lunedì 31 luglio 2006

Amarone americano bis: i kit impazzano sul web

Angelo Peretti
Da un certo punto di vista può perfino far piacere. Se ti taroccano, vuol dire che sei qualcuno. Che sei una griffe, che la tua merce è uno status symbol. Sugli improvvisati shop stradali – un telo sporco e via - dei venditori abusivi mica ci trovate le imitazioni di marchi sconosciuti, no, ché quelli non li comprerebbe mica nessuno.
Dunque, l’Amarone è famoso di là dell’oceano, se in vendita su internet trovate i siti che propongono i kit fai da te. Come quello di cui ho parlato di recente su InternetGourmet: è su www.smithswinemaking.com, una mirabolante scatoletta per farsi in casa 16 litri di Amarone con una spesa di 110,35 dollari. Roba che verrebbe quasi la voglia di provare (ma dai, mi prenderete mica sul serio, vero?).
Solo che dopo che ho segnalato la faccenda, ecco che sono arrivati altri avvistamenti. Di cui do conto, ringraziando i lettori per le loro mail, of course.
Un altro magico box per farsi l’Amarone in casa ecco dunque che affiora sul sito americano www.wholesaledirectbiz.com). Si chiama En Primier Signature Italian Amarone. Per esser più precisi, sempre ammesso che vogliate cavarvi lo sfizio, lo trovate all’indirizzo http://wholesaledirectbiz.com/oscommerce/primier-signature-italian-amarone-p-21542.html (l’indirizzo, come gli altri di questo pezzo, è cliccabile: metteteci sopra il mouse, e oplà!). Costa 130 dollari e consente (consentirebbe) di ottenere 18 litri di vino. Mica male, no?
Non è mica finita qui. Se fate un salto su www.thegrape.net rintracciate un altro formidabile kit: è quello della Rj Spagnol, con tanto di ricchi profumi – dice il sito – di lampone, ribes e mirtillo. La scatola - si legge - include tutti gli ingredienti necessari per fare 6 galloni americani di vino finito. Il prezzo? Sono 113,95 dollari. Ah, se poi, dopo aver prodotto il vostro Amarone fatt’in casa direttamente dal kit, avete voglia di etichettarlo, sappiate che alla pagina
http://www.thegrape.net/browse.cfm/4,10389.html potete comprare anche le etichette bell’e pronte: trenta, adesive, a 3,59 dollari, con la scritta Amarone in grande in alto e una romantica foglia di vite arrossata dall’autunno. Questo sì che è marketing.
Ma c’è di più. Stesso sito, stessa ditta. C’è in vendita anche il necessario per fare - attenzione - un Italian Amarone: un ultra premium wine kit da 18 litri. E siccome è «ultra premium», costa di più: la bellezza di 165,29 dollari. Questo, te lo spediscono con le etichette già incluse, e vorrei vedere, con quella sommetta... Il problema è che qui c’è scritto proprio Italian. Qualcuno che interviene fra le istituzioni?
Vi accontentate di farvene meno, di vino amaronista? Ancora Thegrape.net: ecco a 59,29 dollari un box che vi aiuta a produrne tre galloni. Questa volta la scatola è di un’altra azienda, la Winexpert. «Un vino molto intenso e complesso» precisa il sito. E prosegue spiegando che pochi vini sono solidi come l’Amarone, e che ha un profondo colore rubino e trasuda aromi di ciliegie e cacaco e frutta appassita, anice, mandorle amare, tabacco, cuoio, e via con gli attributi organolettici, in una descrizione che fa invidia alla capacità espositiva di tanti wine writers. In più, udite udite, quel gioiellino che è l’Amarone viene illustrato come delizioso a tavola, col cibo, ma si dice che si può anche servire come aperitivo