sabato 6 gennaio 2007

Fads and fashions: le mode e le manie del mondo del vino

Angelo Peretti
Fads and fashions: è il titolo dell’editoriale di Hugh Johnson sul numero di gennaio di Decanter. Johnson è forse il più importante wine-writer che ci sia al mondo, Decanter la rivista enoica che fa tendenza nel Regno Unito. Fads sono le manie, fashions le mode. E il vino non ne è esente. Anzi.
Sono, in genere, tendenze effimere, che nascono e muoiono in velocità. Facendo le fortune dei produttori più market-oriented, quelli che capiscono al volo quel che va bene domani, e lo assemblano senza tanti pensieri: vendere, vendere, vendere.
Altre son tentazioni modaiole che rischiano di far danni permanenti, svilendo il significato vero di certi caratteri del vino.
Ne cita alcune Johnson, di queste tendenze passeggere.
Dice per esempio che negli ultimi tempi - più all’estero, invero, che qui da noi in Italia – s’è sentito discorrere un sacco di cool-climate viticolture, di viticoltura dei climi freddi, individuandovi la ragione - una delle ragioni - della grandeur francese. Che altrove si cerca d’imitare. Be’, ora non se ne parla già quasi più (all’estero intendo, ché invece in Italia si comincia solo adesso: da noi, si sa, importiamo con lentezza).
Poi, l’ossessione della filtrazione. Anche qui roba più estera che nostrana (per ora). E insomma, c’è stata gente che ha cominciato a mettere in bell’evidenza in etichetta l’aggettivo unfiltered, non filtrato. Quasi che filtrare il vino fosse diventato un errore, una bestemmia, un reato. Il che fai il paio - aggiungo - con la definizione di vino naturale, quasi che quell’altro fosse innaturale, e col cavalcare a tutti i costi il biologico, il biodinamico e il bio-chissà-che-cosa: a me interessa solo che il vino sia buono e che, in più, mostri personalità e abbia qualcosa da raccontare. E se poi c’è stato poco intervento tecnico è meglio, per carità, ma che sia piacevole, almeno.
E il carattere varietale? Quante volte avete letto della varietalità come prerogativa d’un vino? «Varietal character is the grand-daddy of the genre» scrive Johnson: il carattere varietale è il nonno del genere. E poi ci si è aggiunto un altro luogo comune: «Il vino si fa nel vigneto». Come dire che in cantina nasce da solo.
Altra moda? Il fruttato. Anzi, il fruttatone. Valanghe, vagonate di frutto iperconcentrato, voluto dai filosofi americani dei nuovi vini, con imitatori devoti in ogni angolo. La potenza dei dollaroni.
Le tendenze attuali?
La mineralità in primis. Guai se un vino, bianc’o rosso che sia, non è minerale. Provate a leggere le descrizioni sui depliant (o nelle controetichette): la mineralità imperversa. Certo, trovarci carattere minerale in un bianco è una bellezza: penso ai Riesling del Reno, oppure anche, nella mia terra, a certe espressioni del Lugana e del Soave, quando son fatti bene, il primo sulle argille, l’altro su suoli basaltici. Ma che la mineralità sia un dogma, questo no.
Ma c’è un’altra parola d’ordine che s’impone ormai in entrambi gli emisferi del pianeta. Si chiama, all’inglese, low-alcohol. Bassa gradazione, diremmo noi. Spiega Johnson che ormai è una routine nei paesi più caldi fare una sorta di salasso alcolico a una parte del vino. Gli si toglie l’alcol, mantenendo gli aromi. E poi questa bibita de-alcolata (che sia lecito usare quest’espressione?) la si riassembla col resto del vino. Risultato: meno alcol del vino di partenza.
