domenica 29 luglio 2007

Quando serve la soglia ottomila

Angelo Peretti
Bollire o friggere, il caldo è caldo. Se non altro, quando c’è umido mi rendo conto di avere caldo; se non è umido, ho la sensazione che qualcuno mi stia cuocendo di nascosto.
L’incipit non è mio. È di Joe R. Landsdale. Il libro è un noir, uno dei suoi, della serie di Hap e Leonard. S’intitola «Mucho Mojo». Avvincente e sboccato come gli altri. Editore Einaudi, collana Stile Libero.
L’incipit non è mio, ma fa un gran caldo lo stesso. E quando fa caldo capita magari di dire cose un po’ così. Mezzo strampalate. E allora sia.
E allora, ditemi, siete anche voi, come me, di quelli che preferiscono bere il vino di territorio? Che amano le bottiglie dei vignaioli? Che adorano lo spirito del terroir? Be’ andateci cauti. E imparate una piccola formula matematica. Quella che vorrei chiamare la «soglia 8000», e poi spiego cos’è e vi tengo dunque ancora un po’ sulla graticola, giusto per restare in tema di caldo.
Il problema è questo: siamo proprio sicuri che quel tal vino che tanto ci è piaciuto viene proprio dalle uve di quel tal produttore? Per esserne certi, bisogna fare atto di fede. O andare per approssimazione. Perché di uve e di mosti e di vini in cisterna in Italia ne girano, oh se ne girano! Tutto un via vai di vino lungo le italiche autostrade, superstrade, statali, provinciali eccetera eccetera. Dunque, fidarsi è bene, ma...
Potrete obiettare: c’è l’etichetta. E in effetti sull’etichetta (in realtà quasi sempre sulla retro, che però è quella che contiene le descrizioni di legge, e quindi, tecnicamente sarebbe la vera etichetta) qualche indicazione c’è. Se è scritto che il vino è «prodotto e imbottigliato da» dovrebbe significare che l’intera filiera è nelle mani del produttore, se invece si scrive solo «imbottigliato da», vuol dire che chi firma il vino s’è limitato appunto a metterlo in bottiglia, e se poi c’è addirittura «imbottigliato da... per conto di...» allora è un semplice gioco commerciale.
In Francia, nella vecchia Francia che ha storia di denominazioni e di classificazioni un po’ più vecchia della nostra, può essere che in etichetta si scriva invece che il tal vino è di un «negociant» e che quell’altro di un « vigneron récoltant», il che è un po’ più chiaro. Negociant è chi fa commercio: compra insomma vino e poi magari lo affina, lo invecchia, lo assembla, fa le cuvée: ma dichiara che la materia d’origine non è sua. E mica vuol dire che il vino non sia buono, no: ci sono negociant francesi che mettono in bottiglia cose strepitose. Vigneron récoltant è invece chi fa il vignaiolo e raccoglie (e vinifica) la propria uva, che insomma ha vigna e produce partendo dalla terra. Ecco: direi che c’è maggior chiarezza. Ci sono alcuni che per certe etichette agiscono come vigneron récoltant, e per altre invece semplicemente come negociant. Ecco, io di questi, di tutti questi, mi fido.
E allora in Italia come ce la caviamo?
Facendo uso della «soglia 8000», almeno per i vini che non siano figli dell’appassimento delle uve, ché lì la formula non funziona.
La cosa viaggia come la descrivo qui di seguito.
Fatevi dire quanti ettari di vigneto (in proprietà e in affitto) ha quella determinata azienda e quante bottiglie produce complessivamente. Se dividendo le bottiglie per il numero d’ettari siete sotto quota 8mila, allora è quasi certo che quel tale fa il vino con la propria uva. Se andate oltre, allora magari c’è qualche aiutino (aiutone) esterno.
Mi spiego.
La maggior parte dei disciplinari di produzione ammette all’incirca 130 quintali di uva per ettaro. Mettiamo che mediamente chi fa vino di qualità produca 100 quintali per ettaro. Quelli bravi bravi, nelle zone dove sia oggettivamente possibile, scendono attorno agli 80, ma non dappertutto la vigna accetta rese così basse, e abbassarle troppo il carico d’uva la fa andare in stress, con risultati pessimi dal lato qualitativo. Sapendo che la resa in vino è del 70 per cento, vuol dire che dalle uve di un ettaro di vigneto si possono trarre, a seconda delle rese in uva, fra i 9mila e i 6mila litri di vino: sono le produzioni rispettivamente di chi produce 130 e 80 quintali di frutto (da 100 quintali di uva si ottengono 7mila litri). Dato che le bottiglie sono da tre quarti di litro, vuol dire che se si fanno 130 quintali di uva per ettaro è possibile avere 12mila bottiglie, producendo 100 quintali per ettaro si scende a 9300 bottiglie, a 80 quintali si è intorno alle 7500 bocce. Mediamente, per un vino di qualità secondo me occorre calcolare circa 8000 bottiglie per ettaro, anche in caso di territori e di vini che accettino rese in uva sopra i 100 quintali.
Perché mi fermo a 8mila, mentre ammetto che in certe zone se ne possano far di più? Perché credo sia impossibile che in una qualunque annata tutti, ma proprio tutti gli ettari vitati di un’azienda abbiano dato il meglio di sé: niente siccità, niente malattie, niente grandine, niente piogge eccessive, possibile? Sarebbe miracoloso. Ed è poi improbabile che tutte le vigne abbiano la medesima età, e quindi abbiano la stessa produzione d’uva. Di fatto, ritengo poco plausibile che la resa in uva sia omogenea e che contemporaneamente tutte le uve diano la massima qualità nel vino che se ne ricava. Qualcosa di meno buono ci sarà pure, o no?
Dunque, 8mila bottiglie per ettaro è già una bella soglia, una media accettabile, che può farvi pensare che il vino del tal produttore venga proprio dalle sue vigne. Ergo, per chi per esempio dichiara d’aver 5 ettari è realistico pensare che le bottiglie massime prodotte nell’annata siano 40mila (5x8mila), per chi ha 15 ettari, al massimo possiamo valutare 120mila bottiglie (15x8mila). E così via. Se ne hanno fatte di più, può anche starci, ma cerchiamo d’essere un po’ più cauti nel giudizio.
Adesso so che, lette queste righe, molti amici vigneron s’incavoleranno. Ma io parlo di medie, di soglie d’attenzione. Non dico assolutamente che avere vigna voglia dire fare buon vino: il prodotto naturale della fermentazione del succo d’uva è l’aceto, non dimentichiamolo mai. E so benissimo, parimenti, che si può avere in casa un grande vino anche se non si possiede un ettaro di vigna. Però se chi beve vino vuol avere qualche certezza che quell’è bottiglia figlia di terroir, allora qualche artificio prudenziale lo dovrà pur assumere.
Ora, per evitare simili escamotage autotutelanti per il consumatore, è ovvio che servirebbe un’operazione trasparenza. Ma ritengo un po’ utopistico che possiamo cominciare anche da noi ad aver quella trasparenza che ci fa dire se quand’ho fatto quel tal vino ho agito da vigneron récoltant o da negociant. I due ruoli hanno entrambi massima dignità, se il vino è fatto bene. Quel che non è dignitoso è far le cose senza dirlo. Ma se l’unico dio è il profitto, allora...
Oh, sì, lo so: mi son giocato l’amicizia di qualche vinificatore nostrano. Ma ho una scusante: il caldo. Dà alla testa. Qualche volta.

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