venerdì 18 agosto 2006

Le verità del Taso

Angelo Peretti
Taso, con la esse sonora, come nella parola rosa. È dialetto veronese. Indicativo presente, prima persona singolare del verbo tàser: leggasi tacere. «En bèl tàser no l’è mai scrit», un bel tacere non fu mai scritto, ammonisce il proverbio. Che non vale, of course, per i giornalisti, che sono chiacchieroni.
Quindi tàso uguale taccio. Ma anche uguale vino. Perché c’è un Valpolicella Superiore che porta questo nome. E che nella versione 2003 – tutt’altra cosa rispetto alla sua storia precedente – mi piace, mi piace, mi piace.
Ne ho già scritto ai primi dell’anno recensendolo en primeur, appena preso dalla vasca. Ribevendolo ora confermo tutto quanto. Confermo, cioè, d’avervi ritrovato quegl’intriganti profumi di fiori macerati e di spezia minuta e quasi di tabacco da pipa e di rabarbaro e china, eppure anche di frutto nettissimo, che trovai la prima volta. E poi la bocca, in continuità quasi perfetta coll’olfatto, «succosa di frutto e fresca e appagante e lunga», come scrissi allora, e meglio forse non posso dire, perché senti che è vino che ha potenza, certo, ma è anche bevibilissimo e va giù che è un piacere e gioca sull’eleganza e ti tiene sulla corda con la sua tensione, invidiabile. Insomma, bel vino. Certo mica ruffiano, mica fatto per piacere a tutt’i costi, ma anzi pregno di personalità e forse capace di dividere il pubblico. Che è poi la caratteristica dei vini davvero importanti, quelli che hanno qualcosa da raccontare, ma lo fanno col loro linguaggio, che non è per forza sulla lunghezza d’onda di tutt’i bevitori. E bisogna dunque mettersi nella condizione giusta per ascoltarne il racconto.
Lo fa, il Taso Valpolicella Classico Superiore, Cecilia Trucchi. Nasce quasi sul cocuzzolo della collinetta di Castelrotto, che pare dimenticata dagli sconvolgimenti geologici di chissà che epoca nella Valpolicella più bassa, nella parte a meridione - intendo - del comune di San Pietro in Cariano. Cocuzzolo di tufo con sopra la chiesa e poco prima della chiesa il brólo, il terreno cintato, che chiude il vigneto di Villa Bellini, la piccola tenuta di Cecilia, o meglio, di Villabellini tutt’attaccato, come scrive lei sull’etichette.
Cecilia è produttrice bio, anche se non lo sbandiera ai quattro venti. Fa agricoltura biologica perché ritiene che questa sia la scelta giusta, punto e basta. E ho già scritto, e lo ripeto, che i suoi vini li ho sì trovati interessanti in passato, ma ch’erano secondo me un po’ ostici e rustici e anzi ho usato un altro e più appropriato termine: scorbutici. Non mi facevano, insomma, impazzire e a volte, confesso, neppure avrei ristappato. Se non l’Amarone 2001, nel quale trovai qualcosa di nuovo, un’eleganza quasi decadente che mai prima avevo rintracciato, e che m’intrigava parecchio.
Ai primi dell’anno, Cecilia mi si presenta con un vino nuovo. O meglio, con un vino dal solito nome, ché Taso si chiamava già il suo Superiore, ma di concezione completamente nuova. E mi dice che quello è l’unico vino fatto nell’annata 2003: niente Valpolicella base, niente, soprattutto, Amarone. Al che, detto da un produttore valpolicellese in un periodo in cui l’Amarone tira commercialmente forse come non mai, ti sembra quasi un’eresia, se non, peggio, un segno di squilibrio. Epperò pensi poi che è il destino e la vocazione dell’artista d’essere estremo. E dunque proviamolo ‘sto Taso, mi dissi, e fu una folgorazione, che ora s’è rinnovata riprovandolo tre volte in un mese in diversi contesti – anche alla cieca – e sempre con mio convintissimo applauso.
Ho domandato a Cecilia di dirmi cosa fosse cambiato, e lei m’ha detto che la verità del Taso l’avrei trovata sul suo sito internet. Dunque, eccomi a cliccare www.villabellini.com. Ma v’avviso, qualora anche voi intediate farlo: se non avete l’adsl - come io non ho, purtroppo, avendo la fortuna e la maledizione d’abitare sul Garda, area per niente servita con adeguatezza da mamma Telecom – è un’impresa, ché il sito è bello, graficamente, assai, ma con quell’animazioni che ha dentro si carica in tempi biblici. E poi magari finite pure che v’incavolate, perché la verità del Taso narrata da Cecilia è quanto mai criptica, e ci vuole un decoder intellettualoide per disvelarla. E insomma, per farla breve, ed evitarvi magari la navigazione, ve la riporto qui di seguito.
Su villabellini.com si legge dunque così: «Cecilia e le verità del Taso. Cercando il vino ho trovato le mie verità. Saper guardare, ascoltare, sentire e soprattutto imparare i tempi, conoscere le piante, le stagioni, nel rispetto di un luogo dove la ‘tecnica del vino’ è anche ‘tecnica di vita’. Nell’etichetta, quella del Taso, non si può raccontare tutto questo. Posso solo colorare di emozioni questi tre ettari di mondo, esposti a sudest, terrazzati a marogne, di questo vigneto che affonda le sue radici nel tufo, in questo paesaggio. Solo il rispettoso silenzio del Taso può parlare di questo luogo, perché ci sono verità nelle radici, nel tempo, in noi, che non stanno nelle etichette. Però è bene saperle, o almeno io ci tengo a dirvele».
Ordunque, il testo è bello, intimo, poetico, ed esprime in fondo quello che i francesi chiamano terroir, ch’è un insieme di terra e di vigna e di suolo e d’umanità, inscindibile e unico e irripetibile. Però dice e non dice.
Non dice, soprattutto, perché questo sia l’unico vino, ora, dell’azienda e come lo si faccia. Al che ho richiamato Cecilia. E lei m’ha raccontato che non è detto che sia per sempre l’unico vino, e che sarà invece l’annata a decidere che cosa dovrà nascere dalla vigna. Il 2003 diceva che si doveva fare un vino solo e così è stato. Le uve sono state raccolte in più fasi. Alcune hanno fatto appassimento, altre no. E sono state lavorate tutte insieme, traendone complessità, ottenendone quel fitto chiacchiericcio d’aromi e fragranze e nuance che t’invade dal bicchiere versato. Di più è inutile dire: quel che accade dopo che l’uva è approdata alla cantina non m’ha mai interessato molto, la tecnica è tecnica e basta. Voglio solo cercar di capire se il vino racconta se stesso e la sua uva madre e la sua terra e la mente di chi l’ha generato, se narra insomma il proprio terroir. E il Taso lo fa.
Ecco, credo che questa sia la verità del Taso. Forse l’unica da capire. E v’invito, se vi capita, ad ascoltarla, appunto, dal bicchiere. Sapendo che costa un po’ di più d’un normale Valpolicella Superiore, ma non di più d’un Amarone standard. Ma che in fondo è insieme e Valpolicella e Amarone e Recioto: è rosso di Castelrotto, di quel dosso abbandonato in mezz’alla campagna valpolicellese. E che esprime una maniera tutta nuova e insieme antica di mettere in luce le corvine valpolicelliste e il tufo e le arie di quella terra. E che mi piace, mi piace davvero.

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