo più sotto, ho di poco preferito questo più complesso Windbichel 2004. Che è vino dalla memoria olfattiva di fieno e d’agrume ed ha eleganza e finezza di dettaglio. La bocca corrisponde, polposa e fresca insieme. Ed ha di già vena minerale sottesa al frutto.
Insomma, son due lieti faccini e quasi quasi anche tre :-) :-)

Blaterle 2005 Nusserhof
Vallo a sapere cos’è ‘sto Blaterale. Vitigno autoctono, mi dice Heinrich Mayr, patron di Nusserhof, due ettari e mezzo di vigna condotti con pratica biologica. Qualche ceppo su piede franco. Andate a cercarlo questo bianco, ché ha carattere antico e personalità. E vena minerale. Buono oggi, buonissimo, credo con anni d’affinamento.
Due lieti faccini che diventeranno tre, non dubito, coll’ulteriore sosta in vetro :-) :-)

Alto Adige Vinschgau Riesling Castel Juval 2005 Unterortl
Appena appena sotto il Windchibel 2004, questo fratellino più giovane è una altro Riesling di quelli da comprare a botta sicura. Elargisce ancora non del tutto espressa la sua vegetalità d’agrume verde e edi salvia e di fiore bianco. La bocca è scattante, citrina, freschissima. Piacevole e di bella lunghezza, da bere con appagamento e da attendere anche nell’evoluzione.
Due ridenti faccini:-) :-)

Rossi

Alto Adige Blauburgunder Mazzon 2005 Gottardi
Ho già detto qualche volta che per me Pinot Nero è Borgogna. Però l’eccezione - rara, sennò che eccezione sarebbe - ci può stare. Una delle poche, pochissime, è il Blauburgunder che Bruno Gottardi fa nella vigna di Mazzon. Fantastico anche nell’annata 2005. Succoso di piccolo frutto che pare ti esplodano in bocca. Appagante, bellissimo.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

Alto Adige Lagrein Riserva 2004 Erbhof Unterganzner
Ebbene sì, Josephus Mayr, leader dei Vignaioli dell’Alto Adige, doveva ben darlo il buon’esempio. E l’ha fatto con un Lagrein di cui terrei volentieri qualche boccia in cantinetta. Buono, dico, e pieno di personalità. Ed ha, questo rossa, bocca distesa e sul frutto, e sulla spezia e sul pepe. Ha bel tannino. E pensare che è ancora nella botte: figurarsi dopo il giusto riposo nel vetro!
Tre ridenti faccini :-) :-) :-)

Alto Adige Blauburgunder 2004 Gumphof
Che dire: se il buon giorno si vede dal mattino… Prima annata di Blauburgunder per Gumphof, e di già un vino piacevole assai. Fanno soprattutto bianchi, tutti buoni (di sopra ho detto del Gewürztraminer). Ma questo Pinot Nero è bello già dal colore, che è per davvero da Pinot Nero, scarico il giusto. Il naso ha fruttino e spezia. La bocca è agile, beverina, e c’è però bella lunghezza.
Due lieti faccini, quasi tre :-) :-)

Zweigelt Roan 2004 Bassererhof
Unico vino che ho assaggiato, da Basserhof, ch’ero ormai stanco. Mi son fermato soprattutto perché ero incuriosito dallo Zweigelt, ch’è vitigno considerato povero, da vinello easy, da bere con le caldarroste. E ho fatto bene a fermarmi, ché questo è invece vino di bella personalità. Tanta, tanta spezia pepata e buon tannino. Rustico e atipico e di carattere. Se vi capita, bevetelo.
Due faccini contenti :-) :-)

St. Magdalener Classico 2005 Fliederhof
Piccola azienda, piccolina davvero coi suo 2,6 ettari ad Untermagdalena, che si traduce in Santa Maddalena di Sotto. Famiglia contadina e vini schietti, senza fronzoli. Come questo St. Magdalener, che è franco e beverino, com’è giusto che sia, ma appaga con la succosità del fruttino di sottobosco (ah, il lampone!). Che persiste e rotola in bocca. Da bere a secchi, con soddisfazione.
Sorridono i due faccini :-) :-)