o vino da dessert. A dargli retta, si aprono nuove frontiere per i produttori valpolicellesi nella commercializzazione a stelle e strisce. Un aperitivo? Macché bollicine, macché long drink: una bella boccia di Amarone e via. D’altra parte, ‘sti americani ci vanno giù pesanti con l’aperitivo: avete presenti i film in cui si scolano un paio di whisky prima di mettersi a tavola? Piuttosto, è preoccupante la faccenda che sembra un vino da dessert: lo dico sempre io, che troppi Amaroni sono diventati dolcini, che sembrano un Recioto.
Ordunque, se proprio non volete comprarvi l’Amarone in Valpolicella, andate sul sito in questione e trovate il necessario per questi benedetti 3 galloni. A proposito: è un affarone, perché lo stesso kit lo reperite a 61,95 dollari da Vino Equino di Tacoma (non fatemi cercare da quale parte d’America sia) all’indirizzo http://vinoaquino.stores.yahoo.net/mispwi.html. Un po’ più caro, dunque.
La lettrice che m’ha segnalato i link mi dice: «Noi forse ci ridiamo su, perché se comprassimo una cosa del genere sarebbe per fare uno scherzo a qualche amico produttore o appassionato. Sono però convinta che c’è chi ci crede sul serio». Vero, verissimo. Se quel prodotto non venisse preso sul serio, nessuno lo commercializzerebbe.
«Quello che fa pensare di più - continua la mail -, è che non si impedisce che chiunque possa utilizzare la parola Amarone sulle etichette, scatole, etc!» Ed è vero anche questo. Ma qui c'è la risposta bell'e pronta: è la globalizzazione, baby. E noi italici wine producer ci siamo fatti trovare impreparati, perché – presuntuosi - pensiamo sempre che il mondo finisca al muro di cinta del nostro orticello. E magari mettiamo il muso al vicino perché i suoi quattro broccoli ci sembrano un po’ più rigogliosi dei nostri. Quando di broccoli altrove ne fanno tonnellate e tonnellate.
Il problema è che non ci sono solo i kit fai da te. Che, insomma, se uno è appena un po’ smaliziato in fatto di vino lo capisce che non riesci a farci davvero un Amarone, ma semmai una bevanda alcolica che gli assomiglia vagamente. Il problema, dicevo, è un altro: ci sono anche le bottiglie made in Usa.
TexasWineMarket (il sito è www.texaswinemarket.com) vende proprio Amarone in bottiglia alla cifra, mica da poco, di 42,68 dollari cadauna. Volete dare un’occhiata da soli? La pagina è questa: http://www.texaswinemarket.com/wines/dvine_wine_amarone_reserve.html. Solo che non è mica Amarone della Valpolicella. No: è proprio roba americana. È il DVine Wine Amarone Riserve, 13 gradi e mezzo, Origin of America, come si legge in etichetta. Nel 2006 ha vinto perfino un concorso, stando al sito che lo commercializza: la medaglia d’oro alla Lone Star International Wine Competition. Non approfondisco di che medaglia si tratti. Quanto al vino, lo produce la D'Vine Wine di McKinney, Texas. Spiegano che si tratta di una micro cantina familiare e che tutti i vini che offrono fermentano in azienda. Ma, attenzione: «The advantage of not owning any vineyards is that they can purchase high quality juices from all over the world from which they craft their award-winning wines». Traduco: «Il vantaggio di non possedere alcun vigneto è che loro possono comprare succhi di alta qualità da tutto il mondo, da cui realizzano i loro premiati vini». E chi glielo vende, mi chiedo, il succo di Amarone? Sarà mica che c’è chi fa il gioco del nemico, vero?

