domenica 29 gennaio 2006

L’amore, il formaggio: questione di coinvolgimento totale

Angelo Peretti
Confesso: mi piacciono i magazine femminili. Alcuni sono davvero ben fatti. Leggeri, rilassanti. Se me ne capitano per le mani, li sfoglio volentieri. «Vera» è un mensile: lo trovo intrigante, molto. Le rubriche son quelle di tutti: un po’ di fashion, un tocco di glamour, un briciolo di beauty (avete notato? ormai si parla solo inglese se si vuol esser trendy, e santiddìo è inglese anche questo). Anche qualche rubrica sulla vita di coppia, sul sesso. Ebbene: stavolta, cari i miei dodici lettori, quest’è l’argomento della mia stanza, il sesso. Ché su «Vera» di febbraio c’è un bel pezzo sulla seduzione. Lo firma Chiara Novelli. Che ha raccolto il consiglio d’una psicologa & sessuologa, Laura Rivolta. La quale dice: «È molto intrigante anche fare l’amore usando tutti i cinque sensi» (ma guarda, torna lo stesso aggettivo che ho detto della rivista, «intrigante»).
Si chiederanno ora, perplessi, i miei dodici lettori: ma InternetGourmet non doveva essere un sito che parla di vini e di gastronomia? Rispondo: certo. Ma far l’amore è come degustare: una continua ricerca del piacere. Forse ricerca vana, ma intanto ci si prova. Che poi il piacere, quand’arriva, in quell’attimo, è il sale della vita, e guarda caso la similitudine è alimentare. Ed è ricerca, questa, che non ammette coinvolgimento parziale e limitato. È totale. E difficilmente accetta l’egoismo: nell’amore il piacere tuo dev’essere quello anche del partner. Nella tavola il piacere s’ha da condividere coi commensali, con chi dividi – cioè - il pane & il vino. Oddìo, qui divento filosofo: forse sto invecchiando.

Ritorno all’articolo di «Vera». Spiega dunque la sessuologa che nel momento dell’amore si possono – si debbono, dico io - coinvolgere i sensi, tutt’e cinque: «Con un lungo bacio “alla francese” si attivano gusto e olfatto. Mentre una parolina sussurrata all’orecchio, con la voce modulata sui toni bassi, ha un effetto bomba sull’udito del partner». La vista? «Si tratta di sfruttarla al massimo: non solo farsi guardare come una bella statuina, ma anche osservare il corpo del partner, mentre lo accarezzi». Il tatto? «Le mani devono creare brivido e sorpresa».

Ohibò, si dirà: ma quest’è trattazione hard. Macché. È vita. I sensi sono un tesoro: facciamolo rendere, il nostro patrimonio. Nel letto come in tavola. Ma qui vengo alla mission del gastronomo. Ché tante volte m’è successo di veder gente che pensa che mangiare sia compito della bocca soltanto. Qualcuno aggiungendo l’uso dell’olfatto e magari la vista. Ebbene: si vive coi cinque sensi, anche alla mensa. O coi sensi che natura ci ha dato e vita ci ha permesso di mantenere.

Classici casi di degustazioni a tutt’e cinque i sensi son quelli dei formaggi e dei salumi. Tratterò il primo. L’altro ha similitudini.

Prendiamo dunque il cacio. L’occhio osserva colore e trama. La tonalità del bianco ci dice la freschezza o l’età che avanza (negli erborinati, il verde narra la ricchezza, la complessità). L’occhiatura – quasi ruga sul volto – spiega la vita ch’è passata sin lì, le gioie, le tribolazioni. Come quando cerchi premonizione negli occhi, nella pelle, nel gesto, nella postura dell’amata. Nel tentativo di capirne l’umore, le voglie, la distesa memoria degli attimi felici, i dolori che l’hanno segnato e non la lasciano. Segnali che potranno indirizzarti, poi, nell’usar gli altri sensi.

Il tatto. Il formaggio si prende con le mani. Niente coltello, niente forchetta. Dita, polpastrelli, palmi. Se ne prova l’elasticità giovanile, la fragilità o la durezza di carattere dell’età. Indicatori importanti per preparare il palato alla dolcezza o al sale, al nervoso umor giovanile o alla piccantezza d’una vita già vissuta. Ci son problemi se il giovane formaggio si presenta col carattere del vecchio o quell’affinato con l’elastica plasticità del giovine: nell’uno e nell’altro caso qualcosa non va. Anche la pelle dell’amato, sfiorata, carezzata, racconta. Leggerne i segni non è facile per nulla. Ma ci si prova. E anche questo aiuta gli altri sensi.

