domenica 29 luglio 2007

Quando serve la soglia ottomila

Angelo Peretti
Bollire o friggere, il caldo è caldo. Se non altro, quando c’è umido mi rendo conto di avere caldo; se non è umido, ho la sensazione che qualcuno mi stia cuocendo di nascosto.
L’incipit non è mio. È di Joe R. Landsdale. Il libro è un noir, uno dei suoi, della serie di Hap e Leonard. S’intitola «Mucho Mojo». Avvincente e sboccato come gli altri. Editore Einaudi, collana Stile Libero.
L’incipit non è mio, ma fa un gran caldo lo stesso. E quando fa caldo capita magari di dire cose un po’ così. Mezzo strampalate. E allora sia.
E allora, ditemi, siete anche voi, come me, di quelli che preferiscono bere il vino di territorio? Che amano le bottiglie dei vignaioli? Che adorano lo spirito del terroir? Be’ andateci cauti. E imparate una piccola formula matematica. Quella che vorrei chiamare la «soglia 8000», e poi spiego cos’è e vi tengo dunque ancora un po’ sulla graticola, giusto per restare in tema di caldo.
Il problema è questo: siamo proprio sicuri che quel tal vino che tanto ci è piaciuto viene proprio dalle uve di quel tal produttore? Per esserne certi, bisogna fare atto di fede. O andare per approssimazione. Perché di uve e di mosti e di vini in cisterna in Italia ne girano, oh se ne girano! Tutto un via vai di vino lungo le italiche autostrade, superstrade, statali, provinciali eccetera eccetera. Dunque, fidarsi è bene, ma...
Potrete obiettare: c’è l’etichetta. E in effetti sull’etichetta (in realtà quasi sempre sulla retro, che però è quella che contiene le descrizioni di legge, e quindi, tecnicamente sarebbe la vera etichetta) qualche indicazione c’è. Se è scritto che il vino è «prodotto e imbottigliato da» dovrebbe significare che l’intera filiera è nelle mani del produttore, se invece si scrive solo «imbottigliato da», vuol dire che chi firma il vino s’è limitato appunto a metterlo in bottiglia, e se poi c’è addirittura «imbottigliato da... per conto di...» allora è un semplice gioco commerciale.
In Francia, nella vecchia Francia che ha storia di denominazioni e di classificazioni un po’ più vecchia della nostra, può essere che in etichetta si scriva invece che il tal vino è di un «negociant» e che quell’altro di un « vigneron récoltant», il che è un po’ più chiaro. Negociant è chi fa commercio: compra insomma vino e poi magari lo affina, lo invecchia, lo assembla, fa le cuvée: ma dichiara che la materia d’origine non è sua. E mica vuol dire che il vino non sia buono, no: ci sono negociant francesi che mettono in bottiglia cose strepitose. Vigneron récoltant è invece chi fa il vignaiolo e raccoglie (e vinifica) la propria uva, che insomma ha vigna e produce partendo dalla terra. Ecco: direi che c’è maggior chiarezza. Ci sono alcuni che per certe etichette agiscono come vigneron récoltant, e per altre invece semplicemente come negociant. Ecco, io di questi, di tutti questi, mi fido.
E allora in Italia come ce la caviamo?
Facendo uso della «soglia 8000», almeno per i vini che non siano figli dell’appassimento delle uve, ché lì la formula non funziona.
La cosa viaggia come la descrivo qui di seguito.
Fatevi dire quanti ettari di vigneto (in proprietà e in affitto) ha quella determinata azienda e quante bottiglie produce complessivamente. Se dividendo le bottiglie per il numero d’ettari siete sotto quota 8mila, allora è quasi certo che quel tale fa il vino con la propria uva. Se andate oltre, allora magari c’è qualche aiutino (aiutone) esterno.
Mi spiego.
La maggior parte dei disciplinari di produzione ammette all’incirca 130 quintali di uva per ettaro. Mettiamo che mediamente chi fa vino di qualità produca 100 quintali per ettaro. Quelli bravi bravi, nelle zone dove sia oggettivamente possibile, scendono attorno agli 80, ma non dappertutto la vigna accetta rese così basse, e abbassarle troppo il carico d’uva la fa andare in stress, con risultati pessimi dal lato qualitativo. Sapendo che la resa in vino è del 70 per cento, vuol dire che dalle uve di un ettaro di vigneto si possono trarre, a seconda delle rese in uva, fra i 9mila e i 6mila litri di vino: sono le produzioni rispettivamente di chi produce 130 e 80 quintali di frutto (da 100 quintali di uva si ottengono 7mila litri). Dato che le bottiglie sono da tre quarti di litro, vuol dire che se si fanno 130 quintali di uva per ettaro è possibile avere 12mila bottiglie, producendo 100 quintali per ettaro si scende a 9300 bottiglie, a 80 quintali si è intorno alle 7500 bocce. Mediamente, per un vino di qualità secondo me occorre calcolare circa 8000 bottiglie per ettaro, anche in caso di territori e di vini che accettino rese in uva sopra i 100 quintali.
Perché mi fermo a 8mila, mentre ammetto che in certe zone se ne possano far di più? Perché credo sia impossibile che in una qualunque annata tutti, ma proprio tutti gli ettari vitati di un’azienda abbiano dato il meglio di sé: niente siccità, niente malattie, niente grandine, niente piogge eccessive, possibile? Sarebbe miracoloso. Ed è poi improbabile che tutte le vigne abbiano la medesima età, e quindi abbiano la stessa produzione d’uva. Di fatto, ritengo poco plausibile che la resa in uva sia omogenea e che contemporaneamente tutte le uve diano la massima qualità nel vino che se ne ricava. Qualcosa di meno buono ci sarà pure, o no?
Dunque, 8mila bottiglie per ettaro è già una bella soglia, una media accettabile, che può farvi pensare che il vino del tal produttore venga proprio dalle sue vigne. Ergo, per chi per esempio dichiara d’aver 5 ettari è realistico pensare che le bottiglie massime prodotte nell’annata siano 40mila (5x8mila), per chi ha 15 ettari, al massimo possiamo valutare 120mila bottiglie (15x8mila). E così via. Se ne hanno fatte di più, può anche starci, ma cerchiamo d’essere un po’ più cauti nel giudizio.
Adesso so che, lette queste righe, molti amici vigneron s’incavoleranno. Ma io parlo di medie, di soglie d’attenzione. Non dico assolutamente che avere vigna voglia dire fare buon vino: il prodotto naturale della fermentazione del succo d’uva è l’aceto, non dimentichiamolo mai. E so benissimo, parimenti, che si può avere in casa un grande vino anche se non si possiede un ettaro di vigna. Però se chi beve vino vuol avere qualche certezza che quell’è bottiglia figlia di terroir, allora qualche artificio prudenziale lo dovrà pur assumere.
Ora, per evitare simili escamotage autotutelanti per il consumatore, è ovvio che servirebbe un’operazione trasparenza. Ma ritengo un po’ utopistico che possiamo cominciare anche da noi ad aver quella trasparenza che ci fa dire se quand’ho fatto quel tal vino ho agito da vigneron récoltant o da negociant. I due ruoli hanno entrambi massima dignità, se il vino è fatto bene. Quel che non è dignitoso è far le cose senza dirlo. Ma se l’unico dio è il profitto, allora...
Oh, sì, lo so: mi son giocato l’amicizia di qualche vinificatore nostrano. Ma ho una scusante: il caldo. Dà alla testa. Qualche volta.

