giovedì 11 gennaio 2007

Crudo di lago

Angelo Peretti
Ho sfogliato la guida dei Ristoranti d’Italia del Gambero Rosso. E sul mio lago (di Garda) ci ho trovato, per un piatto della trattoria Vecchia Malcesine, una valutazione di questo tenore: «Il crudo di lago, discutibile anche nella fantasiosa rivisitazione, convince poco per qualità e quantità nel piatto». Ora, che volete, essendo fra coloro che le guide le han fatte, le fanno e pensano di farle ancora, non mi permetto d’andare a mettere in discussione il giudizio altrui, ché ciascuno è libero di dire la sua. Otretutto, un eventuale incidente di percorso ci può stare in qualunque ristorante, ivi compresa la Vecchia Malcesine. Ma ripensando ai tanti pranzi&cene&assaggi che hanno contraddistinto il mio 2006, be’, devo dire che proprio quel piatto, il crudo di lago appunto, è invece la cosa migliore che mi sia capitato d’incontrare. Il che conferma, magari, quanto possano essere soggettivi i pareri.
Dunque, il crudo di lago del Vecchia Malcesine mi tocca raccontarlo.
Intanto, il locale, per chi non lo conoscesse ancora, è proprio a Malcesine, in paese. Poco lontano dalla parrocchiale. Un ristorantino da pochi coperti. Una saletta, una terrazza estiva. Il patron, Leandro Luppi, si muove fra sala e cucina. D’estate più sala che cucina, d’inverno il contrario. A vederlo, secco com’è, non lo direste un gourmet. Però ha un palato notevole (e non so come faccia, viste le sigarette che si fuma). In più, ci sa veder dentro nei vini: ha in cantina cose notevoli.
Quand’è arrivato sul lago, ormai una quindicina d’anni fa, Leandro ha portato una cucina «anomala» per stile e ingredienti. Poi ha cominciato a investigare le materie prime del territorio e le ha fatte proprie, mantenendo però fedeltà ad un approccio di stampo creativo, innovativo, personale. Unico sulla riva d’oriente del Garda, ha ottenuto nel 2004 la stella dalla guida Michelin: prima di lui non c’era mai riuscito nessuno, e resta tuttora il solo.
Ogni tanto al Vecchia Malcesine mi ci affaccio, e indubbiamente è luogo apprezzabile. Ci avevo già mangiato bene altre volte, ma il vertice l’ho toccato a fine settembre: sequenza memorabile, assicuro, nel menù di lago, stagionale. E in quella sequenza, il piatto migliore è stato questo crudo di lago, che resta per me - l’ho detto - la punta dei tanti assaggi dell’anno ch’è andato a finire.
Si trattava d’un trittico: tinca affumicata, luccio marinato, filetto di sarda di lago (leggi sardéna). Detto così, non rende. Ho dunque telefonato a Leandro Luppi per farmelo raccontar meglio da lui. Ecco la descrizione: «La tinca viene affumicata in casa con il legno di olivo e la serviamo tagliata a fettine sopra una concassè di pomodoro fresco, condito con un trito di cipollotti olio e sale marino. Il luccio è leggermente marinato con sale marino e timo. Dopo, viene tagliato a piccoli cubetti e servito con una gelatina di frutto della passione per dare dolcezza e acidità. La sarda di lago viene sfilettata e marinata nella passata di pomodoro per almeno due giorni: l’acidita del pomodoro consente la conservazione e nello stesso tempo mantiene la corposità della polpa della sarda. Poi viene servita con un blinis di farina di grano saraceno e la panna acida: il sapore della sarda ricorda un po’ il gusto del caviale e per questo è stato fatto un simile abbinamento. Si mangiano in sequenza prima il luccio, poi la tinca e per ultima la sarda, che ha il sapore più deciso».
Ecco, così, con questa descrizione, potete farvi un’idea migliore. Aggiungo che la serie dei tre crudi è considerevole come crescendo di sapori, che al Vecchia Malcesine sono peraltro sempre ben definiti, e spesso addirittura marcati. Leandro non gioca con le sfumature. Ci va giù dritto: niente mediazioni.
Dico, di più, che un piatto del genere m’è sembrato il modo giusto per valorizzare il pesce lacustre. Certo, solo vagamente rifacendosi alla tradizione (l’affumicato, l’agrodolce, la salagione), ma di sicuro mettendo il lago al centro.
Ma - lo si rammenti -, il crudo lacuale è altra cosa, diametralmente altra, rispetto a quello marinaro. Di là, sul mare, s’esaltano la dolcezza naturale, il tono vagamente iodato, la freschezza assoluta, talché lo chef deve intervenire più sulla ricerca al mercato che sul lavoro di cucina. Di qui, sul lago, c’è meno eleganza, meno saporosità delle carni, e dunque occorre l’intervento della mano del cuoco, che deve esaltare quel che c’è, senza però coprire, senza alterare, senza perdere quella rusticità ch’è insita nel pescato.
Ora, se v’è venuta voglia di provarlo, questo crudo, mettete conto che in carta non lo trovate: è roba estiva. Però qualche cosa di simile lo individuate anche nel menù invernale: una tartara di tinca affumicata in casa con legno di olivo, servita con il pomodoro e cipollotto, e la tartara di trota marinata con sale e zucchero e erbe aromatiche, servita con un purè di finocchi agli agrumi.
Non le ho ancora provate, queste novità. Rimedierò presto, spero. E sono curioso di vedere che vini Leandro proverà a metterci assieme, ché l’abbinamento è di quelli che sembrano quasi impossibili. Lì per lì, mi viene in mente solo un Muscadet della Loira.

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