giovedì 25 gennaio 2007

Sacripante! Questo Soave vale la pena di berselo

Angelo Peretti
L’interrogativo era rimasto in sospeso mesi fa. Ed era questo: perché si decida di chiamar Sacripante un vino bianco. Ché Sacripante mi ricorda le esclamazioni dei fumetti di Tew Willer. Se poi vogliamo far la figura dei colti, allora posso anche dire ch’è il nome del re dei Circassi nell’Orlando Furioso dell’Ariosto. È, in più, termine desueto, che, come leggo sul mio Devoto-Oli, indicava un uomo grand’e grosso, «dal cipiglio fiero e temibile». Oppure, scherzosamente, una «persona vivace e astuta»: quel sacripante di mio figlio, avrebb’esclamato un genitore dei tempi andati, riecheggiando studi classici.
Dicevo: quest’etichettatura resterà un mistero. Invece non me n’è più oscura la motivazione, ché sono andato a metterci il naso.
Intanto: il Sacripante è un Soave, e lo fa un’aziendina piccola piccola e appena nata, che si chiama Le Battistelle. A Brognoligo, contrada collinare in terra di Monteforte d’Alpone, area soavista classica.
Dicevo: piccola, ed è definizione corretta.
Sei ettari in tutto, suddivisi in pezzettini minuscoli e a volte attaccati via sui fianchi dei colli che non so neanche se ce la fanno ad arrivarci con un trattore, e certe volte proprio non credo. Di quelle pezze di vigna, 24mila metri sono il crû delle Battistelle, in piedi sulla collina, che sembrano un lembo d’Alsazia portato nell’est del Veronese, e andare a vendemmiarci è una maledizione. Poi, piccola cosa al Tremenalto, 9mila metri sul Monte Castellaro, meno alle Carbonare e Rugate, 10mila sul Monte Grande, il resto attorno a casa. Le vigne più giovani piantate nel ’90, le più vecchie anche di cent’anni, alle Battistelle.
La cantina è meglio chiamarla cantinetta: una stanza e tutto acciaio (più giusto due barrique prese per provare, ma con rimpianto per i quattrini vanamente spesi).
A condurre vigna & cantina son moglie e marito: lui, Gelmino Dal Bosco, classe ’62, lei, Maria Cristina, quattro di meno. Prima conferivano tutto. Ma cinque anni fa, nel 2002, hanno preso coraggio, e si son messi a vinificare in proprio. Con la vendemmia del 2004 hanno pure deciso d’imbottigliare. Ma di quell’annata e poi di quella del 2005 sono usciti con sole 3mila bottiglie per anno del Sacripante. E basta. A prezzi così a buon mercato che val la pena comprarlo anche solo per lo sfizio di provare.
Fin qui il contorno. E il nome, dunque?
Il nome, Sacripante, è quello d’un avo. Già, Sacripante Dal Bosco quondam Andrea, si legge in una vecchia carta di famiglia. Fu lui, forse, a prender le terre di famiglia. È scritto che il 25 di maggio del 1721 sborsò 5 troni e 4 marchetti «sopra una pezza di terra montiva con poche vigne, e fruttari, arativa in parte ed in parte vegra». Ecco perché han pensato d’usar quel nome: per ricordare l’antenato ch’acquistò la vigna. Et voilà: mistero spiegato.
Quanto all’intitolazione aziendale, la scelta di chiamarla Le Battistelle viene dalla vigna più difficile e più amata, ma anche da un'altra carta dell’archivio notarile, che ricorda d’una transazione fatt’appunto a Brognoligo «in contrà della Battistella». E anche questo è arcabo svelato.
Ora, il vino. E qui mi tocca ammettere d’essermi sbagliato. In parte soltanto, per fortuna. Sì, insomma, ero stato un po’ striminzito nel giudizio, bevendolo la prima volta, ed era stato nei primissimi giorni di luglio dell’anno passato. «Il vino - scrivevo a proposito del 2005 - lo segnalo sulla fiducia, anche se non ha perfetta definizione: potrebb’essere una lieta sorpresa futura». E gli assegnavo un faccino - uno solo - ridente. Be’, l’errore è l’esser stato stretto di manica. Ma il vaticinio era giusto: lasciandolo affinare in bottiglia è proprio diventato lieta sorpresa. Ma adesso racconto del nuovo test.