lunedì 24 luglio 2006

Amarone? Fatelo da voi

Angelo Peretti
Chi è già pensione se la goda. Gli altri forse non la vedranno mai: dicono che i conti pubblici son messi così male che...
Vabbé: io non la prendo. Sta di fatto che se siete in pensione o state per andarci, be’, avete bell’e pronto un nuovo mestiere: produrre vino. Anzi, fare nientepopodimeno che: Amarone, Valpolicella, Barolo e Chianti. Spendendo quattro soldi. Già, perché 16 litri di Amarone vi costeranno appena 110,35 dollari, che vuol dire 6,90 dollari al litro, ovverosia 5,17 dollari la bottiglia (che com’è noto è in genere da 0,75). Bel colpo.
Ah, non va certo peggio col Barolo: 102,61 dollari per 16 litri, e cioè appena 4,81 alla bottiglia. Altro che balle.
Mi prendete per matto? Colpa vostra che non navigate sufficientemente su internet. Perché altrimenti avreste potuto incontrare le mirabolanti offerte di Smith’s Winemaking, azienda della città di Kelowna. E adesso non ditemi che non sapete dov’è Kelowna. Ve lo dico io, che navigo on line e uso Google: è dalle parti della Okanagan Valley, in British Columbia, Canada. «A dynamic city in the southern interior of British Columbia»: così la descrive il sito www.city.kelowna.bc.ca. Tanto dinamica che lì si fa il vino in scatola: basta comprare i pratici wine making kits di Smith’s Winemaking, appunto, absolutely the finest quality wine at the most economical price, in assoluto i più fini vini di qualità al prezzo più economico. Pofferbacco.
Poco importa che il vino in questione sia italiano, francese, tedesco, californiano, cileno, australiano. Do it yourself, fatelo da voi è la regola. Pochi dollari e il gioco è fatto.
Il sito introduce la visita grosso modo così: «Benvenuti al magnifico mondo del vino fatto in casa. Se cercate un’idea per la pensione, non dovete più affannarvi, fare vino è il perfetto hobby del pensionato. Potete realizzare il vostro vino e berlo quand’è pronto per una frazione del costo che paghereste andando in un negozio di alcolici. Ed è un prodotto che non ha virtualmente alcuna aggiunta chimica a differenza dei generi commerciali che comprate oggi». Un affarone.
Come funziona? Basta portarsi a casa una delle tante scatole messe in vendita sul sito internet www.smithswinemaking.com e seguire le istruzioni. «I vostri costi iniziali per fare il vino in casa – spiega il sito – consistono nell’attrezzatura, che può essere acquistata in un una pratica confezione da 75 dollari; questa attrezzatura può essere usata più e più volte per i vostri wine making kits. Come ulteriore passo, un filtro elettrico da circa 150 dollari può essere utile, ma solo il 25 per cento circa del vino fatto in casa comporta la filtratura, e la maggior parte degli hobbysti che usano i wine making kits preferiscono non filtrare il loro vino, perché ritengono che questo riduca il sapore». Capito.
Dunque, mettiamo di aver comprato il nostro wine making kit da 110,35 dollari per farci questi benedetti 16 litri di Amarone. Adesso è tempo d’agire. Si fa così: «I passi per fare il vino sono facili e tutti i wine making kits hanno istruzioni dettagliate. Generalmente quel che dovete aspettarvi di dover fare è 1) versare il vostro wine making kit in un ampio secchio e aggiungere i lieviti per attivare la fermentazione 2) dopo la prima fermentazione trasferire il vino in una damigiana 3) aspettare poche settimane e poi fermare la fermentazione e aggiungere gli ingredienti per chiarificare il vostro vino 4) lasciar depositare il vino e imbottigliare. Fare il vostro vino può richiedere da quattro a dieci settimane, dipende dalla qualità del wine making kit».
Tutto qui. Dieci settimane al massimo e avrete i vostri 16 litri di Amarone o di Barolo. E adesso chi glielo va a dire ai Dal Forno, ai Quintarelli, agli Allegrini, ai Giacosa, ai Conterno eccetera eccetera che ci mettono anni? Sveglia, ragazzi: che ci vuole? Comprate anche voi il vostro bel kit, e altro che botti e barrique.
Direte: è uno scherzo. Macché, è tutto serio. Tant’è che la pagina di vendita del wine making kit Celebration, quello che serve a farsi il presunto Amarone in casa, spiega che il vino viene «dalle tre varietà della Valpolicella Corvina, Rondinella e Molinara, solo dai migliori grappoli d’uva». Insomma, chi compra la scatoletta magica è proprio convinto di farsi l’Amarone Amarone, quello vero, valpolicellese.
A proposito di rossi veronesi. Tra i kit canadesi ce n’è uno che permette di fare il Valpolicella: 64,68 dollari per 8 litri, e così costa di più perfino dell’Amarone. Roba che se lo sanno i produttori veneti, sai che rivoluzioni di listino che vengono fuori. Un ripasso rischia di costarti un occhio della testa.
Il Chianti? Per il kit da 16 litrozzi sborsate 90,99 dollari, mentre ne pagate 65,60 per la scatola da 8 litri. Va a sapere come funzionano i conti. Supervalutato il Frascati: 60,88 dollari per 8 litri: mi sa che i produttori della doc umbro-laziale devono ripensare al posizionamento di mercato di là dell’oceano.
E adesso vi preoccupate se l’Unione europea permette che si invecchino artificialmente i vini mettendoci dentro i trucioli? Ma signori miei, siete arretrati. Navigate più spesso internet, e scoprirete che i miracoli sono possibili. E che per veder trasformare l’acqua in vino non occorre presenziare a pranzi di nozze dalle parti di Cana nel mentre passa di lì un Signore con la S maiuscola. Nossignori: basta una gita a Kelowna, Canada. O un clic su un sito web. La rete sì che li fa i miracoli!
A proposito: qualcuno ha mica trovato un sito che spieghi come si fa a camminare sulle acque? Sapete, io abito dalle parti di un lago e farebbe comodo. Del resto, anche a Kelowna mi pare abbiano il loro lago. Non si sa mai.