Ora, un post scriptum. Sulla birra. Già, birra, ché dopo il multidrinking del vino son stato amabilmente condotto a provar würstel bianco e speck e altri salumi tirolesi da Hopfen & Co. Ed è, quella che servon qui, la Bozner Bier, birra bianca di stampo, direi, belga (o francese), piacevole, piacevolissima. La fanno proprio lì, ché quest’è stube e birreria-birrificio insieme. Insomma: microfabbrica artigianale di birra nel pieno centro di Bolzano. Se capitate in città, non mancate la sosta. Magari n’avrete diversa emozione dalla mia, ché l’emozione, vivaddio, resta tra le poche cose che siano davvero personali e non replicabili. Ma provate, provate. Vale la pena. E se non andate, date un’occhiata al sito, che è questo qui: www.boznerbier.it. Prosit.

venerdì 25 agosto 2006

Merum dixit: Bardolino doc batte docg otto a due

Angelo Peretti
Caspita, se ha picchiato duro sul Superiore. È vero che è uno dei giornalisti del vino «più simpatici, irriverenti e indipendenti che io conosca», per citare la presentazione che ne ha fatto Elisabetta Tosi di recente sul suo blog Vino Pigro, ma col Bardolino docg Andreas März è stato severo. Severissimo. Tanto da metterlo in subordine al Bardolino doc, il fratellino. Che ha vino otto a due nella graduatoria dei migliori. Roba da professore con matita rossa e blu (il mio profe di lettere, al liceo, le usava entrambe: la rossa per gli errori veniali, l’altra per quelli capitali). Che poi, capiamoci, ha fatto il suo lavoro di critico: il professore, intendo, e anche Andreas. E forse – anzi, di sicuro, se l’ascolteranno – März ha anche insegnato qualcosa d’interessante ai produttori bardolinisti. Ha indicato una strada, una forma interpretativa.
Andreas März è un collega svizzero innamorato dell’Italia, al punto d’averci messo dimora: vive in Toscana, e ci fa vino e olio. Da lì guida – caporedattore - lo staff d’un periodico in lingua germanica: si chiama Merum. Testata autorevole, anche se un po’ spartana. E sul numero d’agosto-settembre s’è occupato, appunto, anche di Bardolino. Se volete leggere il commento, potete andare a fare una visita al sito Merum.info.
Insomma, che dice ‘sto März dei rossi bardolinisti? Comincia col porsi una domanda: «Di cosa deve sapere un buon Bardolino?» Scrive – e tento di tradurre dal tedesco, che non è cosa facile per la mia scarsa attitudine con la lingua teutone - che il Bardolino della zona classica dev’avere colorito chiaro, profumo floreale, bocca succosa e fruttata, mentre quell’altro che viene dalle parti di Custoza, Castelnuovo e Valeggio ha profumi più ampi e frutto più denso e note vegetali sempre abbastanza pronunciate e corpo più deciso e tannini piacevoli e un po’ di nota amarognola. E son d’accordo.
Aggiunge poi che quand’è giovane il Bardolino esibisce a volte vene d’idrocarburi, che possono essere piacevolissime se non vanno a coprire il frutto, e mi trovo d’accordo anche qui.
Ammette pure che non si può ritenere un errore quella sensazione di ridotto che talvolta emerge dal Bardolino giovane, perché – se n’è accorto per prova diretta – nei suoi primi momenti di vita questo rosso di riviera può avere un naso abbastanza strano, ostico, salvo poi aprirsi su un bouquet di fragranze di lì a qualche mese. Ed è annotazione – dico – giusta, giustissima, ché troppe volte ho sentito sparare giudizi a mio vedere assurdi su certe bottiglie di Bardolino, che avevano semplicemente bisogno d’attendere che il vino s’assestasse. La corvina bardolinista ha questo, fra i suoi caratteri: fa vini che, soprattutto quando hanno personalità, tendono ad andare in riduzione subito dopo essere passati in bottiglia. Occorre pazienza, ed esploderà il frutto e il fiore e il vegetale, se il vino è ben fatto. Bene, dunque, questa sottolineatura ch’ha fatto Andrea März. Il quale aggiunge che fra i due Bardolino, quello dell’area classica e quello della zona per così dire allargata, dà la preferenza al primo.
Ma. C’è un ma. E il ma è il Bardolino Superiore, assurto alla docg da pochi anni. Ed è vino che ad Andreas non va giù. «Riguardo alla versione docg del Bardolino – dice – i produttori non hanno ancora, ovviamente, le idee chiare. Non pare che l’eleganza sia sempre centrata nel Superiore». Tant’è che sono molte le bottiglie a non averlo impressionato. E per di più qualcuna gli sembrava avesse problemi. Dunque, solo due i Superiori raccomandati ai lettori.