Soave Classico Sacripante 2005 Ribevuto a metà settembre e poi a metà ottobre e a metà novembre, e insomma, riprovato e rimeditato a lungo, e sempre con soddisfazione crescente. Ora dico: è sì vin bianco ruvido e quasi rustico, ma è Soave di razza. Ha frutto tanto, giall’e bianco, e ben delineato già al naso, e petalo fiorito e vena appena appena erbacea. Ed ha in bocca bell’ingresso fruttato ancora e poi freschezza gratificante e finale asciutt’e lungo. Ha nervo saldo. Si beve un gòto dietro l’altro e si finisce la bottiglia in fretta.
Rivedo il giudizio innalzandolo. Convinto, proprio convinto.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Soave Classico Sacripante 2004 Oilà, che curioso questo bianco più vecchio d’un anno dell’altro! Pensate: non pare ancora del tutto pronto. O meglio, non lo sembrava nella prova di metà settembre, ché poi non m’è purtroppo più tpccata sorte di berlo. Mi si mostrava, allora, verde e floreale anche, ché aveva tanto fiore bianco. E in bocca bella tensione e poi giusti contorni di vena minerale com’è e dev’essere dei Soave della zona classica sulle terre vulcaniche della collina. Bianco insieme complesso e da beva. Mancava solo un po’ nella lunghezza, nella persistenza, ecco. Ma, garantisco, buonissimo e freschissimo e vegetale e nervoso e tannico quasi nel finale.
Anche qui, due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Ora, poiché m’è stato chiesto d’aggiungere alle descrizioni dei vini anche il loro prezzo, d’ora in avanti cercherò d’accontentare i lettori anche con quest’informazione, e dico che il Sacripante costa in cantina 7 euro quando se ne compra una bottiglia sola o due, con sconto se si compra invece il cartone intiero, senza sbregare la scatola.
Che dire, di più: che aspetto il 2006. Ed ho davvero aspettativa, ché col terz’anno d’imbottigliamento e un’annata di quelle che prometton bene, spero tanta promessa sia mantenuta. Intanto, il nuovo nato è lì ancora sulle fecce fini, in vasca, che succhia e succhia l’essenza di mamma uva.
Chiudo: v’invito a fare un salto a Brognoligo e a trovare Gelmino e Maria Cristina, ché son bella gente, appassionata e schietta, e prendono perfino la macchinetta fotografica per farsi la foto insieme a chi li va a incontrare. E mi dispiace averne scritto solo adesso.

giovedì 18 gennaio 2007

Valpolicella da appassimento breve parte due: il Pojega

Angelo Peretti
Dicesi archètipo il «primo esemplare assoluto ed autonomo» (così spiega il mio vecchio Devoto-Oli). La definizione prendetela per ora così com’è, perché qualche riga più sotto verrà buona.
Ho visto (internet ha di bello che puoi vedere cosa leggono i visitatori del sito, cosa che invece non puoi fare con un giornale cartaceo), ho visto, dicevo, che ha ricevuto parecchia attenzione su InternetGourmet la notizia dell’uscita del «nuovo» Verjago della Cantina sociale della Valpolicella. Progetto ambizioso: si recuperano vecchi vigneti d’alta collina per dedicarli alla produzione non già d’Amarone, ma di Valpolicella, destinando per questo le uve ad un appassimento breve, che non supera i quaranta giorni; il tutto in sintonia coll’Università veronese. Una scelta che può cambiare le cose, in terra valpolicellese, visto il peso della Cantina di Negrar.
Ora, tra le osservazioni de’ lettori, c’è stata questa: il Verjago non è mica l’unico Valpolicella da uve appassite. Vero. E quest’altra: non è il solo Valpolicella da vigneti «dedicati». Vero anche questo. Il problema però è che trovare insieme un Valpolicella da uve appassite e da vigneti destinati in primis al Valpolicella (e dunque non all’Amarone) è impresa difficoltosa assai.