giovedì 20 luglio 2006

Ristoratori, vi prego: basta coi rametti nel piatto

Angelo Peretti
«Non ti sopporto più, lo giuro»: mi pare cantasse così Zucchero Sugar Fornaciari agli esordi, fortunatissimi, della sua carriera. Be’, io, giuro, non sopporto più i fiorellini, i ramoscelli, le erbette. Quelli superflui che ti mettono nei piatti come guarnizione, intendo. Non ce la faccio proprio più a tollerarli: basta, per favore, basta!
Sì, lo so, faccio la figura del rompino coi ristoratori, che già ho bacchettato qualche tempo fa con la pretesa d’avere i piatti piatti anziché certe stoviglie che sembrano sculture. Ma che volete farci: è più forte di me. Amo andare al ristorante. È un piacere. Dev’esserlo. Come andare a teatro, a un concerto. Ma vi figurate che strazio assistere a una grande performance musicale, a un’avvincente piece teatrale su una sedia scomoda e col vicino che continua a chiacchierare con l’amichetta di turno? Ecco, al ristorante voglio essere a mio agio, pergustarmi la mia sana ora di relax. Quindi: niente fronzoli nel piatto.
Ultimo episodio qualche sera fa. Bigoli con la carne tagliata a coltello, profumo che sale invitante, acquolina che già invade il palato. Ci siamo: mi dico. In mezzo, piantato a mo’ di bandierina, ohibò, una ciuffetto di rosmarino. Vabbé, penso tra me e me, pazienza: lo sposto. Tolgo il rametto, e già questo mi fa un po’ incacchiare, ché non sai mai dove infilarlo. Arrotolo gli spaghettoni e... c’è qualcosa che non va. La parte di pasta a contatto con ramoscello ha preso troppo sapore, e siccome è estate e non piove, il sapore in questione è un po’ troppo amaro, ché il rosmarino s’è quasi rinsecchito. Ergo: piatto non dico rovinato del tutto, ché comunque era apprezzabile, ma certo meno buono di quello che poteva essere.
Dico io: ma dovete proprio mettercele ‘ste guarnizioni sui piatti, cari amici cuochi? Perché non servite la roba che si mangia e basta? Intendo: quel che c’è sopra il piatto devo avere il diritto sacrosanto di mangiarmelo tutto, senza star lì a pensare se sia cibo o fronzolo. Le guarnizioni tenetevele voi. Quando a casa vi fate due penne col pomodoro, ci mettete sopra il fiorellino? No? E allora perché me lo rifilate a me?
Niente ramoscello di rosmarino, niente fogliolina di alloro, niente ciuffetto di prezzemolo, niente virgulto di salvia, niente rametto di timo, niente frasca di santoreggia. Niente di niente che non sia roba edibile, che non appartenga alla ricetta, che non sia intimamente connaturato a quel che ho ordinato.
Il peggio del peggio è la foglia di menta, che ha un aroma così intenso che finisce per inquinarti qualunque cibo tu abbia chiesto.
O forse no, di peggio c’è lo zucchero vanigliato, quello che si usa definire «a velo». Te le spolverano in media nove volte su dieci che ordini il dessert. E finisce per rovinarti nove dessert su dieci, con quella sua chimica presenza di vanillina. Ma dico io, se ho chiesto, che so, un dolce al cioccolato, perché devo alterare il gusto del cacao sovrapponendoci quello dello zucchero a velo cosparso sul piatto? Peggio ancora (e mi rendo conto che sto scrivendo un’escalation di peggio): se ho preso la frutta perché voglio evitare calorie eccessive, perché me le cacciate lo stesso nel piatto in forma di polverina bianca zuccherosa? Avverto, qualunque sia lo chef che mi legge: la volta prossima il piatto ve lo mando indietro. Ve lo mangiate voi lo zucchero vanigliato se non c’entra una beata fava col dessert che ho ordinato.
Stessa cosa dicasi del cacao: se non c’è zucchero a velo, allora l’ala del piatto del dessert la riempiono di cacao. Che poi finisce quasi sempre – cacao o zucchero è lo stesso - che potresti rilevare le impronte digitali del cameriere, visto che gli risulta impossibile portati il piatto senza mettere il ditone sopra alle polverine, lasciando lo stampo, antiestetico e un po’ schifoso.
Dicevo prima: con le erbette e i fiorellini c’è anche l’imbarazzo di dove riporli. Già. T’arriva il piatto, c’è l’immangiabile, inatteso ramoscello. Devi levarlo di mezzo per poter cominciare a rosicchiare. Ma dove cacciarlo? Sulla tovaglia no, perché sporca, essendo intriso inevitabilmente di sugo, di unto. Il posacenere, grazie a Dio, non c’è più, perché finalmente il fumo è vietato al ristorante (a quando il divieto anche nei dehors? è pur vero che sei all’aperto, ma se tu non fumi e anzi il fumo di fa venire il mal di testa e invece la signora – ché in genere son sempre le donne – del tavolo a fianco continua a pippare, te lo becchi tutto in faccia il fumo della sua sigaretta). Per terra, oggettivamente, non è carino. Finisce che lo metti sull’ala del piatto, e ti tocca continuare a contorcerti per sforchettare il sibo senza far cadere l’assurda guarnizione appena rimossa.
Ah, sia chiaro: la stessa cosa vale per la fettina di carota tagliata col bisturi, la zucchina cruda lavorata a coltellino, il rapanello con la faccina da topo e quant’altri orpelli inventi la malsana creatività dei cuochi in vena di decorazione. Cari chef, volete fare scultura? Iscrivetevi ad un’accademia d’arte e dedicatevi all’argilla, al legno, al marmo. Vi piacciono i fiori? Datevi al giardinaggio. E magari fate in modo che sul tavolo ci sia una piccola caraffa con dentro un fiore fresco: quello sì che è il suo posto. Ma nel mio piatto no, no e poi no.
Visto che ci siamo, dico anche che non sopporto un altro viziaccio dell’italica ristorazione. Quello di riempirti il tavolo di perline, vetruzzi colorati, soprammobili mignon. Che secondo qualcuno fanno figo il locale, E invece no, fanno disordinato il tavolo. La tovaglia la voglio pulita: gli attrezzi che mi serviranno per mangiare, i bicchieri e stop. A parte la caraffina col fiore, se volete, o un semplice centro tavola. A condizione che fiore e centrotavola non puzzino, ché sennò m’alterano i profumi del cibo e del vino. E che il tavolo sia sufficientemente ampio da farci stare piatti, posate e bicchieri comodamente, ché invece li comprano sempre più piccoli ‘sti tavolinetti, e finisce che continui a spostare il vasellame sperando di starci.
Poi dicono: la ristorazione è in crisi, chissà perché. Ma se devo tribolare per mangiare, tanto vale che mangi a casa mia. Una serata al ristorante dev’essere un piacere. Se non c’è quello, inutile che il cibo sia buono. Ammesso lo sia davvero. E adesso finisce che mi viene un sospetto: non è che guarniscono perché non sono tanto sicuri della validità del piatto? Lo so, esagero. Ma questa è un’altra storia.