L’olfatto. Lo sottovalutiamo, eppure è il principe dei sensi. Che vita grama facciamo quando ci prende il raffreddore e se ne va l’olfatto. Ci pare che il mondo sia lontano, assente, vuoto. S’assaggia con l’olfatto, prima, durante e dopo. E ne trarremo uno, dieci, cento avvertimenti.

Il gusto. Be’, il gusto è l’atto. A volte frettoloso e svelto, a volte lento e pensato e coinvolto. Non dirò oltre: il gusto è il senso più allenato, ma anche il meno avvincente. Alla fin fine, nella degustazione, percepisce solo il dolce, in apertura, o l’acido o il salato, nel mezzo, o l’amaro, nel fondo (ed è come la vita, dunque). Si dice ci sia anche un quinto gusto: l’umami, quel mezzo fra l’acidulo e il salato ch’è tipico dei mangiari orientali. Basta. Tutto il resto è olfatto, ripreso dall’interno.

L’udito. C’è chi sorride ogni volta che dico che si mangia anche coll’udito. Ecco: è un errore. È rinunciare a qualche cosa di noi. Mai abdicare dall’essere se stessi. Ascoltiamolo, il cibo (ascoltiamo altro che non sia la parola, nell’amore). Se mastichiamo, tendiamo l’udito verso il suono che dal cibo proviene. Anche quello ci racconta del valore di quanto stiamo gustando. Un suono regolare, piacevole, è indice di qualità della lavorazione e dell’affinamento. Plastiche mutazioni di suono avvertono d’insulse pratiche industriali, di finzione. Non dirò oltre dei suoni nell’amore: son forse la parte più bella e personale ed intima.

Cinque i sensi. Alleniamoli (alleniamoci). Cercandone il piacere. In fondo, è la nostra olimpiade. È la vita. Che a volte è dolce, a volte amara, a volte acida o salata. Ma è vita, questo è il bello.

sabato 28 gennaio 2006

Io voto i becàri (e magari l’òsto)

Angelo Peretti
Inutile che si dian tanto daffare e che s’insultino a ogn’ora quei due in tv, e sapete di chi parlo. Tanto io per chi voto il 9 aprile l’ho già deciso. Per Luigi Bortolazzi e Costanzo Compri. E pazienza se non saranno su nessuna lista. Li voto comunque, magari solo col pensiero, perché loro sì che sono concreti. Io voto per loro.

Chi siano il Bortolazzi e il Compri forse i miei dodici lettori non ce l’hanno presente. Ahimé, loro in tv ci son poco: qualche comparsata ogni tanto sulle emittenti locali. Son l’uno il presidente e l’altro il vice dell’associazione dei macellai veronesi. Insomma: due beccari. Il primo ha voce gutturale, stazza esuberante, lessico errabondo e bottega in Verona, via Marin Faliero (Faliero, Faliero, chi era costui? era doge veneziano). L’altro è più minuto, baffetti curati, poche parole, negozio a Buttapietra (Butapiéra, in dialetto, pianura veronese). Non so della loro posizione familiare: se abbiano moglie, figli, intendo. Fosse così, negli ultimi anni avranno probabilmente molto lasciato a desiderare in termini di doveri di padri e mariti. Impegnati com’erano, i due, a girare in lungo e in largo nella provincia scaligera - e anche fuori - a dimostrare che mangiar carne si può. In fondo, come gli altri due, quelli che si prendono a male parole ogni ora per il potere politico. Solo che questi due l’han fatto per mestiere (il loro), sì, ma anche per piacere (il nostro). Impegnandosi come forsennati a convincer la gente a tornare a metterla in tavola, ‘sta benedetta carne di vacca. Senza rischio di beccarsi morbi da mucca pazza. Senza spendere follie, ché tagli economici n’esistono tanti. Senza dubitar dell’origine: c’è tanta, tanta carne autoctona. Cavandone invece piacere, che poi è sentimento, guarda caso, carnale. Il tutto con la concretezza loro: mica parole, fatti. Cucinando e facendo assaggiare chissà quanti quintali di carne in piazze, vicoli, taverne, club del dopolavoro. Dovunque insomma fosse concessa udienza al verbo della ciccia.