domenica 22 luglio 2007

Gambellara, l'altra garganega

Angelo Peretti
Il rischio è la sindrome da figlio d’un dio minore. Da ramo povero della famiglia. E invece no. Invece quei basalti e quella garganega sono altra cosa.
Sono stato di recente un paio di volte a Gambellara, terra vicentina appiccicata al confine veronese. Prima sosta per una degustazione dei bianchi locali insieme con un gruppo di produttori, ospite del consorzio di tutela della doc del posto. Seconda per visitare la cantina sociale, ché un paio di loro cose m’avevano incuriosito. E m’incuriosiva soprattutto cercar di comprendere se il mondo della cooperazione fosse in qualche modo sulla lunghezza d’onda dei piccolini, che m’erano sembrati convinti. Devo dire che ho trovato favorevole responso, anche se di strada, chiaro, ce n’è ancora da fare. E insomma mi son reso conto che lì, a un tiro di schioppo da quella capitale bianchista che è Soave, c’è, come dicevo, altra garganega che cresce sul basalto e che può dar buone bottiglie e che la via per arrivarci è stata imboccata. Avanti, allora. Bisogna crederci. Ci devono credere i vigneron. Senza soffrir sudditanze para-soavesi. Senza cercare improbabili imitazioni. Costruendo un percorso autonomo. Che guardi al terroir.
Quella di Gambellara è realtà semisconosciuta. Il paese è piccoletto, e non vi ho trovato grande attrattiva sotto il profilo dell’architettura, del paesaggio urbano (un centro come tanti altri della campagna veneta), mentre è bella parecchio, e verde, e quasi a tratti selvaggia, e ricca di vigna, la collina. C’è sasso nero, proprio basalto, su quei colli. Suolo di vulcano, che deve trasparire nel vino. E peccato che il basalto l’abbiano cavato un po’ selvaggiamente negli anni della fame, quando si doveva crear lavoro a tutt’i costi. Col costo, per esempio, d’abbattere una chiesuola antica per far largo alla cava. E dove non è basalto è tufo poroso e rossastro, che lì chiamano togo. E anche questa è terra pregevole da vigna e da vino.
Dentro all’abitato, a Gambellara, l’edificio più bello è forse la palazzina antica che ospita il consorzio di tutela. Proprio di fronte ha sede una delle più grosse aziende italiche del vino, la Zonin, che qualcosa col nome della doc locale imbottiglia, ma ormai come quota residuale, ché le attenzioni sono ben al di fuori dal territorio vicentino, con gli investimenti - importanti - che ha fatto in quasi tutt’Italia.
Ora l’uva, che come ho detto è garganega (o forse garganego, al maschile, come qualcuno dice da queste parti), che è vocatissima per le terre figlie dei vulcani. Quanto alla doc, la denominazione d’origine prende dentro, insieme a Gambellara, altri tre comuni, che sono Montebello Vicentino, Montorso Vicentino e Zermeghedo, nome che sembra uno scioglilingua. Poco più d’un migliaio d’ettari in tutto. Ci si fanno, dentro alla doc, più vini. Il Gambellara, appunto, bianco, il Gambellara Classico, riservato alle vigne di collina, e poi il Recioto, dolce, da uve di garganega passite, e ancora il Recioto Spumante e infine quella stranezza che è il Vin Santo, sulla cui esistenza debbo far atto di fede, giacché nessuno, proprio nessuno me n’ha fatto assaggiare nelle due visite in loco.
Ora, so che stanno cercando d’approvare la denominazione garantita per il Recioto e, mi par di capire, per il Classico. E un po’ mi tremano i polsi, visti i sostanziali insuccessi dell’altre garantite ottenute negli anni più recenti in terra veneta: il Superiore del Soave e del Bardolino non sono mai decollati, e stenta il Recioto di Soave. Val proprio la pena? E, soprattutto, vale la pena far modifiche al disciplinare imponendo per la docg l’allevamento a filare in una zona da sempre orientata alla pergoletta? Non è che si stravolge, così, il vino, e si mira più a far vino di vitigno che non di terroir? Meglio meditarci un pochetto, temo. E invito.
Devo dire anche del mondo produttivo. Un’impressione: che ci sia – ci possa essere – quel giusto mix fra mondo consortile e iniziativa privata che ha segnato il successo d’altre terre del vino. L’importante è che si trovi sintonia fra le due componenti. E che si punti alla qualità.
Del resto, qualche vignaiolo del luogo è già da qualche anno sugli annuari del vino d’eccellenza: penso ai Dal Maso, a Cavazza. E poi c’è la cantina sociale, che secondo il vezzo corrente s’è tolta il sociale dal nome e dunque si chiama adesso Cantina di Gambellara. E la visita è stata d’interesse, ché è vero che fanno ancora tanto sfuso e tanti bottiglioni-tappo-a-vite (del resto dei quasi quattrocento conferenti ce n’è parecchi in pianura, e più di tanto da quelle vigne è oggettivamente difficile cavarci), ma c’è ottima mano d’enologo e idee chiare nel management. Vivaddìo, secondo me ce la faranno.
Altra meditazione che affido ai vigneron del Gambellara. Stanno spingendo, orgogliosamente, sul Recioto e sul Vin Santo. Per differenziarsi e quindi emergere. Lo facciano, per carità, lo facciano. Ma attenzione: non s’accreditino come produttori di vini centrati sulla dolcezza. Non commettano quest’errore di comunicazione. Ché il loro patrimonio è invece la garganega sul basalto, e quindi il bianco secco e minerale e di carattere. Non si distraggano dall’obiettivo vero. Per favore.
Ora, qualche vino. Ché è giusto dar l’idea, almeno brevemente. Mettendo insieme il meglio delle cose provate nelle due visite che ho detto. Col doppio punteggio, in centesimi e in faccini di piacevolezza.
Gambellara Classico Cà Fischele 2006 Dal Maso Bel bianco, signori miei, bel bianco. I Dal Maso li conosco da tempo. E li apprezzo. Qui c’è polpa e sostanza epperò anche freschezza e pulizia e lunghezza e vena minerale ora appena accennata, ma di già avvincente.
86/100
Tre faccini felici :-) :-) :-)
Gambellara Classico 2006 Virgilio Vignato Se non ho capito male, quest’è vino sperimentale, che quando l’ho assaggiato era ancora in vasca, e che mi piacerebbe aver dunque occasione di riprovare. Rustico, selvatico, eppure denso di frutto, nervoso, minerale.
83/100 sulla fiducia
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Gambellara Classico Paiele 2006 Giovanni Menti Ci scommetto su quest’aziendina. Ci scommetto perché ci trovo personalità, nel Paiele, e son convinto che tiene benone alla distanza e che se n’esce da quel suo carattere introverso e si farà ancora più minerale e interessante.
80/100
Due lieti faccini :-) :-)
Gambellara Classico Togo 2006 Cantina di Gambellara Tanto di cappello alla cantina sociale, se tira fuori ‘ste bottiglie dai vigneti di collina. Ragazzi, si beve che è un piacere, e ha frutto e lunghezza. Magari ci vorrei un pelo di freschezza in più, ma è bel vino, sicuro.
80/100
Due faccini contenti :-) :-)
Gambellara Classico Prime Brume 2006 Cantina di Gambellara Me l’han contestato i giovani del luogo, e me lo ricontesteranno. E io dico di riapprezzarlo, ché non è facile far numeri con questa pulizia. Mira all’immediatezza, spinge sull’aroma, ma santo cielo è gradevole!
76/100
Due faccini, rapportati alla tipologia :-) :-)