venerdì 14 luglio 2006

Il pinot nero e le memorie dell’assaggiatore Cernilli

Angelo Peretti
Apodittico. Non mi ricordo che me l’ha appioppato, quest’aggettivo. Disse che il mio parlare era apodittico. Leggo sul vocabolario - dal Devoto-Oli - che apodittico lo si dice «di ciò che filosoficamente, essendo evidente in sé, non ha bisogno di dimostrazione, o se dimostrato è logicamente inconfutabile». Un altro dizionario spiega che sta per «indiscutibile, inoppugnabile; che non può essere contraddetto». Essendo sicuro che il tale che m’apostrofò con l’apodittico non voleva darmi del filosofico narratore di verità assolute, credo intendesse che il mio parlare era un po’ tranchant, senza mezzi termini. Come spesso m’accade.
Di recente, m’è stata fatta quest’osservazione - e cioè che son senza mezze misure - dopo che avevo detto la mia sul pinot nero. Mi si domandava dove si potesse farne dell’ottimo. Ed ho affermato che la soluzione è una e una sola: Borgogna. Altrove, non dico che si debbano estirpare le vigne, ma non c’è storia o quasi in confronto coi pinot noir borgognoni. Credo che questo veramente sia apodittico. Indiscutibile, intendo.
Ora, sono stato lietissimo di leggere una simile e ben più autorevole ed argomentata affermazione sul bel libro di Daniele Cernilli che trovate in ogni libreria: s’intitola «Memorie di un assaggiatore di vini» ed è edito da Einaudi.
Daniele, come credo sappiate, è curatore di Vini d’Italia del Gambero Rosso & Slow Food. Lato Gambero. Del pinot nero esalta prima le performance borgognone, e scrive poi così: «In altre zone quasi mai si esprime su livelli qualitativi paragonabili a quelli che raggiunge in questa piccola striscia di terra fra Dijon e Beaune. Ci hanno provato e ci provano tuttora in molti, in Alsazia, in Champagne, in Alto Adige, in Toscana, persino nel lontano Oregon, in California o addirittura in Nuova Zelanda e in Cile. Ma non c’è nulla da fare, basta un medio Nuits-Saint-Georges o Chambolle-Musigny in annata giusta per mettere in fila ogni possibile competitor delle altre zone».
Questo è parlare chiaro. E sottoscrivo non una, ma due, dieci, cento volte. È pur vero che qualche buon pinot altoatesino l’ho bevuto, e ricordo con piacere una serata d’un paio d’anni fa col Barthenau - il Vigna Sant’Urbano - di Hofstätter e col St, Valentin della Cantina Produttori San Michele Appiano al Vecchia Malcesine di Leandro Luppi, unico chef stellato dalla Michelin sulla riva veneta del Garda. Ma è altrettanto vero che quando stappi Borgogna, anche senza prendere un grandissimo (e costosissimo) classico, be’, non ce n’è per nessuno. In termini di finezza e d’eleganza e d’armonia. Che è poi l’essenziale d’un vino.
Detto questo, torno al libro di Cernilli. E ne consiglio come s’usa dire «vivamente» la lettura per l’estate. Perché è denso di spunti intriganti ed è scritto con penna felice. Godibile e saggio. Ed è sì memoria autobiografica, ma è pure profonda riflessione sul vino e sulla piacevolezza che sa dare. Ed è anche manuale vero, ché alla fine c’è una bella serie di «istruzioni per l’uso» rivolte a chi al mondo enoico si voglia avvicinare o anche a chi, già aduso al buon bere, voglia far utile ripasso di nozioni.
Dà poi, Cernilli, una personale classifica. Di cinquanta vini. Quelli che gli sono, in assoluto, più piaciuti. Senza limiti geografici. Di diverso prezzo, da quello popolare, allo stellare, irraggiungibile per le tasche plebee. Consigli da segnare per bene. Ed altri se ne trovano leggendo le pagine di queste «Memorie».
Leggetele davvero questi librino, che in altri tempi si sarebbe definito «aureo», fatto d’oro più che di carta: è un’ottima lettura. E costa poco: 12 euro ben spesi.