Il drastico giudizio va interpretato - credo - anche alla luce della filosofia di Merum. Che ha ideato il parametro JLF nella valutazione d’un vino. E JLF sta per «Je leerer die Flasche, desto besser der Wein», ossia, in lingua italica, «Più è vuota la bottiglia, più è buono il vino». «In realtà – scrive Merum sul suo sito - è una provocazione ironica e divertente rispetto alla noiosa serietà con la quale alcuni pensano di doversi avvicinare all'argomento vino. A differenza di tanti colleghi, noi di Merum siamo convinti che un vino in primo luogo non debba essere per forza "importante", bensì prima di tutto "buono". Continuiamo ad essere dell'idea che il vino abbia a che fare con il bere, con il divertimento, con il piacere». Si deve bere, vivaddìo, questo vino. E per il Bardolino la regola è più vera che mai. Se lo ricordino, i Bardolino makers.
Che poi, capiamoci, sul Superiore mi tocca essere per un’altra volta ancora d’accordo. Ché sono troppi i Superiori del Bardolino a voler scopiazzare il Valpolicella. Ed hanno dunque fruttone concentrato e tanto tannino e qualche memoria d’appassimento (con relative puzzette), e vegetalità astringente. Mancano, soprattutto, di freschezza, di bevibilità. Difettano insomma d’eleganza, proprio come dice März. Un vino da mettere a punto: la strada è ancora tutta da inventare. Anche se nei giudizi sono un po’ meno drastico dello svizzero baffuto di Merum, ché secondo me almeno qualcun altro - altri due o tre - merita attenzione fra i Bardolino docg.
E comunque devo annotare che il Superiore va: non c’è azienda che abbia invenduto, pur trattandosi di una parte marginale della produzione totale. Insomma: la gente lo compra, e dunque la via può essere percorsa. Semmai, non vorrei che questo successo di vendita impedisse il miglioramento qualitativo: se il vino lo vendo bene, che motivo ho di farlo meglio? Confido, dunque, nell’intelligenza dei vignaioli bardolinisti. E magari in qualche sculacciata bruciante, come quelle d’Andreas.
Ma torno adesso a Merum e alle sue recensioni. Quali sono – vi chiederete – i vini che han superato il test? Be’, a questo punto dovrei rinviarvi alla rivista, che però in edicola non trovate. E le schede non ci sono neppure sul sito. Dunque, provvedo a una rapida sintesi.
I Bardolino – basic e Superiore – assaggiati sono stati 52, quelli valutati 45, quelli scartati perché palesemente difettosi 7 (la differenza, ovvio).
Tra i vini valutati – i 45 quindi, in questo caso – Merum distingue varie categorie di parere. Un vino semplicemente citato, senza alcuna stellina, non è piaciuta. Quello fra due e tre stelle è di qualità, ma non eccellente al momento della degustazione. A tre stelle il vino è molto buono ed è un ottimo rappresentante della sua denominazione. Quattro stelle: «vino entusiasmante, tra i migliori della sua appellazione». Cinque stelle è roba da sballo. C’è poi il simboletto JLF, che indica i vini che bevi fino a vuotarne la bottiglia: se n’è parlato sopra.
Citerò solo quelli dalle tre stelle in su. In testa al gruppetto, ex aequo, il Bardolino di Matilde Poggi, azienda agricola Le Fraghe, e quello dei Guerrieri Rizzardi, e qui devo dire che Giuseppe sta davvero facendo un bel lavoro in vigna e in cantina. Poi, il 2005 de Le Tende di Colà. A seguire altri sette, con due soli docg, quelli di Cavalchina e Corte Gardoni. Insomma: Bardolino doc batte Superiore docg otto a due. E i primi tre gradini del podio son tutti per i doc. Mica scherzi.
A proposito: sono quattro i vini col marchietto JLF, quelli che vanno giù che è un piacere. Sono: Guerrieri Rizzardi, Le Fraghe, Marchesini, Raval.
Ecco qui – dunque - i Bardolino top secondo Andrea März e Merum:
Bardolino Classico doc 2005 Guerrieri Rizzardi ***-**** JLF
Bardolino doc 2005 Le Fraghe ***-**** JLF
Bardolino Classico doc 205 Le Tende ***-****
Bardolino doc 2005 Cavalchina ***
Bardolino Superiore docg Santa Lucia 2004 Cavalchina ***
Bardolino doc Le Fontane 2005 Corte Gardoni ***
Bardolino Superiore docg 2004 Corte Gardoni ***
Bardolino Classico doc Cà Vegar 2005 Cantina Sociale Veronese del Garda ***
Bardolino Classico doc 2005 Marcello Marchesini *** JLF
Bardolino Classico doc 2005 Raval *** JLF.
Il resto, lo leggete sulla rivista, se la trovate. Ammesso che sappiate il tedesco. Ed è comunque probabile che lo conosciate meglio di me.