sabato 14 luglio 2007

Dove vola il Falcone

Angelo Peretti
Bordeaux, provincia di Mantova. Sembra un’eresia, un vituperio. Com’è possibile azzardarsi d’accostare la madre dei grandi rossi con la miserrima terra virgiliana dei Lambruschi? A parte il fatto…
A parte il fatto che a me, clarettista bordolese convinto, piacciono anche i Lambruschi mantovani, e quando son ben fatti, con quel loro colore cupo e quei toni di mora e di ciliegia stramatura e di prugna cotta, e quella ruvida effervescenza, e quella spuma cremosa, be’, li bevo volentieri. E ci faccio anche il bevr’in vin, versandone un poco nella fondina degli agnoli in brodo, e non disprezzo il colorito violaceo che se ne ricava e quel tono acidulo che se ne ottiene. A parte tutto questo, nel Mantovano non si fa mica solo Lambrusco, nossignori. Ché dalle parti alte della provincia, verso il lago di Garda, là dove si chiude la cerchia dei colli morenici, depositati dai ghiacciai chissà quanti e quanti secoli fa, ci sono altre vigne. E se ne coltivano, e con buon risultano, anche d’origine bordolese: il cabernet, il merlot. Che si leggono all’italiana, come avviene da anni et annorum: cabernèt, merlòt, coll’accento marcato.
C’è per esempio, su quelle colline, dalle parti di Monzambano, quasi un tiro di schioppo dal lago, un vigneto di cabernet sauvignon che dà buon frutto e intrigante vino. Lo chiamano il Vigneto del Falcone e venne piantato nel 1965, come sperimentazione, col contributo dell’amministrazione provinciale di Mantova. Nel 1986 i Piona della Cavalchina di Custoza cominciarono a vinificare quelle uve.
Ho avuto di recente la fortuna di provarne le bottiglie in verticale, seguendo il corso delle annate pressoché dall’inizio, ché abbiamo cominciato coll’87, ed è incredibile andare così indietro con le etichette della regione gardesana. E già questo n’avrebbe fatto una degustazione memorabile. Ma quel che più m’ha stupito è stata l’integrità e anzi l’eleganza di cert’annate. Che facevano davvero - e mi si perdoni l’ardire - pensare a vini del Bordolese, ohibò.
Oram di quella degustazione vorrei dar conto, non prima di qualche avvertenza. Innanzitutto, il cambio di nome e d’azienda. L’87 uscì come vino da tavola col marchio Cavalchina. Dall’88 fu vino da tavola Alto Mincio, sempre Cavalchina, Nel ’90 ancora Alto Mincio, ma con la ragione sociale La Predina, l’azienda fondata apposta a Monzambano dai Piona. Dal ’96 c’è la doc: diventa Garda Cabernet Sauvignon. Fino al ’97 s’imbottigliava in vetro bordolese, dal ’98 si è passati alla bottiglia borgognotta, con una nuova etichetta, e al posto della vecchia intitolazione di Vigneto del Falcone, il vino ha preso a nomarsi solo Falcone. E questo per spiegare le differenze di nomi che troverete di seguito. Il vino resta quello, denominazione a parte.
Da sempre, aggiungo, è rosso che ha fatto affinamento in barrique: fino all’87 sei mesi, dall’88 dodici. Da sempre, pure, al cabernet s’è aggiunto un po’ di merlot, «per dare rotondità», m’ha detto Luciano Piona, aggiungendo che il taglio è variabile a seconda dell’esito dell’annata. «Ma a far la differenza - seguita Luciano - è stato il cambio di cultura enologica».
Aggiungo una nota ancora: il Falcone racconta bene le annate, eccome. È vino che ha dunque personalità. Ed ha prezzo certamente interessante: il privato consumatore in cantina lo paga attorno ai 12 euro e lasciatemi dire - v’accorgerete dalle schede qui sotto - sono molto, molto ben spesi.
Ora, la verticale, col doppio voto, in centesimi e in faccini.

Vigneto del Falcone 1987 Cavalchina Colore povero. Vino, ahinoi, ossidativo, ancorché conservi un pelo ancora d’acidità, che l’ha in qualche modo salvato. Un ricordo di liquirizia. Si beve ancora.
70/100 – niente faccini

Alto Mincio Vigneto del Falcone 1988 Cavalchina Colore scarico. Note verdi e venature minerali al naso. La bocca non è male: fresca, tannica. Il frutto è un po’ decadente. La vena ossidativa non dà fastidio. E ha discreta lunghezza. Cresceva la perizia produttiva.
78/100 – un faccino :-)

Cabernet Sauvignon Alto Mincio Vigneto del Falcone 1990 La Prendina Oh, oh, la prima sorpresa, il cambio di marcia! Sembra ancora giovane, questo rosso del ‘90. Il colore s’è fatto però più denso dei due precedenti. All’olfatto è dapprima ritroso, vegetale, eppoi ecco venature floreali e memorie balsamiche. E vegetalità c’è anche al palato. E frutto E bel tannino.
86/100 – due lieti faccini :-) :-)

Cabernet Sauvignon Alto Mincio Vigneto del Falcone 1991 La Prendina Si batte col ’90 in termini di personalità, ma è più evoluto, più avanti nella maturazione. Propone all’olfatto vene animalesche e minerali. E frutto surmaturo. E spezia. La bocca è in sintonia. Rosso snello, ancorché il tannino appaia un po’ ruvido. In ogni caso, per me fascinoso.
85/100 – due faccini e quasi tre :-) :-)

Cabernet Sauvignon Alto Mincio Vigneto del Falcone 1992 La Prendina Qui l’annata non ha aiutato. Il vino ha naso verde. Sotteso c’è il piccolo frutto di bosco (la mora). La bocca è scorrevole: manca profondità.
74/100 – un faccino :-)

Cabernet Sauvignon Alto Mincio Vigneto del Falcone 1993 La Prendina Ostico e quasi terroso al naso, dapprima, poi pregno di note di cacao e caffè. E ha vaghe memorie di foglia di geranio. In bocca c’è tannino quasi aggressivo e un po’ secco. È vino che chissà come e quando evolverà.
80/100 – Un faccino e quasi due :-)

Cabernet Sauvignon Alto Mincio Vigneto del Falcone 1994 La Prendina Naso difficile, vene minerali sopra al frutto. Bocca un po’ secca nel tannino. Problemi di tenuta del tappo, Probabilmente.
Nel dubbio di tenuta, nessun giudizio, ovviamente.