Comunque sia, stimolato dal pungolo di chi mi legge, eccomi alla ricerca dell’archétipo, che come tale so bene non si troverà peraltro mai. L’archètipo, intendo, del crû di Valpolicella fatto coll’appassimento breve. Ma una risposta d’interesse la trovo proprio a Negrar. Anzi, nel borgo di San Peretto.
C’è, a San Peretto di Negrar, una piccola corte, che ha in fondo un vecchio mulino ch’è stato attivo fino agli anni Sessanta, e pare abbia origine settecentesca o forse anche più antica. Accanto, c’è la cantinetta dei Mazzi. In etichetta, sulle bottiglie, è scritto Roberto Mazzi, ma sono ora i figli, Stefano e Antonio, a condur vigna e far vinificazione e commercio. In tutto sulle quarantacinquemila bottiglie, e solo rossi. Niente Valpolicella base, e niente, soprattutto, Ripasso. Si parte direttamente dal Superiore, e poi un crû di Superiore, il Pojega, un crû d’Amarone, il Punta di Villa, e un terzo crû per il Recoto, Le Calcarole. Son stato là a cercar di capire il secondo dell’elenco, il Pojega. Ch’è fatto in vigna «dedicata» e viene dall’appassimento breve.
È, il Pojega, discendente diretto del Valpolicella Vecchio da Arrosto che papà Roberto imbottigliava già una quarantina d’anni fa sotto il nome d’azienda agricola Sanperetto e che Gino Veronelli trovò di gusto suo e inserì - se non ricordo male - in uno dei cataloghi che redigeva per Bolaffi. Già allora, l’uva era quella della vigna di Pojega, tre ettari, e la si metteva in cassa e la si faceva appassire (asciugare, forse, più che appassire) per qualche settimana: Roberto Mazzi aveva fatto scuola d’agraria a Perugia e aveva portato a casa tecnica e coraggio.
Anni Ottanta: in azienda entrano i figli. L’etichetta cambia intestazione: adesso si chiama Roberto Mazzi. E il Vecchio d’Arrosto comincia a nomarsi Valpolicella Superiore Pojega, con la vigna scritta in alto, in evidenza, a carattere ben più grande del nome di famiglia, ch’è a sua volta prevalente sulla doc. Ordine che è poi cambiato, ché oggi Mazzi è in alto, grande, e sotto c’è la denominazione e al terzo posto la vigna, a font che resta peraltro evidente. Ma il vino resta sostanzialmente fedele a sé stesso, e l’uva rimane quella sola dei tre ettari a Pojega. Con due varianti: l’appassimento si fa in plateau, a un solo strato d’uve, e la botte s’è fatta più piccola. Il tempo d’asciugatura resta però brevissimo: tre settimane, in genere, e due appena nella torrida stagione del 2003, ché non c’era bisogno di forzar la mano, avendo già fatto gran parte del lavoro il sole.
L’uva, appassita, dà il vino, e questo va in legno per diciotto mesi. E non si fa - l’ho detto sopra - il ripasso, anche se la richiesta del mercato è forte ché c’è la moda, ormai, dei vini rifermentati sulle vinacce dell’Amarone. Testardi, i Mazzi seguitano sulla strada loro: appassimento breve. Tant’è che per spiegarsi han dovuto mettere la controetichetta sulle bottiglie: «Il vino così ottenuto ci porta a considerarlo come un ‘fratello giovane’ dell’Amarone perché fonde la sua struttura con la piacevolezza tipica del Valpolicella».
Direte: sì, vabbé, lo scrivono. Ma delusi come siete - lo so - dai tanti depliant che avete visto in giro (quelli che per gli alberghi Raspelli chiama bugiardini), volete sapere se quel che scrivono è vero. Per cui avete due chance: provar di persona (ch’è meglio) o seguitare a leggere, per vedere quel che ne penso io. E aggiungo il pensiero sugli altri tre vini dell’azienda: quattro in tutto e, anticipo, quattro bei rossi.