venerdì 18 agosto 2006

Le verità del Taso

Angelo Peretti
Taso, con la esse sonora, come nella parola rosa. È dialetto veronese. Indicativo presente, prima persona singolare del verbo tàser: leggasi tacere. «En bèl tàser no l’è mai scrit», un bel tacere non fu mai scritto, ammonisce il proverbio. Che non vale, of course, per i giornalisti, che sono chiacchieroni.
Quindi tàso uguale taccio. Ma anche uguale vino. Perché c’è un Valpolicella Superiore che porta questo nome. E che nella versione 2003 – tutt’altra cosa rispetto alla sua storia precedente – mi piace, mi piace, mi piace.
Ne ho già scritto ai primi dell’anno recensendolo en primeur, appena preso dalla vasca. Ribevendolo ora confermo tutto quanto. Confermo, cioè, d’avervi ritrovato quegl’intriganti profumi di fiori macerati e di spezia minuta e quasi di tabacco da pipa e di rabarbaro e china, eppure anche di frutto nettissimo, che trovai la prima volta. E poi la bocca, in continuità quasi perfetta coll’olfatto, «succosa di frutto e fresca e appagante e lunga», come scrissi allora, e meglio forse non posso dire, perché senti che è vino che ha potenza, certo, ma è anche bevibilissimo e va giù che è un piacere e gioca sull’eleganza e ti tiene sulla corda con la sua tensione, invidiabile. Insomma, bel vino. Certo mica ruffiano, mica fatto per piacere a tutt’i costi, ma anzi pregno di personalità e forse capace di dividere il pubblico. Che è poi la caratteristica dei vini davvero importanti, quelli che hanno qualcosa da raccontare, ma lo fanno col loro linguaggio, che non è per forza sulla lunghezza d’onda di tutt’i bevitori. E bisogna dunque mettersi nella condizione giusta per ascoltarne il racconto.
Lo fa, il Taso Valpolicella Classico Superiore, Cecilia Trucchi. Nasce quasi sul cocuzzolo della collinetta di Castelrotto, che pare dimenticata dagli sconvolgimenti geologici di chissà che epoca nella Valpolicella più bassa, nella parte a meridione - intendo - del comune di San Pietro in Cariano. Cocuzzolo di tufo con sopra la chiesa e poco prima della chiesa il brólo, il terreno cintato, che chiude il vigneto di Villa Bellini, la piccola tenuta di Cecilia, o meglio, di Villabellini tutt’attaccato, come scrive lei sull’etichette.
Cecilia è produttrice bio, anche se non lo sbandiera ai quattro venti. Fa agricoltura biologica perché ritiene che questa sia la scelta giusta, punto e basta. E ho già scritto, e lo ripeto, che i suoi vini li ho sì trovati interessanti in passato, ma ch’erano secondo me un po’ ostici e rustici e anzi ho usato un altro e più appropriato termine: scorbutici. Non mi facevano, insomma, impazzire e a volte, confesso, neppure avrei ristappato. Se non l’Amarone 2001, nel quale trovai qualcosa di nuovo, un’eleganza quasi decadente che mai prima avevo rintracciato, e che m’intrigava parecchio.
Ai primi dell’anno, Cecilia mi si presenta con un vino nuovo. O meglio, con un vino dal solito nome, ché Taso si chiamava già il suo Superiore, ma di concezione completamente nuova. E mi dice che quello è l’unico vino fatto nell’annata 2003: niente Valpolicella base, niente, soprattutto, Amarone. Al che, detto da un produttore valpolicellese in un periodo in cui l’Amarone tira commercialmente forse come non mai, ti sembra quasi un’eresia, se non, peggio, un segno di squilibrio. Epperò pensi poi che è il destino e la vocazione dell’artista d’essere estremo. E dunque proviamolo ‘sto Taso, mi dissi, e fu una folgorazione, che ora s’è rinnovata riprovandolo tre volte in un mese in diversi contesti – anche alla cieca – e sempre con mio convintissimo applauso.