sabato 8 luglio 2006

Top ten secondo me: le migliori bottiglie bevute al giro di boa di metà anno

Angelo Peretti
Et voilà, si torna a far classifica. Mica quella dei mondiali pallonari. Quella dei vini, invece. Già: perché limitarsi a dire quel che t’è piaciuto quando lo fan tutti, a fine d’anno? Se proprio devo far graduatorie, tanto vale provarci al giro di boa, alle vacanze estive. Oltretutto, può servire a vedere se nel secondo semestre troverò di meglio, di più. Considerando che con luglio capita di provare molti vini destinati alle guide, e dunque sono centinaia e centinaia gli assaggi.
M’accorgo peraltro, scritta la selezione (e voi, se avete la pazienza di seguirmi, la leggete più avanti), che sono stato abbastanza ecumenico. Tre rossi di Francia e due d’Italia. Due bianchi francesi, due italici, un tedesco.
Su tutti, metto il tedesco, un Riesling di gran fascino, un ’90, quello dello Schloss Reinhartshausen. Ma sono forse un po’ partigiano, ché il vitigno mi piace, mi piace tantissimo, quando cresce nella zone vocate, che sono poi il Reno germanico e quello di Francia (l’Alsazia) e la Mosella ancora in terra tedesca. E subito dopo un altro Riesling, of course, nella mia personale top parade. Stavolta alsaziano, di monsieur Josmeyer. Due esempi d’equilibrio. Quasi perfetto.
Piuttosto, m’interrogo sul futuro del vino. Sulle tendenze che verranno. Un’opinione in proposito me la son fatta, ma non pretendo d’avere ragione. Ma vedo - intravedo - rossi sempre più morbidi e sul frutto (e da bere anche relativamente giovani), e bianchi invece che giocano sulla tensione acida, sulla freschezza capace di dare slancio anche nel tempo. Due strade divergenti. Non so se davvero questo accadrà per davvero, ma mi sembra che la tendenza sia questa. Anche se non si può ovviamente assolutizzare.
Ma se davvero questa fosse, non mi piace granché quella de’ rossi, salvo eccezioni, e in classifica una d’eccezioni la troverete: il Parallele 45 di Paul Jaboulet Ainè, esempio dello stile montante (vorrei però nel rosso maggior complessità aromatica e nel contempo snellezza: amo Bordeaux, quand’è vecchio). Mentre approvo - senza condizione - quella bianchista, e in Italia ce n’è almeno uno di fuoriclasse di questa nouvelle vague, ed è il Fiano dei Colli di Lapio, che troverete in chart di seguito.
Ora, la classifica dunque. Li indico, i vini, in ordine d’età. D’annata, intendo. Senza distinzione di patria. Dividendoli solo fra rossi e bianchi. Cinque rossi, cinque bianchi. Par condicio, signori.

ROSSI

St.-Émilion Gran Crû Classé 1970 Chateau Fombrauge
Miseria che slancio giovanile che ci ho trovato in questo rosso bordolese ormai più che trentacinquenne. Il naso non era di quelli indimenticabili, e d’altro canto l’abbiamo aperta, la bottiglia, e subito ripartita nei bicchieri. Ma la bocca, ragazzi. Che succosa freschezza. Quasi vinosa. Piena di vita. Ricca di frutto. Trovarne, di vecchietti così. Bottiglia bevuta ai primi d’aprile.

St.-Émilion Gran Crû Classé 1982 Chateau Fonroque
L’82 è stata, a St.-Émilion, terra bordolese, un’annata di quelle buonissime, d’eccellenza: 98 centesimi la valutazione, a leggere Tom Stevenson. E questo vino lo dimostra. M’è piaciuto un sacco. Proprio. E peccato non averne altre bottiglie in cantina. Rosso d’estrema eleganza. Integro nel colore. L’ho trovato pulitissimo nell’approccio olfattivo in lenta, continua evoluzione fra note di frutto, di spezia, di cuoio, d’idrocarburi, perfino. In bocca, il frutto lo si masticava addirittura. Eppure c’era snellezza. E tensione. Gran vino. Bevuto all’inizio d’aprile.

Amarone Classico della Valpolicella 2001 Zenato
Nossignori, non è la Riserva, ché quella l’ho solo provata en primeur, e se tanto mi dà tanto finirà nella top di fine anno, alla nuova bevuta. Questo è l’Amarone basic. Che già m’era piaciuto a luglio dell’anno passato ed ora, ritrovatolo, ne ho amato l’evoluzione. Ed ha, questo rosso, trama fitta e complessa. Eppure sa farsi bere con piacere disteso e vibrante. Bell’Amarone davvero: da comprare e gustar subito oppure metter via, ché avrà vita lunga e bella. Ribevuto a marzo.