Cabernet Sauvignon Alto Mincio Vigneto del Falcone 1995 La Prendina Wow! Che bel vino, ragazzi, che bel rosso. Naso giovanilmente sul frutto. Elegantissimo. In bocca è fruttato e fresco e calibratissimo nella rotonda tannicità. E c’è beva considerevole, anche. Succosa, gratificante. Fa molto Bordeaux. Ed ha davanti ancora lunga vita. Averne di bottiglie così in cantina!
90/100 – tre lieti faccini :-) :-) :-)

Garda Cabernet Sauvignon Vigneto del Falcone 1996 La Prendina D’accordo, sarà anche un vino un po’ più piccolino del magnifico ’95, ma anche di queste bottiglie vorrei averne qualcheduna nella mia cantinetta. È splendido, ma per motivi quasi opposti a quelli del predecessore: è fresco, ha frutto croccante e quasi surmaturo, ha spezia, ha beva. Col tempo, emergono nel bicchiere la menta e l’eucalipto, fascinosi.
86/100 – tre lieti faccini :-) :-) :-)

Garda Cabernet Sauvignon Vigneto del Falcone 1997 La Prendina È ancora giovane questo ’97. Verde, tanto verde. Al naso e in bocca. Ha di poi fragranze possenti di cacao, caffè, frutta rossa stramatura, spezia. In bocca c’è tanto, tanto fruttone, morbido e masticabile. Materia a iosa. E tannino vellutato. C’è chi l’adora per la sua pienezza. Gli preferisco un po’ le due annate precedenti, ma con quelle fa un tris da applauso.
89/100 – Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

Garda Cabernet Sauvignon Falcone 1998 La Prendina Frutto denso, cacao, spezia all’olfatto. In bocca è sullo stesso tono. E appare caldissimo. E ha tannino ben espresso. Magari, ecco, vorresti maggior equilibrio, ché qui prevale la potenza rispetto alla beva delle precedenti annate.
85/100 – due faccini :-) :-)

Garda Cabernet Sauvignon Falcone 1999 La Prendina Gl’inglesi e gli americani, quando descrivono i rossi di Bordeaux, indicano sempre se son vini da bere o da conservare: drink or hold, per dirla con la lingua loro. In questo caso: hold, aspettare. Ché è vino giovanissimo e chissà quando sarà pronto e bisogna aspettare. Materia, materia, materia. Frutto e tannino. Potenza. Bella bottiglia che è un peccato aver stappato adesso. Complimenti, in ogni caso.
88-90/100 – troppo presto per i faccini

Garda Cabernet Sauvignon Falcone 2000 La Prendina Vennero due temporali a compromettere la raccolta, nel 2000, a Monzambano. E il cabernet venne aiutato con un po’ di merlot appassito. E si salvò dunque l’annata. La correzione si sente: frutta in confettura, stramatura. Ha vene balsamiche. Ma è un po’ corto.
78/100 – un faccino :-)

Garda Cabernet Sauvignon Falcone 2002 La Prendina Ricordate le piogge del 2002? Altr’anno difficile. Note di canfora all’olfatto. La bocca è ben costruita, ma ha tannino un po’ ruvido che comprime il frutto.
78/100 – un faccino :-)

Garda Cabernet Sauvignon Falcone 2003 La Prendina Ecco, riprendo la storia del drink or hold alla maniera anglosassone. In questo caso è drink: bevetelo subito, e ne avrete oltretutto soddisfazione considerevole, ché è vino di bell’appagamento. Ha frutto e caramellina alla mora e confetture di bacche di sambuco. Poi, in bocca, morbidezza e rotondità e velluto. Una vena verde che gli dà slancio. Niente male per la calura del 2003.
88/100 – Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

Garda Cabernet Sauvignon Falcone 2004 La Prendina Qui fateci quel che volete. Potete seppellirlo in cantina e dimenticarlo chissà quanti anni prima di berlo, potete stapparvelo subito e godervelo nella sua immediatezza fruttata. Buonissimo adesso, buonissimo, probabilmente, negli anni. La quadratura del cerchio. Succoso, giovanile, fragrante. Piacevole. Elegante. Grande.
90/100 – tre lieti faccini :-) :-) :-)

Garda Cabernet Sauvignon Falcone 2005 La Prendina Sta ancora sostando nel vetro, riposando. Ha tanto, tanto piccolo frutto. Rosso e croccante. Promette bene, molto bene. Ovvio, va atteso ed è presto per dare un giudizio. Ma comprarselo appena esce non è assolutamente un errore… Direi, anzi, saggezza.
88-90/100 – ovviamente presto per i faccini