Valpolicella Classico Superiore Pojega 2003. Già, bel vino, il Pojega. Moderno e antico assieme. Moderno per quel frutto denso e amabile. Antico per la lentezza nell’aprirsi, la riottosità nell’elargire la fascinazione aromatica. Ci vuol pazienza, coi vini dei Mazzi. Vanno attesi nel bicchiere: lasciategli modo e tempo. Poi, ecco il frutto rosso, la ciliegia croccante, il fiore macerato, la foglia di geranio, la spezia fine. E in bocca ancora frutto carnoso. Ed è vibrante e teso ed integro. Ed ha persistenza considerevole.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Valpolicella Superiore 2004. L’unico dei quattro a non portare il nome d’una vigna, ché qui si raccolgono in effetti l’uve che, ne’ quattro vigneti (i tre crû e l’ettaro accanto a casa), non sono state giudicate da appassimento. Il «base» di famiglia, insomma. Comunque un Superiore: anno di legno. Graduale e progressiva l’apertura olfattiva e bocca piuttosto convincente, tra la spezia e il fiore appassito e la ciliegia cotta, di quelle che facevano un tempo le nonne in campagna. Vino austero.
Due lieti faccini :-) :-)
Amarone Classico della Valpolicella Punta di Villa 2003. Chissà quando troveremo questo vino all’apogeo. Il 2003 è stata annata anomala, con quella calura, ma non è solo la potenza a impressionare in questo rosso: è anche lo slancio, la freschezza quasi inusitata per il millesimo suo. E dunque sarà bello aspettarlo ancora. Per intanto, è comunque Amarone che convince. Ed ha fragranza fascinosa già appena versato e poi s’apre piano - lento, lento - e si fa imponente. E gioca dapprima a nascondino, il frutto, fra le vene terrose e le sfumature vegetali, e poi esplode invece l’amarena.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Recioto della Valpolicella Classico Le Calcarole 2003. Vabbé, sarò anche un fan del Recioto, ma questo, lasciatemelo dire, è di quelli che non passano inosservati, nossignori. O meglio: ogni anno il Recioto della Calcarole ha qualcosa di suo da dire. Sarà che i Mazzi hanno uno stile loro, che mette il tannino davanti allo zucchero, tant’è che ti sembra quasi di bere un Grenache fortificato del sud della Francia, ma questo loro passito valpolicellista ha classe e personalità e aristocrazia e austerità (nonostante una dolcezza ch’è nascosta, ma vivida). Il naso, ah, il naso è amplissimo. I miei appunti scritti di getto: tabacco da pipa, rabarbaro, ciliegia surmatura, mora di rovo, prugna secca, fiore macerato, dattero, tamarindo, pepe macinato.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

giovedì 11 gennaio 2007

Crudo di lago

Angelo Peretti
Ho sfogliato la guida dei Ristoranti d’Italia del Gambero Rosso. E sul mio lago (di Garda) ci ho trovato, per un piatto della trattoria Vecchia Malcesine, una valutazione di questo tenore: «Il crudo di lago, discutibile anche nella fantasiosa rivisitazione, convince poco per qualità e quantità nel piatto». Ora, che volete, essendo fra coloro che le guide le han fatte, le fanno e pensano di farle ancora, non mi permetto d’andare a mettere in discussione il giudizio altrui, ché ciascuno è libero di dire la sua. Otretutto, un eventuale incidente di percorso ci può stare in qualunque ristorante, ivi compresa la Vecchia Malcesine. Ma ripensando ai tanti pranzi&cene&assaggi che hanno contraddistinto il mio 2006, be’, devo dire che proprio quel piatto, il crudo di lago appunto, è invece la cosa migliore che mi sia capitato d’incontrare. Il che conferma, magari, quanto possano essere soggettivi i pareri.
Dunque, il crudo di lago del Vecchia Malcesine mi tocca raccontarlo.
Intanto, il locale, per chi non lo conoscesse ancora, è proprio a Malcesine, in paese. Poco lontano dalla parrocchiale. Un ristorantino da pochi coperti. Una saletta, una terrazza estiva. Il patron, Leandro Luppi, si muove fra sala e cucina. D’estate più sala che cucina, d’inverno il contrario. A vederlo, secco com’è, non lo direste un gourmet. Però ha un palato notevole (e non so come faccia, viste le sigarette che si fuma). In più, ci sa veder dentro nei vini: ha in cantina cose notevoli.