Cotes du Rhône Parallèle 45 2001 Paul Jaboulet Ainè
D’accordo, d’accordo: c’è ben altro vino in Cotes du Rhône. E questo è «solo» il rosso di base di Jaboulet. Ma porca miseria che base! Ce ne fossero di vini così piacevoli, così succosi di piccolo frutto, di mirtillo e d’amarena. Così lunghi nella persistenza. Così giovani dopo un quinquennio quasi. Così accettabili nel prezzo, oltretutto, ché qui non s’arriva alla decina d’euro neanche comprandolo su Internet. Ve lo dico io: sarà anche un vino di base, ma rimpiango fosse l’ultima boccia, questa, del 2001. Bevuto a Pasqua, coll’agnello.

Quaiare 2003 Le Fraghe
E sì, l’ho scritto e lo ripeto: è il vino di riferimento, questo Quaiare del 2003, per chi fa rossi sulla sponda veneta del Garda. Magari non sarà il miglior Quaiare di sempre, ma adesso ha finalmente un’anima e uno stile che sono inconfondibili e portano la firma chiara e limpida della mano femmina che lo produce, quella di Matilde Poggi. Vino snello e fragrante. Uno stile personale. Che sa di territorio. Di terroir. Buonissimo. Bevuto a fine aprile.


BIANCHI

Erbacher Hohenrain Riesling Spätlese 1990 Schloss Reinhartshausen
Ecco, il Riesling. Per me, non c’è bianco che tenga, di fronte a un gran Riesling. Tedesco. Invecchiato. E fra i Riesling che ho assaggiato in questo primo scorcio d’anno, questo l’ho trovato elegantissimo e splendido per equilibrio. Il frutto e la vena vegetale e citrina perfettamente integrati. La nota minerale che esce equilibratissima. La freschezza che rende lunga e appagante la beva. Fascinoso vino. Che ha lunga, lunga vita ancora davanti a sé. Ed è buonissimo oggi. Bevuto a giugno.

Soave Classico La Rocca 1993 Pieropan
Eh, già: non sono riuscito a sputarlo. Alle degustazioni più o meno ufficiali, metti in bocca tanti e tali vini, che ti tocca per forza sputarli, se vuoi evitare di finire knock out. E in genere diventa quasi automatico l’usare la sputacchiera. Ma questo no, mi sono rifiutato, Ché è vino buonissimo, da applauso a scen’aperta. In forma smagliante dopo tant’anni, e freschissimo, e giovine direi, e vibrante e nervoso e teso. Ha frutto denso e vene già minerali e lunghezza sorprendente e avvincente. Un gioiello. Un bianco italico che può reggere il confronto coi grandi di Francia e di Germania. Bevuto a fine maggio.

Alsace Riesling Grand Crû Hengst 1997 Domaine Josmeyer
Quando lo comprai, in Alsazia, in cantina a Wintzenheim, ero convinto d’aver fatto un bell’acquisto. Ma ribevuto a distanza i mesi, questo Riesling s’è mostrato anche sopra le attese, ed erano grandi attese. La vena minerale e quella fruttata s’intersecano, si fondono: una sorta d’amplesso, lunghissimo e passionale, e noi, coll’olfatto e il palato, ce ne facciamo voyeur. Che bianchi, ragazzi, su quelle coste rocciose dell’Alto Reno. Che mano, Josmeyer. Un capolavoro. Ribevuto a febbraio.

Menetou-Salon Morogues 2004 Domaine Henry Pellé
Mi piacciono terribilmente i sauvignon della Loira. Ma non conoscevo la denominazione Menetou-Salon, che certamente non è fra le più note. E dunque la bottiglia l’ho comprata per curiosità, perché era coup de coeur della guida Hachette del 2006. E meno male che ho letto l’Hachette, ché questo è bel bianco davvero. Freschissimo, denso di florealità, soprattutto di frutto bianco. Grande armonia al palato. E lunghezza. Dopo questa, ho comprato altre tre bottiglie: che volete vi dica di più. Bevuto a marzo.

Fiano di Avellino Clelia Romano 2004 Colli di Lapio
Oh, Signore, quant’è buono questo bianco. Uno dei bianchi più buoni che si possano trovare oggi in Italia. Gran vino di terroir eppure anche modernissimo. Bianco d’alta collina, che sembra più settentrionale che campano. E descrive i caratteri del vitigno e della terra in modo esemplare. Un tripudio d’erbe aromatiche e di cedro e di litchie e di pesca bianca croccante e integra. Una freschezza invitante. Un’armonia da applauso. Una lunghezza infinita. Bevuto a maggio.