sabato 7 luglio 2007

Top 2007 a metà percorso

Angelo Peretti
Giro di boa dell’anno. E dunque appuntamento con la mia personalissima classifica delle bottiglie migliori assaggiate nei primi sei mesi del 2007. Quindici in tutto, in fila alfabetica: niente categorie. Ma se proprio vogliamo andare a categorizzare, dico che sono sei bianchi e cinque rossi e due bollicine e due vini dolci (uno bianco, uno rosso). Mancano i rosati, ma solo perché li voglio riassaggiare, quelli che più mi son piaciuti, e vedere come tengono il tempo.
Lo so, probabilmente ai miei lettori poco interessa di cosa sia piaciuto a me. Ma mettiamola così: sono dei consigli per gli acquisti, delle linee di tendenza, l’occasione per ricordare cose di cui ho già parlato e per menzionare bocce di cui magari non parlerei in altre rubriche. Qualcuna memorabile è più facile da trovare in commercio, qualche altra di più problematica reperibilità. Insomma: in bocca al lupo per chi ci vuol provare a mettermi alla prova replicando l’assaggio.
Dicevo un anno fa che un’opinione sulle tendenze in atto nel mondo del vino me l’ero cominciata a fare: rossi sempre più morbidi e sul frutto (e da bere anche relativamente giovani) e bianchi che giocano sulla tensione acida, sulla freschezza, sulla durata. Mi pare che si possa confermare la previsione sui bianchi, e sul declino ormai sancito del passaggio in legno. Per quel che riguarda i rossi, be’, vedo ancora confusione, ché veramente seguitano ad aver successo i rossi morbidamente fruttati (che dire della marcia trionfale dell’Amarone e del Ripasso, che han quasi mandato in soffitta il piccolo Valpolicella?), ma nel contempo tornano alla ribalta i bordolesi, quelli veri, che certo non giocano sulla potenza ma sull’eleganza, sulla finezza, e in Borgogna s’è pure fatta autocritica, ricominciando ad abbassare i toni (colore densità) per tornare alla tradizione. E in America si parla sempre più di vini dei climi freddi, che hanno appunto tensione di beva più che muscolo. Eppoi c’è l’altra tendenza, che sarà anche modaiola, ma mi fa piacere, visto che son da sempre bevitore della tipologia: quella dei rosé, esplosa ormai a livello planetario. E comunque la bollicina buona è un evergreen, e in giro si beve parecchio Champagne (avete notato quanti wine bar si sono ormai attrezzati con due-tre tipologie di bolle francesi e come di marchi ne girino sempre di più e di nuovi?).
Adesso quel che sta piacendo di più a me.
Resta intatta la passione per i Riesling tedeschi e per i vecchi Bordeaux, soprattutto Médoc, non c’è dubbio: I miei riferimenti enoici, nel bianco l’uno, nel rosso l’altro.
Privilegio comunque il mondo bianchista. Mi stanno piacendo sempre di più gli strani, incredibili bianchi del Jura, con quelle loro vene ossidative combinate con una freschezza che lascia a bocc’aperta. E continuano a piacermi i bianchi della Loira a base d’uve di chenin. Dovendo scegliere, tra i bianchi italiani propendo per Soave, e in classifica ce n’è uno solo, e ripetuto dall’anno passato, ché gli assaggi li ho fatti quasi tutti in questi primi giorni di luglio, e dunque saranno semmai nella top di fine anno. Tra i rossi italici, invece, quando mi capita un buon nebbiolo non disdegno certo di stappare: peccato mi capiti troppo poche volte di bere Barolo. Se bevo bollicine, mi perdonino i vigneron nostrani, ma punto sullo Champagne.
In ogni caso, quando qualcuno mi chiede quale sia il vino che preferisco, rispondo in modo elementare: quello buono. E dev’esser bontà che ha qualcosa da raccontare. Sennò che gusto c’è?
Ed ora, largo alle segnalazioni.

Arbois Savagnin Cave de la Reine Jeanne 2003 Stèphane Tissot Bianco. Uno di quei bianchi strani e complessi e difficili che fanno nel Jura. Naso stratosferico, che evolve lentamente, lungamente. Corrispondenza al gusto. Da tenere nel bicchiere e goderne l’evoluzione. Nespola, frutto surmaturo, noci, canfora, spezia. E lunghezza. E freschezza. Bevuto in maggio.

Arbois Solstice 2002 Domaine de la Tournelle Bianco. Santo cielo, un altro Arbois. L’avevo bevuto nel maggio del 2005 e m’era molto piaciuto. Ritrovandolo (ribevendolo) a gennaio 2007 il piacere è amplificato. Rustico, antico. Naso di nespola selvatica e mallo di noce. Bocca di fiore giallo macerato e mandorla. Beva scattante e lunghezza appagante. Eroico.

Barolo Marenca 2001 Luigi Pira Rosso. E già, un buon Barolo è un buon Barolo, e basterebbe questo. E insomma, se ha ragione Nico Orengo che il Barolo ha da esser connubio di viola e di liquirizia, quest’è Barolo vero. Ottenne i tre bicchieri Gambero&Slow e il giudizio è condivisibilissimo. Bel rosso, bel rosso. Elegante e avvincente. Bevuto in marzo.

Bourgogne Hautes-Côtes-de-Beaune 2004 Francois et Denis Clair Rosso. Subito magari non ti fa impressione questo Pinot Nero borgognone. Ma poi ecco che il fruttino e la viola s’impossessano del palato e vi s’insediano e t’avvincono non per muscolo ma per grazia. Allora capisci perché la guida Hachette gli ha dato il coup de coeur e le tre stelle. Ribevuto in gennaio.

Champagne Aÿ Grand Cru Fût de Chène Brut 1995 Henri Giraud Bolle. Ah, le bollicine, le buone bollicine! Tanto frutto, piccolo, di bosco & sottobosco (ribes, nespola, mela asprigna selvatica), fascinoso, perenne nel naso e nella bocca. Croissant tiepido, pane sfornato. Carbonica perfettamente integrata. Elegantissimo, aristocratico Champagne bevuto in febbraio.

Champagne Brut Rèserve Grand Cru André Beaufort Bolle. Come una brioche all’albicocca, morbida, fragrante di burro e di frutto. Così m’è parso questo Champagne. Uve allevate con metodo biologico. Cremoso e magari un po’ dolcino, old fashioned. Ma ne bevi un bicchiere e un altro e un altro. Seducente setosità. In maggio: bottiglia con sboccatura gennaio 2006.

Haut-Médoc 1996 Château Sociando-Mallet Rosso. Naso elegante, speziato & fruttato insieme. Fascinose note balsamiche. Frutta ed eucalipto. Avvincente trama tannica. Vino bevibile e tosto insieme, che t’inganno, ché pare facile ed è invece complessissimo. Cresce alla distanza, si fa sempre più fine. Ed è ancora giovanissimo. Buonissimo, buonissimo. Bevuto in maggio.

Nahe Bingerbrücker Abtei Rupertsberg Riesling Beerenauslese 1976 Schlösschen am Mäuseturm Dolce. Me ne sono accaparrato qualche bottiglia e ogni tanto n’apro: da buone a buonissime. In maggio, strepitosa. Fichi in conserva, albicocca secca, miele di castagno, vaniglia, dolcetti tedeschi speziati, timo, erbe balsamiche. Freschezza & dolcezza. Da brivido.

