domenica 18 marzo 2007

E il vignaiolo parlò al giornalista

Angelo Peretti
Nereo l’aveva detto: è ora di aprire un dibattito sul tema della comunicazione del vino.
Nereo è il Nereo Pederzolli, giornalista trentino, di cui ho (ri)pubblicato la settimana scorsa un pezzo scritto originariamente per Slowfood, la rivista del movimento della chiocciolina. In argomento. E sull’argomento, appunto, abbiamo poi, lui ed io, ricevuto qualche interessante feed back.
Uno, in particolare, lo vogliamo condividere con gli internetgourmettiani lettori di questo web magazin. Ed ha firma autorevole, quella di Riccardo Ricci Curbastro, uno dei nomi più conosciuto del bollicinoso mondo della Franciacorta.
Ecco dunque, sena’altri indugi, le sue parole. E solo a conclusione, poi, le mie.

IL VINO DEI VIGNAIOLI
di Riccardo Ricci Curbastro
«Caro Nereo,
ho letto quest’oggi, grazie ad Angelo Peretti, il tuo articolo “In barba all’effimero” e desidero ringraziarti per aver posto l’accento su un tema che mi sta particolarmente a cuore: tutti i vini rischiano di diventare simili o addirittura globalizzati (brutta parola, ma rende il concetto) se ci limitiamo a descrivere la”fermentazione a temperatura controllata, l’affinamento in barrique ecc.”
Abbiamo la necessità di raccontare un po’ di più l’uomo che sta dietro quel vino, il suo amore per la vigna e i suoi sogni.
Sì, i sogni. Senza sogni non si può fare il vino, perchè è qualcosa di così lontano dalla frenesia odierna che solo un sognatore può pensare, guardando un terreno nudo, a piantarvi una vigna, attendere che faccia frutto, vinificarlo, attendere che maturi... e intanto sono passati 8 o 10 anni ed il mondo è cambiato un’altra volta.
Prendi il nostro Franciacorta: già nella realizzazione del taglio, prima del tiraggio, l’uomo disegna un quadro, una propria opera d’arte, utilizzando come colori i diversi vini base, e trasmette in quella bottiglia i propri sentimenti, il proprio modo di vedere la vita e quel vino; ma è possibile comunicare questo nei 25-30 secondi di un’intervista televisiva o nelle poche righe di un articolo (sapendo che tanto molti leggono solo le fotografie)?
Personalmente sono un po’ pessimista su questo punto; riesco a trasmettere questi sentimenti, tradizione e spinte innovative, quando parlo ai miei clienti, in cantina o durante una degustazione, ma raramente riesco a farlo sulla carta stampata. Mi sembra che oltre al sesto d’impianto ci sia poco spazio per altro e perciò desideravo ringraziarti. Ogni tanto un colpo va dato, speriamo che sia l’inizio di una bordata!»
Riccardo Ricci Curbastro

Fin qui la lettera aperta del vigneron franciacortino al Nereo tridentino. Adesso tocca a me dir due parole sul tema vino&comunicazione: senno che direttore di testata sarei? E dunque sia.
E la prima cosa che mi viene in mente di dire è questa: a ciascuno il suo, come il titolo d’un libro, bellissimo, di Sciascia. Già, perché far vino è mestiere di chi fa vino e comunicare è mestiere di chi comunica. E forse (senza forse, magari) c’è un po’ di confusione di ruolo. Così chi comunica vuol insegnare a far vino a chi il vino lo fa e chi fa vino vuol insegnare a comunicare a chi comunica di suo. A condizione che l’uno e l’altro - vigneron e comunicatore, intendo - il loro mestiere lo sappiano fare per davvero, ché di dilettanti allo sbaraglio (citazione dalla mitica Corrida di Corrado) ce n’è fin troppi in giro, fra chi fa vino e chi ne scrive. E l’altra condizione è che si rispettino l’un l’altro – vignaiolo e comunicatore - e che rispettino i rispettivi ruoli, ma se son professionisti veri il rispetto di certo non mancherà. E qui chiudo con quest’osservazione, ché sennò pare che voglia far polemica, e invece non voglio proprio per niente.
Secondo, e qui entro nel contenuto della lettera di Ricci Curbastro: che cosa comunicare?
Ecco, io credo molto in quella magica parola che è il terroir. Solo che di questo concetto c’è duplice interpretazione. L’una razionalista, l’altra umanista. La prima intende il terroir come mix di vitigno, di suolo e di clima (coll’aggiunta della tecnica). L’altra tien conto di questi stessi aspetti, ma mette in primo piano l’uomo, inteso come singolo e come comunità di persone che (con)vivono su un medesimo territorio. Ed anzi, in Francia si direbbe che soprattutto c’entra non già l’uomo in sé soltanto, ma il suo orgoglio. L’orgoglio d’un produttore che nel suo vino vuole interpretare se stesso e il suo territorio.
Eccolo qui il terroir. Ergo, questo è da descrivere.
E siccome tutto non si può descrivere in poche parole, allora a mio avviso il vignaiolo che voglia comunicare una cosa soltanto deve descrivere del terroir: se stesso, se davvero è l’uomo alla base del terroir.
Ha da raccontare, intendo, le sue passioni, i suoi pensieri, i suoi sentimenti. E l’ha da fare raccontando onestamente, ché sennò si scatena l’effetto boomerang. Ha da mettersi in qualche modo a nudo davanti all’intervistatore o al consumatore che sia. Spiegare il suo esser persona che fa vino, e che ha scelto di farlo non per un accidente del destino, ma perché quel mestiere lo sente suo.
Inutile che descriva il vino sotto il profilo tecnico: interessa a pochi, e quei pochi cui può interessare o sono addetti ai lavori o sono onanisti della degustazione, e in più si finirebbe inevitabilmente per accreditare la tendenza più razionalista dell’interpretazione del terroir. Inutile più ancora descrivere il vino sotto il profilo organolettico, come se gli altri non avessero naso e bocca e pensiero.
Se stessi occorre descrivere. Usar la prima persona singolare: io.
Il pittore, davanti a un suo quadro, mica ti racconta di che marca erano la tela e il pennello e il tubetto di colore, e neppure ti parla di tela e pennello e tubetto e neanche ti dice se il cavalletto era esposto a nord o a sud, perbacco. Ti dice il suo sentimento, che è all’origine del quadro. Solo questo, ti dice il pittore vero. Lo stesso, se vuol far arte, ha da essere per il vignaiolo. Anche nei 25-30 secondi di un’intervista.
A un’amica produttrice che mi chiedeva cosa rispondere a chi le domandasse perché dovrebbe mai comprare il suo vino, ho suggerito di rispondere così: «Perché questo vino l’ho fatto io». Sembra risposta immodesta, fors’anche orgogliosa. E invece è proprio orgogliosa, ché l’orgoglio del vigneron è alla base dell’idea umanistica del terroir. E dunque chi fa vino prima di tutto deve dire che il suo vino va bevuto perché lì dentro c’è un po’ di sé. Del proprio sentire la vigna e il clima e il suolo e il territorio. Del proprio ragionare della vita e dei suoi misteri. Del proprio essere uomo o donna che ha scelto di far vino. Qui è la fascinazione autentica: l’essere umano è il mistero da disvelare.
Questa è la mia opinione. E quindi andrebbe letta al condizionale, e dove dico deve s’avrebbe da leggere dovrebbe. Ma è opinione mia, al singolare.

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