Ho domandato a Cecilia di dirmi cosa fosse cambiato, e lei m’ha detto che la verità del Taso l’avrei trovata sul suo sito internet. Dunque, eccomi a cliccare www.villabellini.com. Ma v’avviso, qualora anche voi intediate farlo: se non avete l’adsl - come io non ho, purtroppo, avendo la fortuna e la maledizione d’abitare sul Garda, area per niente servita con adeguatezza da mamma Telecom – è un’impresa, ché il sito è bello, graficamente, assai, ma con quell’animazioni che ha dentro si carica in tempi biblici. E poi magari finite pure che v’incavolate, perché la verità del Taso narrata da Cecilia è quanto mai criptica, e ci vuole un decoder intellettualoide per disvelarla. E insomma, per farla breve, ed evitarvi magari la navigazione, ve la riporto qui di seguito.
Su villabellini.com si legge dunque così: «Cecilia e le verità del Taso. Cercando il vino ho trovato le mie verità. Saper guardare, ascoltare, sentire e soprattutto imparare i tempi, conoscere le piante, le stagioni, nel rispetto di un luogo dove la ‘tecnica del vino’ è anche ‘tecnica di vita’. Nell’etichetta, quella del Taso, non si può raccontare tutto questo. Posso solo colorare di emozioni questi tre ettari di mondo, esposti a sudest, terrazzati a marogne, di questo vigneto che affonda le sue radici nel tufo, in questo paesaggio. Solo il rispettoso silenzio del Taso può parlare di questo luogo, perché ci sono verità nelle radici, nel tempo, in noi, che non stanno nelle etichette. Però è bene saperle, o almeno io ci tengo a dirvele».
Ordunque, il testo è bello, intimo, poetico, ed esprime in fondo quello che i francesi chiamano terroir, ch’è un insieme di terra e di vigna e di suolo e d’umanità, inscindibile e unico e irripetibile. Però dice e non dice.
Non dice, soprattutto, perché questo sia l’unico vino, ora, dell’azienda e come lo si faccia. Al che ho richiamato Cecilia. E lei m’ha raccontato che non è detto che sia per sempre l’unico vino, e che sarà invece l’annata a decidere che cosa dovrà nascere dalla vigna. Il 2003 diceva che si doveva fare un vino solo e così è stato. Le uve sono state raccolte in più fasi. Alcune hanno fatto appassimento, altre no. E sono state lavorate tutte insieme, traendone complessità, ottenendone quel fitto chiacchiericcio d’aromi e fragranze e nuance che t’invade dal bicchiere versato. Di più è inutile dire: quel che accade dopo che l’uva è approdata alla cantina non m’ha mai interessato molto, la tecnica è tecnica e basta. Voglio solo cercar di capire se il vino racconta se stesso e la sua uva madre e la sua terra e la mente di chi l’ha generato, se narra insomma il proprio terroir. E il Taso lo fa.
Ecco, credo che questa sia la verità del Taso. Forse l’unica da capire. E v’invito, se vi capita, ad ascoltarla, appunto, dal bicchiere. Sapendo che costa un po’ di più d’un normale Valpolicella Superiore, ma non di più d’un Amarone standard. Ma che in fondo è insieme e Valpolicella e Amarone e Recioto: è rosso di Castelrotto, di quel dosso abbandonato in mezz’alla campagna valpolicellese. E che esprime una maniera tutta nuova e insieme antica di mettere in luce le corvine valpolicelliste e il tufo e le arie di quella terra. E che mi piace, mi piace davvero.