Nahe Oberhäuser Leistenberg Riesling Kabinett 2004 Hermann Dönnhoff Bianco. Il Riesling germanico mi piace, e quest’è bel Riesling. Con quel naso che fonde fiori e resine e vene minerali. E la beva che è assoluta gratificazione. E l’equilibrio tra freschezza e morbidezza. Bevuto in gennaio, ribevuto in giugno. Il tempo passa e la memoria resta.

Pauillac Premier Crû 1993 Chateau Mouton Rothschild Rosso. Quando si dice la finezza: almeno per come la penso io, non c’è corpo, struttura, tannino, alcol, fruttone, palestra che tenga. Ed è la finezza a fare di questo rosso un vino da applauso. Avvince per armonia ed eleganza, si distende pigramente sul frutto. Ha lunghezza, persistenza. Bevuto, con gioia, in aprile.

Poully-Fumé Mademoiselle de T 05 Chateau de Tracy Bianco. Oh, insomma, che volete: se bevo un Sauvignon ha da esser della Loira, ché là non c’è noiosa traccia vegetale, ma fiore, e tanto. E questo qui è un bel Sauvignon, sissigori, e affascina col bouquet. Ed ha fruttino bianco e piccolo e pure anche sfoggia freschezza invitante e armonia. Bevuto la bottiglia in gennaio.

Recioto della Valpolicella Classico Vigneti di Moron Domini Veneti 2000 Cantina di Negrar Dolce. Lo ricordo finalista per i tre bicchieri, questo Recioto valpolicellese, senza però ottenerli nella guida del 2003. A distanza, s’è fatto ancora più elegante, quasi austero. Avvince la dolcezza, ma intriga vieppiù la speziatura, complessa. S’aggiunge fiore essiccato. A gennaio.

Savenniéres-Coulée-de-Serrant Clos de la Coulée de Serrant 1980 Nicolas Joly Bianco. Joly sarà anche un affabulatore, e insomma avrà anche l’immagine del guru con quel suo essere leader del mondo biodinamico, ma le vecchie bottiglie della Coulée de Serrant son davvero buone. Non mostra traccia di cedimenti questo chenin dell’80. Bevuto in febbraio.

Soave Monte Fiorentine 2005 Cà Rugate Bianco. Oh, insomma, so che mi ripeto e che l’ho già inserito nella top 2006, ma continua a strapiacermi e seguito a straberlo se solo ne trovo altre bottiglie. Insisto: è frutto gioioso quello che emerge dal bicchiere. Per me, un bianco ch’é benchmark per chi voglia far vini di beva & carattere insieme. Ribevuto in aprile.

Valpolicella Classico Superiore 1999 Giuseppe Quintarelli Rosso. Il Bepi è il Bepi, e i vini che fa hanno il suo imprinting, il suo stile unico. E se te n’innamori può essere un guaio... Ma l’amore non conosce ostacoli, si dice: dunque, lasciamoci ammaliare da questo frutto nobilmente vellutato, avvolgente, potente, caldo & bevibile insieme. A maggio.