Quand’è arrivato sul lago, ormai una quindicina d’anni fa, Leandro ha portato una cucina «anomala» per stile e ingredienti. Poi ha cominciato a investigare le materie prime del territorio e le ha fatte proprie, mantenendo però fedeltà ad un approccio di stampo creativo, innovativo, personale. Unico sulla riva d’oriente del Garda, ha ottenuto nel 2004 la stella dalla guida Michelin: prima di lui non c’era mai riuscito nessuno, e resta tuttora il solo.
Ogni tanto al Vecchia Malcesine mi ci affaccio, e indubbiamente è luogo apprezzabile. Ci avevo già mangiato bene altre volte, ma il vertice l’ho toccato a fine settembre: sequenza memorabile, assicuro, nel menù di lago, stagionale. E in quella sequenza, il piatto migliore è stato questo crudo di lago, che resta per me - l’ho detto - la punta dei tanti assaggi dell’anno ch’è andato a finire.
Si trattava d’un trittico: tinca affumicata, luccio marinato, filetto di sarda di lago (leggi sardéna). Detto così, non rende. Ho dunque telefonato a Leandro Luppi per farmelo raccontar meglio da lui. Ecco la descrizione: «La tinca viene affumicata in casa con il legno di olivo e la serviamo tagliata a fettine sopra una concassè di pomodoro fresco, condito con un trito di cipollotti olio e sale marino. Il luccio è leggermente marinato con sale marino e timo. Dopo, viene tagliato a piccoli cubetti e servito con una gelatina di frutto della passione per dare dolcezza e acidità. La sarda di lago viene sfilettata e marinata nella passata di pomodoro per almeno due giorni: l’acidita del pomodoro consente la conservazione e nello stesso tempo mantiene la corposità della polpa della sarda. Poi viene servita con un blinis di farina di grano saraceno e la panna acida: il sapore della sarda ricorda un po’ il gusto del caviale e per questo è stato fatto un simile abbinamento. Si mangiano in sequenza prima il luccio, poi la tinca e per ultima la sarda, che ha il sapore più deciso».
Ecco, così, con questa descrizione, potete farvi un’idea migliore. Aggiungo che la serie dei tre crudi è considerevole come crescendo di sapori, che al Vecchia Malcesine sono peraltro sempre ben definiti, e spesso addirittura marcati. Leandro non gioca con le sfumature. Ci va giù dritto: niente mediazioni.
Dico, di più, che un piatto del genere m’è sembrato il modo giusto per valorizzare il pesce lacustre. Certo, solo vagamente rifacendosi alla tradizione (l’affumicato, l’agrodolce, la salagione), ma di sicuro mettendo il lago al centro.
Ma - lo si rammenti -, il crudo lacuale è altra cosa, diametralmente altra, rispetto a quello marinaro. Di là, sul mare, s’esaltano la dolcezza naturale, il tono vagamente iodato, la freschezza assoluta, talché lo chef deve intervenire più sulla ricerca al mercato che sul lavoro di cucina. Di qui, sul lago, c’è meno eleganza, meno saporosità delle carni, e dunque occorre l’intervento della mano del cuoco, che deve esaltare quel che c’è, senza però coprire, senza alterare, senza perdere quella rusticità ch’è insita nel pescato.
Ora, se v’è venuta voglia di provarlo, questo crudo, mettete conto che in carta non lo trovate: è roba estiva. Però qualche cosa di simile lo individuate anche nel menù invernale: una tartara di tinca affumicata in casa con legno di olivo, servita con il pomodoro e cipollotto, e la tartara di trota marinata con sale e zucchero e erbe aromatiche, servita con un purè di finocchi agli agrumi.
Non le ho ancora provate, queste novità. Rimedierò presto, spero. E sono curioso di vedere che vini Leandro proverà a metterci assieme, ché l’abbinamento è di quelli che sembrano quasi impossibili. Lì per lì, mi viene in mente solo un Muscadet della Loira.