sabato 1 luglio 2006

Curve pericolose: ecco il Prosecco in lattina

Angelo Peretti
Il 22 di luglio siete dalle parti di Palma di Maiorca? Be’, allora avete una chance. Quella di partecipare alla presentazione di un Prosecco. Ma mica un Prosecco da niente, visto chi è la testimonial dell’evento. Lei, la diva del momento, Paris Hilton.
Ora, non ditemi che non sapete chi è Paris Hilton. Ne stanno parlando tutti i giornali, dato che ha annunciato che farà la cantante. Esce un suo cd. Pensate.
In ogni caso, per quegl’incolti che non avessero notizie della signora, ecco come l’ha presentata Anna Bandettini sulla Repubblica del 29 giugno: «Svestita animatrice dei party high society di New York; seduttrice vagabonda, da Di Caprio a Vincent Gallo, da Paris Latsis a Niarchos; imprenditrice di intimo e vestiti per cani; perfino amante che geme in infuocati amplessi sul web con l’ex fidanzato (‘One night in Paris’, l’esplicito titolo del video) e ora, si dice, anche con la procace amica Nicole Lenza: Paris Hilton è entrata per sempre nella storia della cultura pop-trash di questo secondo millennio».
A proposito: ha anche qualche albergo, ereditato dal nonno. Dice niente la catena degli Hilton Hotel? Una signora birichina e dal portafoglio bello gonfio, insomma.
Ora, nel suo palmares Paris Hilton ha anche il ruolo di promoter del Prosecco. Ah, ma mica il Prosecco doc di Conegliano e Valdobbiadene. Nossignori. Un Prosecco in lattina. Austriaco. Ma con la dicitura «Prosecco aus Italien». Eccola qui la nuova via del business vinicolo.
Sì, esiste un Prosecco confezionato in lattina. Da 200 ml. Si chiama Rich Prosecco. L’ha creato Günther Aloys. Lo promuove la G.A. Workshop di Ischgl, nel Tirolo austriaco. Ne cura la commercializzazione la Rich Sales & Marketing di Memmingen, in Germania. Il tutto su licenza della Rich Corporation di New York, United States. Una multinazionale per il Prosecco in lattina.
Il bussolottino d’alluminio che lo contiene è dorato. Molto fashion. Un pezzo di design.
Si raccomanda di servirlo ghiacciato, il Rich Prosecco: «Eiskalt Serviert!». Sulla latta c’è scritto che viene dall’Italia. E per rafforzarne l’italianità, in alto, in rosso, si strilla «Vino frizzante», nella lingua di Dante. Direte: tutte balle. E invece viene proprio dall’Italia. Di più, dal Veneto. Meglio ancora, dalla zona doc del Prosecco coneglianese. Se andate a dare un’occhiate al sito www.richprosecco.com e optate (in alto a sinistra) per la versione inglese, leggete infatti copsì: «Rich Prosecco comes from the Cantina Colli del Soligo from Pieve di Soligo (Treviso)». Capito? Lo comprano nel Trevigiano. Mica chissà dove.
Se l’ho provato? Certo che l’ho provato, visto che me n’è stato fatto gentile omaggio (mica da Paris Hilton, che pensate?). E francamente non è da buttare. Il naso gioca su toni di frutto maturo (la pera, tipicissima dei Prosecchi veneti) e sulle note vegetali. Somiglia proprio a un Prosecco. Non ad un grande Prosecco, d’accordo, ma ci siamo. In bocca, poi, non è che ci sia da esaltarsi. La carbonica è un po’ grossolana. Però freddo fa la sua figura. È beverino. Neppure troppo dolce (poco più di un grammo di zucchero per litro: lo leggo sempre sul sito). Ed ha poco alcol: 10 gradi e mezzo, si legge sulla lattina (ma il sito del produttore dice che può arrivare a 10,8). Ha perfino la data di scadenza: va bevuto entro un anno. E poi in giro, credetemi, c’è di peggio, anche in certe trattorie della tradizione veneta che servono Prosecchi in caraffa.
Commenti scandalizzati? Neanche uno, per quel che mi riguarda. Né sulla moralità di donna Hilton, né sulla liceità di fare un Prosecco in lattina, né sul fatto che ci sia una cantina veneta che lo vende a questi businessmen austro-germanico-statunitensi. Nossignori. Troppo facile gridare all’insulto verso il patrimonio vinicolo veneto, alla lesa veneticità doc. Macché: business is business. Semmai, perché gl’italici produttori non riescono ad autotutelarsi? A registrare i loro prodotti? E comunque, se un Prosecco del genere ha mercato, vuol dire che il mercato l’attendeva un vino così. Easy, friendly, per dirla in inglese (facile e amichevole, per usare l’italiano). Insomma: c’è una fetta di pubblico che dei vini muscolosi e grassi e potenti non gliene frega niente, ma proprio niente. Vuole delle bevande. Con un pelo di alcol. Ma bevande. «The new sensational sparkling beverage», la nuova sensazionale bevanda frizzante: è così che si presenta il Rich Prosecco.
Chi bramasse assaggiarlo, sappia che non gli so dar consigli, se non quello d’andare a fare un salto in Austria. Credo che il Rich Prosecco lo si trovi facilmente. Stando al sito «this refreshing pleasure is available for EUR 1.99 to EUR 2.19 in stores, restaurants and gas stations». Da 1,99 a 2,19 euro in negozi, ristoranti e stazioni di servizio: non te lo tirano mica dietro. E anche questo è marketing. C’è da imparare, credetemi.
A proposito: nei primi quattro mesi di commercializzazione ammonta alla non trascurabile cifra di un milione il numero di lattine di Rich Prosecco vendute...