domenica 1 luglio 2007

Massimo Ronca, vigneron a Sommacampagna

Angelo Peretti
Lasciatemelo dire: non son mica periodi di vacche grasse, questi qui, per i vignaioli della sponda veronese del lago di Garda. Il Bardolino si dibatte in una crisi d’identità: si salva (e salva i conti economici) il Chiaretto, ché è periodo di tendenza rosata. Il Custoza tira di più, sull’onda del ritorno d’interesse per i bianchi, ma i prezzi non sono certo alle stelle e anche qui magari c’è da colmare qualche gap di comunicazione. Non è che manchino, sia dal lato bardolinista che da quello del Custoza, produttori che facciano le cose per bene, ed anzi ci sono vini che io reputo di gran bell’espressione, ma c’è strada - tanta - che va recuperata per darne una miglior percezione. Ora, che nell’entroterra gardesano nasca proprio adesso una nuova cantina votata al credo del Custoza e del Bardolino è già di per sé una (buona) notizia. Da salutare con un qualche entusiasmo, ché potrebbe essere l’avvisaglia d’una svolta: i nuovi investimenti aiutano tutti, credetemi. E lo è di più se si considera che questi nuovi entrati hanno deciso di prendere il toro per le corna, puntando a vini che abbiano personalità ben definita.
Confesso che di Massimo Ronca e della sua decisione di far vino a Sommacampagna non avevo mai sentito parlare prima. Prima del giorno, intendo, in cui nella casella di posta elettronica mi sono trovato l’invito all’inaugurazione della sua cantina. Un pdf d’impostazione elegante, è in zona non ne girano mica tanti del genere. E son rimasto sorpreso a vedere le foto delle bottiglie: tre bianchi e un rosso tutti in borgognotta, ed è un’altra anomalia in un’area in cui spopola la bordolese. E per di più con etichette dalla grafica minimalista-moderna, che non passa inosservata. Etichette e packaging affidati ad un art director, Marco Campedelli.
Lo confesso: la prima intenzione è stata di lasciar perdere. Mi son chiesto se fosse davvero possibile che qualcuno si mettesse a metter soldi sul far vino in questa zona. E ho fatto spallucce. Mai aver preconcetti, ed io l’ho avuto: pensavo a un qualche parvenu che volesse fare il vignaiolo così, per moda. Poi la foto di quelle bocce atipiche ha continuato - per fortuna - a stuzzicarmi. E, insomma, all’inaugurazione non ci sono andato, ché non mi piace molto transitare per gli eventi mondani. Ma ho fissato un appuntamento e mi son fatto vivo qualche giorno dopo in via Val di Sona, che è poi una stradella che imboccate sul percorso che dall’uscita autostradale di Sommacampagna porta verso Bussolengo, poco prima del ponte della ferrovia: proseguite fino a uno stabilimento di ceramiche e proprio lì di fronte si entra fra i vigneti. O meglio, si entra fra i primi ettari di kiwi (e quelli continuano a rendere abbastanza), ché le vigne sono un po’ più sopra, sulla collinetta: una ventina d’ettari, dai quali si traeva uva da conferire alla cantina sociale. E già questo per me è stato una specie di schiaffone, ché ho trovato smentita all’idea che si trattasse di neofiti: i Ronca fanno uva dal ’76, mica da ieri. Settanta per cento per il Custoza, il resto per il Bardolino. Poi, col 2006, la decisione di mettersi in proprio. E di chiamare a interpretare vigna e terroir Enrico Paternoster & Gianni Gasperi & Roberto Lechthaler, tutta gente che sa il fatto suo e che ha bell’esperienza. Chapeau.