Li ho rivisti, i due (i macellai, non gli altri due, che ormai son incubi mediatici), qualche sera fa a Santa Lucia, borgo di bassa collina del comune di Valeggio sul Mincio. Al ristorante Belvedere. Hanno invitato a cena – anfitrione l’amico Morello Pecchioli, responsabile della pagina del gusto de «L’Arena» - quattro tavolate. Una di logorroici politici, che quando parlano – perché parlano, oh se parlano – ci vorrebbe il timer come nei tornei di scacchi. Un’altra di giornalisti, razza com’è noto famelica. La terza d’amanti della lirica, cantanti e cantantesse, tutti o quasi di buona stazza., ché la carne non la rifuggono di certo. L’ultima di macellai, of course. Motivo del convito: festeggiare il ritorno sulla scena della bistecca con l’osso. Della fiorentina, se proprio la volete chiamar così. Dopo quattr’anni e nove mesi di bando per le fobie da morbo pazzerello. Paura in larga parte immotivata, com’è oggi per il pollo. Ma tale da mettere in ginocchio allevatori e beccai. Senza però che mai se ne sia trovata traccia vera in Italia, della bse, il morbo della vacca impazzita. Dunque, alla buon’ora, la bistecca non è più fuorilegge. Una resurrezione. Bortolazzi, Compri e i colleghi loro han voluto così festeggiare questa pagana pasqua. Con ragione.

Com’era dunque la bisteccona valeggiana? Buona, buonissima: mi credano e m’invidino i cari miei dodici lettori. Ma soprattutto, con un guizzo d’orgoglio patrio, vo’ a scrivere – e sottolineo – ch’era bistecca nostrana, veronese. Ché Verona è leader nella produzione di carne di qualità. Muovendo, con l’indotto, qualcosa – ha detto Claudio Valente, politico sì, ma di quelli che stanno sulla terra a coltivar campi e allevar bestie e sporcarsi insomma le mani - come mille miliardi delle vecchie lire (c’è l’euro, lo so, ma – l’ammetta il lettore - mica ci ragioniamo con la moneta unica: i conti li facciamo ancora convertendo in liretta).

Bravo il Bortolazzi (Luigi), bravo il Compri (Costanzo), bravi i sodali beccari. Io voto per loro. E se proprio non li trovo in lista (state certi: in lista non li trovo), vorrà dire che renderò omaggio all’amor loro con un piatto di ciccia nostrana.

A proposito di cena e di Santa Lucia e di ristorante Belvedere. Be’, lì, al Belvedere, regno di padron Romano Bressanelli, ci avevo fatto quella che ricordo come la cena più gratificante del 2005. E mi perdonino i tant’altri amici chef ed osti da cui ho passato comunque gran belle sere coi piedi sott’il tavolo. Ma il desinare del 2 di dicembre dell’anno passato è nella mia memoria gaudente. E fu mangiar di territorio, di tradizione. Spendendo poco e bene. N’ho scritto, s’avrete voglia di leggere il pezzo, sul numero 4 di Buffet, il periodico che ha per garante Edoardo Raspelli. Antipasto di succulenti salumi d’artigiana, locale produzione. Tortellini al burro soavissimi. Ghiotti bigoli col sugo di lepre: se non avessi ordinato di già il secondo, mi sarei concesso il bis. L’immancabile pollo ai ferri, vanto del ristorante. Filetto di cavallo di burrosa consistenza. Contorni già compresi, cott’e crudi, abbondanti, invitanti (patate fritte autentiche). Soffice tiramisù in bicchiere: da replica. Panna cotta al caffè da standing ovation. Il conto – un antipasto, un primo, un second’e un dolce, verdure e mezza boccia di vino - fa meno di 35 euro a testa. Il vino, sceglietelo del posto: ce n’è di buono. Ce n’è parecchio perfino – pare incredibile –in mezza bottiglia. Che volete di più?

Ma qui è meglio che qui chiuda, sennò mi tocca mettere anche quest’altro nome, il Bressanelli parón del Belvedere, òsto a Valéso, nell’elenco del voto d’aprile. E pazienza se neanche lui in lista ci sarà.