sabato 6 gennaio 2007

Fads and fashions: le mode e le manie del mondo del vino

Angelo Peretti
Fads and fashions: è il titolo dell’editoriale di Hugh Johnson sul numero di gennaio di Decanter. Johnson è forse il più importante wine-writer che ci sia al mondo, Decanter la rivista enoica che fa tendenza nel Regno Unito. Fads sono le manie, fashions le mode. E il vino non ne è esente. Anzi.
Sono, in genere, tendenze effimere, che nascono e muoiono in velocità. Facendo le fortune dei produttori più market-oriented, quelli che capiscono al volo quel che va bene domani, e lo assemblano senza tanti pensieri: vendere, vendere, vendere.
Altre son tentazioni modaiole che rischiano di far danni permanenti, svilendo il significato vero di certi caratteri del vino.
Ne cita alcune Johnson, di queste tendenze passeggere.
Dice per esempio che negli ultimi tempi - più all’estero, invero, che qui da noi in Italia – s’è sentito discorrere un sacco di cool-climate viticolture, di viticoltura dei climi freddi, individuandovi la ragione - una delle ragioni - della grandeur francese. Che altrove si cerca d’imitare. Be’, ora non se ne parla già quasi più (all’estero intendo, ché invece in Italia si comincia solo adesso: da noi, si sa, importiamo con lentezza).
Poi, l’ossessione della filtrazione. Anche qui roba più estera che nostrana (per ora). E insomma, c’è stata gente che ha cominciato a mettere in bell’evidenza in etichetta l’aggettivo unfiltered, non filtrato. Quasi che filtrare il vino fosse diventato un errore, una bestemmia, un reato. Il che fai il paio - aggiungo - con la definizione di vino naturale, quasi che quell’altro fosse innaturale, e col cavalcare a tutti i costi il biologico, il biodinamico e il bio-chissà-che-cosa: a me interessa solo che il vino sia buono e che, in più, mostri personalità e abbia qualcosa da raccontare. E se poi c’è stato poco intervento tecnico è meglio, per carità, ma che sia piacevole, almeno.
E il carattere varietale? Quante volte avete letto della varietalità come prerogativa d’un vino? «Varietal character is the grand-daddy of the genre» scrive Johnson: il carattere varietale è il nonno del genere. E poi ci si è aggiunto un altro luogo comune: «Il vino si fa nel vigneto». Come dire che in cantina nasce da solo.
Altra moda? Il fruttato. Anzi, il fruttatone. Valanghe, vagonate di frutto iperconcentrato, voluto dai filosofi americani dei nuovi vini, con imitatori devoti in ogni angolo. La potenza dei dollaroni.
Le tendenze attuali?
La mineralità in primis. Guai se un vino, bianc’o rosso che sia, non è minerale. Provate a leggere le descrizioni sui depliant (o nelle controetichette): la mineralità imperversa. Certo, trovarci carattere minerale in un bianco è una bellezza: penso ai Riesling del Reno, oppure anche, nella mia terra, a certe espressioni del Lugana e del Soave, quando son fatti bene, il primo sulle argille, l’altro su suoli basaltici. Ma che la mineralità sia un dogma, questo no.
Ma c’è un’altra parola d’ordine che s’impone ormai in entrambi gli emisferi del pianeta. Si chiama, all’inglese, low-alcohol. Bassa gradazione, diremmo noi. Spiega Johnson che ormai è una routine nei paesi più caldi fare una sorta di salasso alcolico a una parte del vino. Gli si toglie l’alcol, mantenendo gli aromi. E poi questa bibita de-alcolata (che sia lecito usare quest’espressione?) la si riassembla col resto del vino. Risultato: meno alcol del vino di partenza.
Che volete che vi dica: aver vini meno alcolici piacerebbe anche a me. Ed è indubbiamente una richiesta sempre più pressante dei consumatori. Quante volte lo sento dire al ristorante, ai tavoli vicini: «Ma non c’è qualcosa di meno alcolico?» Sapete: i problemi salutistici, la patente a punti… Che poi, lo so, è del tutto irrisoria, da questo punto di vista, la faccenda che un vino faccia 13 o 14 gradi. L’effetto è, grosso modo, sempre quello. Ed anzi un po’ meno alcol rende il vino più beverino, e dunque si beve di più, ottenendo dunque l’effetto contrario, salutisticamente o viabilisticamente parlando. Ma s’esagera a tal punto, col «low alcohol», che c’è chi comincia a parlare di «bicchieri equivalenti» e vorrebbe che in etichetta fosse scritto a quanti bicchieri di vino equivale quella boccia in relazione all’alcol, così, chessò, una bottiglia di Lambrusco può valere otto bicchieri equivalenti e una d’Amarone dodici: più alcol, più porzioni. Ma lasciamo perdere...