Fra vigna e cantina, ho potuto conversare dunque con questo Massimo Ronca, che è produttore giovane e m’è parso che veramente abbia l’intenzione di far parlar di sé per le sue scelte. N’ha già fatte di coerenti anche nell’impostazione degl’impianti di produzione: acciaio piccolo, in modo da tener separata ogni singola pigiatura, ogni porzione di vigneto (non c’è per ora botte alcuna di legno), per poi far cuvée. Ed anche alla vigna s’è data nuova impronta, con un restyling delle vecchie cose e la posa di nuovi filari. Chiaro che occorrerà il tempo di vederne appieno i frutti. Ed altrettanto chiaro che, intanto, s’imbottiglia solo piccola parte, e il resto va via in cisterna: mica è possibile che uno dall’oggi al domani trovi la forza di vendere un centinaio di migliaia di bottiglie e più. Ma quel poco, ed è solo la prima annata, l’ho reputato interessante parecchio, e dunque eccomi qui a darne conto.
Dico dunque che m’è parso che i vini della prima annata, quella del 2006 - son quattro le etichette -, siano tutti ben fatti. E che mi sembrano anzi destinati a dare ancora miglior impressione un po’ più avanti coll’affinamento nel vetro. Credo che riprovandoli nell’autunno li si potrà trovar cresciuti, e spero d’aver occasione di farne di nuovo la prova. E comunque sono vini che hanno carattere e non vogliono seguire mode piacione: secchi, secchissimi, mica i morbidoni che troppe volte ti trovi d’attorno. Bene. E dico tra me che ci vuole coraggio e determinazione (e forse anche un po’ d’incoscienza) a mettersi in una simile avventura, ma insomma, il punto di partenza è di già bello alto. E se il buon giorno si vede dal mattino, m’aspetto belle cose dalle vendemmie che verranno, quando le vigne risistemate e quelle di nuova piantagione daranno frutto ancora più netto. E dunque incoraggio l’intrapresa.
Ordunque, i quattro vini di questa neonata aziend’agricola Ronca.
Custoza Tèra 2006 Il nome è in dialetto: terra, vuol dire. Che è quasi una dichiarazione d’intenti. Le uve son garganega e tocai (qui detto trebbianello) in quasi ugual misura. E dico che è bianco fra i più intriganti all’olfatto che mi sia capitato d’annusare negli ultimi anni in zona gardesana. Memorie balsamiche di pino mugo s’espandono a onde dal bicchiere. E sotto frutto bianco (e pera). E fiore bianco secco. Buona pure la bocca, che ha bella progressione: dapprima il frutto, tanto, di poi la freschezza salina, e il finale è asciutto. Ha buona polpa. Magari vorrei maggior lunghezza, ma diamo tempo al tempo. Intanto, mi godo le fragranze.
Costa in cantina a privati 4,70 euro per una bottiglia (27 la cassa da 6).
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Garganega Camì 2006 Camì sta per Camilla, la figlia del patron. La garganega è l’uva per eccellenza del luogo. Al naso tanto fiore bianco: camomilla. E accenni verdi, di clorofilla. E frutto bianco. Bel bouquet, davvero. Bocca tesa. Materica. Finale secco, da bianco di razza. C’è una vena un po’ amara che preferirei non trovare, ma credo che col passare dei mesi tenderà a scomparire.
Costa 4,50 euro (25,80 in cassa).
Due lieti faccini :-) :-)
Bianco Meuì 2006 Francesismo storpiato nel nome: ma sì... Gran parte tocai, l’uva, e poi un filo di pinot bianco. E medesime note balsamiche del Custoza. E begli accenni di florealità. E frutto: la pesca nettarina, bianca, quando ancora è croccante, non del tutto matura. In bocca grande sapidità & salinità. E lunghezza. E possanza. Magari quel filino d’amaro in più, ma anche qui c’è da lasciar tempo.
Costa 5,50 euro (31,80 in cassa)
Due lieti faccini :-) :-)
Bardolino Erre 2006 Erre sta per Ronca. O per rosso, fate voi. Ed è Bardolino che non bada ai formalismi: frutto maturo e tannino. Corvina all’ottanta per cento. Il resto è rondinella e perfino la quasi abbandonata altrove molinara, che nella vigna c’è e allora perché non adoperarla? Naso da chiodo di garofano, da cannella in stecca, da buccia d’arancia caramellata. E fragolona matura. In bocca c’è tensione, e frutto, e vena vagamente erbacea, e spezia. Bardolino da bere subito e, penso, ancora più interessante se si ha pazienza d’aspettarlo.
Costa 4,80 euro (27,60 in cassa).
Per ora, un faccino e quasi due :-).