sabato 21 gennaio 2006

New Bardolino style: rossi di mano femmina

Angelo Peretti
Dicevo, cari i miei dodici lettori, che potremmo essere alla svolta per il Bardolino. Quando lo dicevo? Ohibò: nel pezzo prima di questo, quando parlavo della finezza bordolese. Vi sarete mica distratti?
Comunque lo riaffermo: s’è forse alla vigilia di qualcosa di nuovo, in riva al Garda orientale. I tempi son propizi. La gente che beve vino – non che degusta, che è un’altra cosa – cerca bottiglie che arrivino in fondo con piacevolezza e non costringano al mutuo. Che raccontino di frutto e territorio senza strafare, eppure sfoggiando classe e fattura quasi sartoriale. Un Bardolino, per esempio, se ‘sto rosso di riva gardense non si foss’imbastardito in troppi anni di successo turistico. Perché ci furon tempi che il Bardolino era vino di lignaggio. E dunque per dire del futuro - e ci arrivo - devo cominciare dal passato. Raccontando di quand’era un’altra cosa. Per cercar di capire cosa dovrà tornare a essere. E sta già diventando, in qualche caso. E in un paio soprattutto di fascinosi casi di rosso al femminile di cui più sotto racconto. Ma qualche riga ancora serve.
Allora, com’era ‘sto Bardolino del passato? Diverso. C’era chi lo spacciava per «roba francese». Dice proprio così il Perez, veronese, ai primi del Novecento: «Li Svizzeri li spacciarono nei loro hotels per roba francese». Constatazione confermata dal Sormani Moretti: «Negli alberghi della Svizzera, dopo gli ultimi regimi doganali pei vini francesi, molti ettolitri di vino Bardolino e di Garda, sonvi accolti bene sotto il nome lionese di Beaujolais». È vero: era frode alimentare. Ma se questa qui foss’anche la nostra chiave di volta? La similitudine transalpina, intendo, mica la frode.
Se questa fosse la chiave, dovremmo capire che cosa li faceva così Beaujolais-style. Ora, sentendo questo nome i miei dodici lettori non si confondano, e so che non lo fanno. Ma il problema è che Beaujolais è troppo nota per il suo noveau. Meno invece, molto meno, almeno qui da noi, per i bei rossi a base d’uve di gamay. Rossi buoni subito, spettacolari col medio affinamento. Rossi che poggiano sul frutto appagante e sulla fresca piacevolezza di beva e anche su una cert’eleganza, che si fa di nobile velluto passato il primo tempo di bottiglia. Del resto, Beaujolais è terra borgognona. Lì si coltiva gamay, altrove pinot noir. Ma ci son certi gamay che del pinot han l’armonia e la finezza: giuro.
Eccoci qui, dunque: armonia, finezza. La chiave di volta d’ogni vino che si faccia bere. E di vini che si faccian bere senz’impegnare alla follia il palato ce n’è soprattutto in due zone. Il bordolese, di cui ho detto nell’altr’articolo. E la Borgogna. Anche quella del Beaujolais, mica per forza del pinot. Certo, ci son fuoriclasse infiniti, e prezzi allucinanti, nell’una e nell’altra terra francese. Però c’è anche una marea di gran bel vino – accessibile ai più – che si fa bere con meno sussiego, eppure gratifica il naso e il palato e mette in ordine i pensieri e dà piacere. E dura in cantina ben più dei mesi – pochi – dei vinelli d’altre regioni (e Bardolino – sin’oggi - fra queste).
Diranno ora i dodici che leggono: ma ci sono ‘ste interpretazioni del Bardolino che possano reggere il passo? Domanda retorica: ho già detto di sì.
Ne cito due, femminine entrambe. Nel senso che son vini fatti e prim’ancora pensati e voluti da donne. Entrambi vini che chiedono tempo per maturare. Buoni a un anno dalla vendemmia. Buonissimi al second’anno. Già: Bardolino da bere maturo. E che pure rimane fragrante di frutto, e piacevolissimo di beva. Che ha concentrazione di fragola e lampone e ribes e ciliegia, e cenni d’erba officinale e spezia minuta e pur senz’ottundere palato e testa. Senza fumi d’alcol e bevuta masticatoria, come ci costringono oggi altre italiche zone. Senz’essere per forza – anzi, rifuggendone il disciplinare – Bardolino Superiore. L’avete inteso, ora, che c’è la svolta in riviera?
L’uno dei new Bardolino lo fa Matilde Poggi alle Fraghe, Cavaion Veronese, quasi dietro al casello dell’Autobrennero. Sullo spartiacque fremente di vento fra il Garda e la Valdadige. Giancarlo Zanolli, oste tra i più bravi del Baldo & del Garda (quello del Kus, a San Zeno di Montagna) in tarda primavera era interdetto. Il Bardolino 2004 delle Fraghe non gli andava a genio. Tropp’erbaceo, troppo chiuso. Mica l’esplosione di fragola del 2003. Gli dissi d’aver pazienza, ché si sarebbe aperto col tempo. Vini figli d’annate diverse, diversissime. Dunque differenti avevano da essere le storie. «Compra e metti via», l’assicurai, ché sennò quand’il vino fosse stato pronto da bere non n’avrebbe trovato più. Attorno a Natale me n’ha stappato, entusiasta, una boccia: «Pare pinot nero» m’ha osservato. Certo, l’ego mio n’ha avuta sazietà. E già: par vino di Borgogna. Eppure è Bardolino di collina. Da rese basse, da selezioni accurate, da vinificazioni attente. Da cura della vigna, da rispetto del terroir. Capace d’interpretare la stagione. Così ha da essere un buon vino. E un buon vino lo si deve aspettare: che s’apra con calma, che decida lui quando farsi bere. Adesso è un gioiellino. Che costa quattro soldi, com’è tipico della produzione bardolinista. Succoso di frutto, appagante, gratificante. Fresco d’erbe alpestri su una tessitura tannica minuta.
Altra donna, altra terra, altro Bardolino, altro gioiellino. Giovanna Tantini, Oliosi di Castelnuovo del Garda, morene meridionali del lago di Garda. Colline placide. Modesti dossi che si staccano dalla piana. Estremi lembi di ghiaie e limi e sassi tondi depositati dai ghiacci nei tempi dei tempi. Lei è vignajuola nuova. È pochi anni – quattro, mi pare, appena – che fa vino. Eppure ha idee chiare. Sfidanti mète. La sfida bardolinista l’ha voluta, cercata. Cocciuta. Sapendo ch’era difficile. Da taluni ritenuta impossibile. Ecco, se Matilde Poggi è il lato borgognone del new Bardolino, Giovanna Tantini ne è l’interprete bordolese. E mica per i vitigni, ché anche qui a dominare è la corvina. Piuttosto perché, come in terre di Bordeaux, i suoi son vini progettati per aprirsi tardi. Per finir tardi addirittura in bottiglia. Per uscire tardivamente sul mercato. Va in scena più d’un anno dopo la vendemmia, questo Bardolino. E ancora il vino è giovane e ha bisogno di tempo per concedersi. Ha mille ritrosie. Ma ha carattere vivo. Ora c’è in giro ancora il 2003, ed è da bere e ribere. Con frutto sodo e saziante. Polpa tanta, eppure la pienezza non sminuisce l’agilità scattante. Ché è rosso anche fresco di quella freschezza salina che danno i ciottoli di quelle basse colline. Personalità e bevibilità: la quadratura del cerchio.
Eccoli qui i new Bardolino. Entrambi cogli elogi dei vini che si fanno bere: fini, armonici, eleganti.
Son due new Bardolino, quelli da mano femmina. Altri ce n'è, ma questa è un’altra storia da narrare.