Che volete che vi dica: aver vini meno alcolici piacerebbe anche a me. Ed è indubbiamente una richiesta sempre più pressante dei consumatori. Quante volte lo sento dire al ristorante, ai tavoli vicini: «Ma non c’è qualcosa di meno alcolico?» Sapete: i problemi salutistici, la patente a punti… Che poi, lo so, è del tutto irrisoria, da questo punto di vista, la faccenda che un vino faccia 13 o 14 gradi. L’effetto è, grosso modo, sempre quello. Ed anzi un po’ meno alcol rende il vino più beverino, e dunque si beve di più, ottenendo dunque l’effetto contrario, salutisticamente o viabilisticamente parlando. Ma s’esagera a tal punto, col «low alcohol», che c’è chi comincia a parlare di «bicchieri equivalenti» e vorrebbe che in etichetta fosse scritto a quanti bicchieri di vino equivale quella boccia in relazione all’alcol, così, chessò, una bottiglia di Lambrusco può valere otto bicchieri equivalenti e una d’Amarone dodici: più alcol, più porzioni. Ma lasciamo perdere...
Però il problema - uno dei problemi - è forse proprio qui: bisogna tornare a far vini bevibili, ché in degustazione van bene quelli concentratoni, ma in tavola si vuol accompagnare il cibo. Ed è per questo che se proprio devo scegliere vado sui Bordeaux: 12 gradi e mezzo e bel frutto e buon’acidità.
Ma c’è un problema. Ed è che con le concentrazioni estreme che s’ottengono oggi in viticoltura, si ha parecchio zucchero nelle uve. E dove c’è tanto zucchero naturale le soluzioni son due: o il vino lo si lascia dolce, oppure lo si ottiene alcolico, ché l’alcol altro non è che l’effetto della trasformazione degli zuccheri con la fermentazione. Forse, più che far salassi, sarebbe da ripensar la viticoltura, ma è storia che non mi compete, o meglio, di cui non ho competenza.
Piuttosto, vorrei tornare alla questione salutistica. Ché mi preoccupa questo clima di caccia alle streghe che si va instaurando. Me lo vedo che fra poco ci sarà chi vuol mettere sulle bottiglie di vino - oltre alla storia dei bicchieri che v’ho già detto sopra - le stesse, minacciose e perfettamente inutili sentenze che si leggono sui pacchetti di sigarette (e, badate, io non ho mai fumato - se non fumo passivo - e mi dà molto fastidio sentirne anche solo il vago odore, della sigaretta). Senza invece pensare a fare informazione, educazione, cultura. L’alcolismo è figlio della malattia o dell’ignoranza, mica del vino.
Serve altro. Enjoy Responsibly, ho visto in un riquadro d’una pagina di pubblicità di Penfolds, colosso australiano del vino, su Wine Spectator, ed è un avvertimento che condivido: gotitelo responsabilmente. Stesso tenore della pubblicità dello Champagne Perrier-Jouët: «Enjoy our quality responsibly», goditi responsabilmente la nostra qualità. Ma starà mica diventando una moda anche questa, vero?
Eppoi, questa mania di voler sapere tutto, ma proprio tutto del vino. Che facciamo, sull’etichetta ci mettiamo gl’ingredienti e il «da consumare preferibilmente entro il»? Già non mi piace quell’assurdo «contiene solfiti» che è stato imposto sull’etichettatura: ecché, quanti saranno mai i vini che non li contengono, i solfiti?
Ecco, c’è un clima neo-illuminista che non mi va. Sento troppa gente che davanti a un bicchiere si mette a far disquisizioni tecniche, invece di goderselo così com’è. Perfino, c’è chi comincia a parlar - con competenza, talvolta, ammetto - di composti aromatici volatili, d’elementi chimici (naturali) responsabili di questo o quell’aroma, di monoterpeni o di sesquiterpeni, e, chessò, di linaiolo (che mi dicono sappia di rosa), di geraniolo (che indurrebbe memorie floreali). E poco m’interessa - a me che bevo, intendo - sapere che quell’odore ch’è tipico di certi Sauvignon può provenire dal composto 2-metossi-3-isobutil-pirazina.
Spero che anche queste perversioni farmaceutiche sian solo fads and fahions. E che si torni al piacere. Sennò, il rischio è quello mess’in evidenza da Sarah Kemp, altra editorialista di Decanter, ancora sul numero di gennaio. Cita, la Kemp, un libro che le è piaciuto, scritto da un’altra donna, la bionda (così la vedo in foto, ma con le donne non si sa mai) Jennifer Rosen, trasgressiva scrittrice di vino. Dice (traduco): «Bere vino con un sommelier è come far l’amore con un ginecologo: è meglio che non vi dicano tutto quello che sanno». Appunto.
Godete responsabilmente. Ma prima il piacere, per favore.

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