Però il problema - uno dei problemi - è forse proprio qui: bisogna tornare a far vini bevibili, ché in degustazione van bene quelli concentratoni, ma in tavola si vuol accompagnare il cibo. Ed è per questo che se proprio devo scegliere vado sui Bordeaux: 12 gradi e mezzo e bel frutto e buon’acidità.
Ma c’è un problema. Ed è che con le concentrazioni estreme che s’ottengono oggi in viticoltura, si ha parecchio zucchero nelle uve. E dove c’è tanto zucchero naturale le soluzioni son due: o il vino lo si lascia dolce, oppure lo si ottiene alcolico, ché l’alcol altro non è che l’effetto della trasformazione degli zuccheri con la fermentazione. Forse, più che far salassi, sarebbe da ripensar la viticoltura, ma è storia che non mi compete, o meglio, di cui non ho competenza.
Piuttosto, vorrei tornare alla questione salutistica. Ché mi preoccupa questo clima di caccia alle streghe che si va instaurando. Me lo vedo che fra poco ci sarà chi vuol mettere sulle bottiglie di vino - oltre alla storia dei bicchieri che v’ho già detto sopra - le stesse, minacciose e perfettamente inutili sentenze che si leggono sui pacchetti di sigarette (e, badate, io non ho mai fumato - se non fumo passivo - e mi dà molto fastidio sentirne anche solo il vago odore, della sigaretta). Senza invece pensare a fare informazione, educazione, cultura. L’alcolismo è figlio della malattia o dell’ignoranza, mica del vino.
Serve altro. Enjoy Responsibly, ho visto in un riquadro d’una pagina di pubblicità di Penfolds, colosso australiano del vino, su Wine Spectator, ed è un avvertimento che condivido: gotitelo responsabilmente. Stesso tenore della pubblicità dello Champagne Perrier-Jouët: «Enjoy our quality responsibly», goditi responsabilmente la nostra qualità. Ma starà mica diventando una moda anche questa, vero?
Eppoi, questa mania di voler sapere tutto, ma proprio tutto del vino. Che facciamo, sull’etichetta ci mettiamo gl’ingredienti e il «da consumare preferibilmente entro il»? Già non mi piace quell’assurdo «contiene solfiti» che è stato imposto sull’etichettatura: ecché, quanti saranno mai i vini che non li contengono, i solfiti?
Ecco, c’è un clima neo-illuminista che non mi va. Sento troppa gente che davanti a un bicchiere si mette a far disquisizioni tecniche, invece di goderselo così com’è. Perfino, c’è chi comincia a parlar - con competenza, talvolta, ammetto - di composti aromatici volatili, d’elementi chimici (naturali) responsabili di questo o quell’aroma, di monoterpeni o di sesquiterpeni, e, chessò, di linaiolo (che mi dicono sappia di rosa), di geraniolo (che indurrebbe memorie floreali). E poco m’interessa - a me che bevo, intendo - sapere che quell’odore ch’è tipico di certi Sauvignon può provenire dal composto 2-metossi-3-isobutil-pirazina.
Spero che anche queste perversioni farmaceutiche sian solo fads and fahions. E che si torni al piacere. Sennò, il rischio è quello mess’in evidenza da Sarah Kemp, altra editorialista di Decanter, ancora sul numero di gennaio. Cita, la Kemp, un libro che le è piaciuto, scritto da un’altra donna, la bionda (così la vedo in foto, ma con le donne non si sa mai) Jennifer Rosen, trasgressiva scrittrice di vino. Dice (traduco): «Bere vino con un sommelier è come far l’amore con un ginecologo: è meglio che non vi dicano tutto quello che sanno». Appunto.
Godete responsabilmente. Ma prima il piacere, per favore.