martedì 10 gennaio 2006

Questione di finezza (del Latour e dello stile bordolese)

Angelo Peretti
Bella vita, già. Stare a tavola conversando con gli amici. A chiacchierare e far progetti. Con davanti una bottiglia che si fa bere: stappata, of course, ché vederla e non toccarla è cosa avvilente. Nella fattispecie (il termine fa un po’ ribrezzo, ma m’è venuto così) uno Château Latour 1987, Pauillac, regione di Bordeaux, Francia.

La bottiglia ce l’ha messa Leandro Luppi, presa dagli anfratti della sua cantina, al Vecchia Malcesine, ristorante stellato dalla Michelin per il second’anno di fila. Chiaro, non è un’annata di quelle da favola per Latour: 86 centesimi da Parker, che non è grandissima votazione (anzi), ma soprattutto piogge eccessive sul cabernet, mi pare d’aver letto. E lo si sente esilino per davvero, il vino. Comunque, ragazzi, è bel vino. Con le note balsamiche che avanzano ad ondate, col tabacco che colma il calice. Poco frutto, d’accordo, ma una beva elegante, equilibrata. Lunga. Posata. Invitante. Quasi vent’anni portati alla grande. Non c’è niente da fare: ‘sti bordolesi i rossi li sanno fare - da sempre - mettendoci quell’ingrediente in più che li fa grandi: la finezza. Anche negli anni balenghi.