mercoledì 9 agosto 2006

Amarone dei nuovi mondi: dall’Australia (e dal Sudafrica) con appassimento

Angelo Peretti
Giuro, è l’ultima puntata (ma scrivo, ed è impresa da contorsionista, con la dita incrociate: mai fidarsi dei giornalisti, mai...). Però non posso mica chiudere con la storia degli «altri» Amaroni, quelli che la Valpolicella non l’hanno mai vista, senza fare un salto in Australia. E in Sudafrica. Ma, sia chiaro, qui si tratta di vino-vino, mica di kit fai da te, come quelli di cui ho detto nelle puntate precedenti.
Ordunque, si comincia.
Barossa Valley, Australia meridionale. «Barossa è il distretto australiano più grande per il vino di qualità» scrive Hugh Johnson. E dalla zona vengono alcuni Shiraz da sballo. Dice niente il nome di Penfolds? Il suo Grange lo assembla qui. Mica scherzi, ragazzi.
Bene, in Barossa Valley ci si fa anche l’Amarone. In etichetta c’è scritto proprio così: Amarone.
Frank Mitolo, a Virginia, McLaren Vale, in Barossa Valley, fa il Mitolo Serpico Cabernet Amarone. Greg Hobbs produce l’Hobbs Amarone. Io non li ho mai assaggiato. E dico purtroppo. Perché a leggere cosa ne scrive qualche collega anglosassone, be’, potrebbe valere la pena.
Se avete in mente di farvi un’idea della realtà della New Barossa, degli emergenti della zona, andate a dare un’occhiata sul web a The Wine Anorak (l’indirizzo è www.wineanorak.com: è cliccabile, se volete andarci da qui). A guidare questo bel winemagazine è Jamie Goode, giornalista britannico che ha messo la firma su articoli pubblicati da alcune delle più prestigiose testate di settore. Bene, sul sito ci potete leggere un reportage, appunto, sulla New Barossa, realizzato fra settembre del 2004 e ottobre del 2005. C’è il profilo di alcune realtà produttive che si stanno affermando. Con la recensione dei vini.
All’Amarone made in Australia di Frank Mitolo, annata 2003, vengono tributati 92 centesimi, che è un votone. Il nome del vino, Serpico, viene – spiega l’articolo, minuzioso – da quello del famoso poliziotto. «Credo che possano mettersi nei pasticci – dice The Wine Anorak – se gli italiani vedono il nome Amarone sulle etichette». E non ha mica tutti i torti. Il vino viene realizzato facendo appassire l’uva dalle cinque alle sette settimane prima della fermentazione sulle bucce, che dura tre settimane. Com’è? A leggere la recensione, un bel vinone, denso e profondo, con tanto frutto nero dolce. Speziato, grasso. Very excellent, il giudizio.
Greg Hobbs, adesso. La recensione, qui, presenta due diverse annate del suo Amarone: 2002 e 2003. Alla prima viene assegnato un punteggio di 93 centesimi, all’altra un ranking fra i 92 e i 94 centesimi: ragazzi, che botte! Anche qui frutto. Frutto e complessità, e finale dolce. «Fantastic» è la valutazione. Le uve sono fatte appassire su qualcosa di molto simile alle arèle intelaiate che s’usavano una volta in Valpolicella. E lo stesso metodo in azienda viene impiegato per fare dei vini dolci bianchi.
Torzi Matthews non chiama Amarone il suo vino fatto sulle arèle (c’è la foto: sembra proprio di essere in una casa contadina del Veronese), ma è il web magazine che parla apertamente di Amarone style. Perché il 50-60 per cento delle uve vengono fatte appassire in maniera che in Valpolicella si direbbe tradizionale, e poi si vinificano insieme alle uve fresche da raccolta tardiva: una specie di Ripasso di quelli in voga oggi.
Do you understand? Qui hanno imparato. E mica solo qui.
Asara Wine Estate, Stellenbosch, Sudafrica. L’azienda è di quelle note. «Vecchia tenuta, con recente cambio di nome (era Verdun). I rossi hanno subito una trasformazione impressionante, con rossi elegantemente boisé»: è Hugh Johnson a scriverlo. Il 13 dicembre dell’anno scorso, Asara ha diffuso un comunicato in cui annunciava la nascita un un Amarone-style wine. «Ispirandosi all’Amarone italiano – c’è scritto – il winemaker di Asara, Jan van Rooyen, ha realizzato una ricerca indirizzata a crea un vino che segua la tradizione dei produttori della regione nordorientale del Veneto. Il risultato è l’Asara Avalon, che viene ottenuto da uve che sono state lasciate ad appassire in vigna, ottenendo una concentrazione naturale di aromi e colori. Mentre un tipico Amarone italiano è fatto con un blend di Corvina Veronese, Rondinella e Molinara, il vitigno-madre scelto da Asara è il Pinotage, aggiungendo così una dimensione unicamente sudafricana a questo vino infuso di classe e stile italiano».
Ullallà: cari amaronisti & valpolicellisti born in Verona, state facendo scuola, ed è il lato buono della medaglia. Che vuol dire che sull’altro lato c’è scritto: vi copiano, e bene, oltretutto.
Come ho già detto, c’è un comunque un che di positivo in questa voga dell’Amarone style. Ed è che il vino valpolicellese è diventato una star, è riconosciuto come una griffe del made in Italy. Si imita quel che ha successo. Ma non è che la situazione rischi di sfuggire un po’ di mano?