domenica 29 gennaio 2006

L’amore, il formaggio: questione di coinvolgimento totale

Angelo Peretti
Confesso: mi piacciono i magazine femminili. Alcuni sono davvero ben fatti. Leggeri, rilassanti. Se me ne capitano per le mani, li sfoglio volentieri. «Vera» è un mensile: lo trovo intrigante, molto. Le rubriche son quelle di tutti: un po’ di fashion, un tocco di glamour, un briciolo di beauty (avete notato? ormai si parla solo inglese se si vuol esser trendy, e santiddìo è inglese anche questo). Anche qualche rubrica sulla vita di coppia, sul sesso. Ebbene: stavolta, cari i miei dodici lettori, quest’è l’argomento della mia stanza, il sesso. Ché su «Vera» di febbraio c’è un bel pezzo sulla seduzione. Lo firma Chiara Novelli. Che ha raccolto il consiglio d’una psicologa & sessuologa, Laura Rivolta. La quale dice: «È molto intrigante anche fare l’amore usando tutti i cinque sensi» (ma guarda, torna lo stesso aggettivo che ho detto della rivista, «intrigante»).
Si chiederanno ora, perplessi, i miei dodici lettori: ma InternetGourmet non doveva essere un sito che parla di vini e di gastronomia? Rispondo: certo. Ma far l’amore è come degustare: una continua ricerca del piacere. Forse ricerca vana, ma intanto ci si prova. Che poi il piacere, quand’arriva, in quell’attimo, è il sale della vita, e guarda caso la similitudine è alimentare. Ed è ricerca, questa, che non ammette coinvolgimento parziale e limitato. È totale. E difficilmente accetta l’egoismo: nell’amore il piacere tuo dev’essere quello anche del partner. Nella tavola il piacere s’ha da condividere coi commensali, con chi dividi – cioè - il pane & il vino. Oddìo, qui divento filosofo: forse sto invecchiando.

Ritorno all’articolo di «Vera». Spiega dunque la sessuologa che nel momento dell’amore si possono – si debbono, dico io - coinvolgere i sensi, tutt’e cinque: «Con un lungo bacio “alla francese” si attivano gusto e olfatto. Mentre una parolina sussurrata all’orecchio, con la voce modulata sui toni bassi, ha un effetto bomba sull’udito del partner». La vista? «Si tratta di sfruttarla al massimo: non solo farsi guardare come una bella statuina, ma anche osservare il corpo del partner, mentre lo accarezzi». Il tatto? «Le mani devono creare brivido e sorpresa».

Ohibò, si dirà: ma quest’è trattazione hard. Macché. È vita. I sensi sono un tesoro: facciamolo rendere, il nostro patrimonio. Nel letto come in tavola. Ma qui vengo alla mission del gastronomo. Ché tante volte m’è successo di veder gente che pensa che mangiare sia compito della bocca soltanto. Qualcuno aggiungendo l’uso dell’olfatto e magari la vista. Ebbene: si vive coi cinque sensi, anche alla mensa. O coi sensi che natura ci ha dato e vita ci ha permesso di mantenere.

Classici casi di degustazioni a tutt’e cinque i sensi son quelli dei formaggi e dei salumi. Tratterò il primo. L’altro ha similitudini.

Prendiamo dunque il cacio. L’occhio osserva colore e trama. La tonalità del bianco ci dice la freschezza o l’età che avanza (negli erborinati, il verde narra la ricchezza, la complessità). L’occhiatura – quasi ruga sul volto – spiega la vita ch’è passata sin lì, le gioie, le tribolazioni. Come quando cerchi premonizione negli occhi, nella pelle, nel gesto, nella postura dell’amata. Nel tentativo di capirne l’umore, le voglie, la distesa memoria degli attimi felici, i dolori che l’hanno segnato e non la lasciano. Segnali che potranno indirizzarti, poi, nell’usar gli altri sensi.

Il tatto. Il formaggio si prende con le mani. Niente coltello, niente forchetta. Dita, polpastrelli, palmi. Se ne prova l’elasticità giovanile, la fragilità o la durezza di carattere dell’età. Indicatori importanti per preparare il palato alla dolcezza o al sale, al nervoso umor giovanile o alla piccantezza d’una vita già vissuta. Ci son problemi se il giovane formaggio si presenta col carattere del vecchio o quell’affinato con l’elastica plasticità del giovine: nell’uno e nell’altro caso qualcosa non va. Anche la pelle dell’amato, sfiorata, carezzata, racconta. Leggerne i segni non è facile per nulla. Ma ci si prova. E anche questo aiuta gli altri sensi.

L’olfatto. Lo sottovalutiamo, eppure è il principe dei sensi. Che vita grama facciamo quando ci prende il raffreddore e se ne va l’olfatto. Ci pare che il mondo sia lontano, assente, vuoto. S’assaggia con l’olfatto, prima, durante e dopo. E ne trarremo uno, dieci, cento avvertimenti.

Il gusto. Be’, il gusto è l’atto. A volte frettoloso e svelto, a volte lento e pensato e coinvolto. Non dirò oltre: il gusto è il senso più allenato, ma anche il meno avvincente. Alla fin fine, nella degustazione, percepisce solo il dolce, in apertura, o l’acido o il salato, nel mezzo, o l’amaro, nel fondo (ed è come la vita, dunque). Si dice ci sia anche un quinto gusto: l’umami, quel mezzo fra l’acidulo e il salato ch’è tipico dei mangiari orientali. Basta. Tutto il resto è olfatto, ripreso dall’interno.

L’udito. C’è chi sorride ogni volta che dico che si mangia anche coll’udito. Ecco: è un errore. È rinunciare a qualche cosa di noi. Mai abdicare dall’essere se stessi. Ascoltiamolo, il cibo (ascoltiamo altro che non sia la parola, nell’amore). Se mastichiamo, tendiamo l’udito verso il suono che dal cibo proviene. Anche quello ci racconta del valore di quanto stiamo gustando. Un suono regolare, piacevole, è indice di qualità della lavorazione e dell’affinamento. Plastiche mutazioni di suono avvertono d’insulse pratiche industriali, di finzione. Non dirò oltre dei suoni nell’amore: son forse la parte più bella e personale ed intima.

Cinque i sensi. Alleniamoli (alleniamoci). Cercandone il piacere. In fondo, è la nostra olimpiade. È la vita. Che a volte è dolce, a volte amara, a volte acida o salata. Ma è vita, questo è il bello.

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