Bando agli equivoci: non lo dico mica perché l’etichetta è blasonata e il costo salatino (l’ho vista, la bottiglia, a 158,40 euro su 1855.com, sito francese che commercializza – in cassa – anche vecchie annate). Il ragionamento vale anche per i marchi meno importanti. Ho già detto, parlando dei quindici vini che mi ricordo più volentieri fra quelli bevuti nel 2005, della mia passione per Château Poujeaux - Moulis-en-Médoc -, che trovi fra i 25 e i 35 euro alla boccia perfino nelle annate più importanti. E mi ricordo volentierissimo una bottiglia di Rauzan Gassies ’70 fatta fuori un anno fa. Vien da Margaux, ma non ha mica il costo del più celebre degli Château del luogo. Questa la trovi a una ventina d’euro o venticinque. Se vi capita, prendetela. Il ’70, poi, l’avevo acquistato all’asta, mi pare pagandone una trentina appena, d’euro (più il trasporto, che non incide poi granché). E comunque, abbiate cura di seguir l'annata e di scegliere i piccoli produttori, i meno noti, e fatene affinare da voi le bottiglie: potete comprare a una decina-quindicina d'euro ancora dei bei rossi del 2000 che vi daranno soddisfazioni per anni (uno ve lo consiglio: Chateau du Grand Mouëys, sulle Premières Côtes de Bordaeux: con dieci euro portate a casa un frutto avvincente).

Cos’è che a mio vedere li fa gratificanti, questi bordolesi – ammetto che sì, anche là ci sono solenni ciofeche, ma di buoni e buonissimi ne puoi trovare a centinaia – l’ho già detto. Son vini d’estrema finezza, d’equilibrio appagante. Senza spingere sull’alcol, che è a 12,5 o intorno a quelle soglia. Senza eccedere nella muscolosità. Senza strafare coi tannini. Senza perder di vista la corretta freschezza. Santoddio: possibile che da noi non li sappiamo fare vini del genere? Possibile che qui o fai rossi da masticare o non se ne parla neppure?

Ecco, da un bel po’ di tempo a questa parte tendo a preferire vini del genere, che si facciano bere con piacevolezza. Occhio: che siano comunque vino, mica una qualunque bevanda alcolica. Che non commettiamo adesso l’errore - il peccato - contrario: basta muscoli e avanti il vin bolso. Nossiggnori. Voglio vini che abbiano carattere, che esprimano personalità, che descrivano un territorio, una stagione, una filosofia di vita e di campagna, ma senz'uccidermi il piacere del bicchiere e della tavola e della convivialità e della ciàcola amichevole e fraterna. Vini che t’inducano a vuotar la bottiglia senz’impastarti però bocca e cervello. Che non facciano seccare le fauci. Che non abbiano alcol che brucia e tannino che allappa.

Già, è la finezza che bramo. Mica la concentrazione esasperata che impazza in terra italica, quasi che fossimo una succursale della California o dell’Australia o del Cile. Vini, i nostri, che magari t’impressionano alla degustazione, quando ne metti in bocca un goccio e lo fai ruotare tutt’attorno al palato e cerchi di capirne il frutto, la struttura, l’ampiezza. Vini che t’esaltano nell’attimo dell’assaggio. Ma che poi, in tavola, rischiano di restare lì, aperti, graditi per quel goccio - appunto -, ma non finiti. Invece di là, in Francia, son tanti i vini che subito ti sembrano gracili, ma poi t’accorgi che la bottiglia è già vuota e ti vien voglia – Latour a parte, visto il prezzo – d’aprirne un’altra.

Cerco, è vero, la quadratura del cerchio. Ma so che esiste. Perché l’ho trovata - come tanti prima di me e come tanti ancora faranno dopo di me - in tante bottiglie di terra bordolese. In vini di due, cinque, venti, trent’anni. Ed è, questa maniera di far vino – e prima ancora di far viticoltura – il modello che dovrebb’ispirare, credo, molte parti d’Italia. Anche il mio Garda. Anche sulle colline che fan Bardolino, pur coi dovuti distinguo: altra terra, altro clima, altra vigna, altra storia, altra gente. E così dev'essere: far bordolesi non vuol dire piantare cabernet e merlot. Significa invece capire, metabolizzare, interiorizzare uno stile, ché poi il vitigno è quello che hai a casa tua. Porca miseria: a Bordeaux, cabernet e merlot sono gli autoctoni di casa!

So che rischio di sembrar quello delle affermazioni azzardate. Che mi si prenderà per visionario e matto. Occhio, però: qualcuno ne sta già traendo i primi auspici. V’invito a farne scoperta, anche sul Garda, anche in zona bardolinista. Col lanternino, certo. Ma questa è un’altra storia. Di cui riparlerò, mi riprometto, fra non molto.