sabato 16 dicembre 2006

Dell’appassimento breve: sarà New Valpolicella?

Angelo Peretti
L’Italia del vino di qualità si muove da sempre - che vuol dire da quindici-vent’anni, da dopo l’affaire metanolo - essenzialmente lungo due direttrici: il vitigno e la tecnica. Entrambi son al contempo, a mio pensare, punti di forza e di debolezza. Di forza, certo, ché da qui è scoccata la ripresa ed è scaturito il successo. Di debolezza, anche, ché non sono elementi unici e irripetibili. Il vitigno lo puoi ri-piantare altrove (il sangiovese - è un esempio - si coltiva anche in California o in Australia, adesso) quando non viene addirittura d’altri luoghi (leggi cabernet, chardonnay e dintorni). La tecnica è di per sé ri-producibile ovunque: uso del legno, riduzioni, appassimenti, ripassi, metteteci quel che volete.
La Francia del vino di qualità ruota da sempre - che vuol dire almeno da un secolo e mezzo, dalle prime classificazioni bordolesi - attorno a due perni: il marchio e il terroir. Il marchio è quello dei grandi (in dimensione e valore) negociant, oppure degli stessi château storici del Médoc (Latour, Margaux & Co.). Il terroir è affermato da chiunque voglia esprimere, appunto, l’idea di qualità, e alla regola non sfuggono gli stessi negociant. Giusto a titolo d’esempio, La Turque è sì un grande (grandissimo) rosso targato Guigal, ma è prima di tutto un crû e un’espressione del terroir straordinario della Côte Brune, nella vallata del Rodano, e in più porta bene in evidenza, in etichetta, la denominazione d’origine Côte Rôtie. Ecco, è vino di terroir, e l’espressione ingloba vitigno e tecnica e ne fa elementi d’un insieme virtuoso.
La premessa, lunga, è per dire che m’è capitato di partecipare all’ingresso in società d’un «nuovo» rosso di «scuola italiana» ch’avrebbe i crismi per diventare un vino di «pensiero francese». Per saltare l’ostacolo e guardare al domani.
Il vino è un Valpolicella Superiore dell’area classica: il Verjago della Cantina Valpolicella di Negrar. Sì, la cantina sociale negrarese, ch’è di quelle che lavorano bene, e bene tanto.
Ora, questo Verjago, alla sua prima uscita oggi coll’annata 2004, è un vino che potrei dir progettuale. Daniele Accordini, che della Cantina è direttore tecnico, ne ha illustrata l’origine, la concezione. Che provo qui di seguito a riassumere in tre fasi.
Fase uno: l’espressione di volontà. «Verjago - spiega Accordini - nasce con l’intento di restituire attenzione al vino simbolo della Valpolicella, al Valpolicella appunto. In un momento in cui l’Amarone sembra offuscare ogni luce proveniente da altri vini grazie alla sua potenza, alla sua concentrazione e al suo gusto internazionale, abbiamo sentito l’esigenza di riportare al centro della scena un prodotto legato anche con il nome al suo territorio di appartenenza, per secoli riferimento economico dell’intera regione». In sintesi: oggi che l’Amarone «tira», è ora di ridare smalto al Valpolicella. Applaudo.
Fase due: per mirar l’obiettivo, l’attenzione s’è focalizzata - correttamente - sull’indagine territoriale. «In collaborazione con l’Università di Verona - mi si dice - abbiamo analizzato per diversi anni le potenzialità viticole ed enologiche di numerosi vigneti situati nella fascia collinare della vallata di Negrar. Il lavoro ha richiesto lunghe indagini, tuttora in corso, portando alla luce l’essenza qualitativa di alcuni siti produttivi, prima conosciuti solo parzialmente, facendo emergere le espressioni più nascoste di alcuni territori e la maggiore adattabilità di determinati vitigni a particolari ambienti». Bene: è indagine sulle potenzialità del terroir negrarese e su alcuni suoi possibili crû.
Fase tre: il ritorno all’abitudine enologica italiana. «Nell’ideazione di questo vino - racconta il direttore - abbiamo quindi coniugato le varietà risultate più idonee con la tecnica tradizionale e antichissima dell’appassimento, prefiggendoci di ottenere un Valpolicella che potesse esprimere caratteristiche di eleganza e potenza unite ad autenticità e originalità». Ecco: vitigno più appassimento. Il Verjago è dunque figlio d’uve appassite, uve autoctone di Valpolicella. Come l’Amarone, pur d’appassimento più breve, molto più breve: la metà circa e fors’anche meno di quanto si usa per il potente rosso amaronista. Comunque vino «tecnico», ché mette in luce, soprattutto, la tecnica d’appassir l’uve, che trova nella Valpolicella la massima espressione. Ergo: il terroir, che pure era stato centrale nella progettazione, è in disparte. Ma mica gli faccio una colpa, alla Cantina, ché quest’è, appunto, l’impostazione italica, la scuola del pensiero nostrano.
Ma sarebbe ora di una svolta. E il progetto Verjago potrebbe essere un’occasione di quelle giuste. Così adesso cerco di spiegare perché.
Riparto dalla fase due: la ricerca sui terroir. I vigneti su cui la Cantina ha condotto l’indagine insieme coll’Università son tutti a Negrar e in collina. Anzi, in collina alta. Talvolta terre ch’erano quasi abbandonate, ritenute com’erano in passato meno interessanti in fatto di resa, quando la viticoltura era orientata a dar più quantità che qualità. Ma credo invece che quelli siano potenzialmente i pezzi di terra da seguire con più attenzione. Quelli da cui proviene la memoria storica dell’appassire. Ché ho una convinzione. Questa: l’appassimento, padre del Recioto e del figliolo suo Amarone, nasce da un’esigenza empirica, che è far fronte alla fame e alla carestia.
Era questa l’esigenza prima delle genti del passato: mettere da parte riserve d’alimenti per i giorni di vacche magre, così frequenti, ché i raccolti eran soggetti alle bizze del tempo. Nasce da qui l’industriosa creatività di tutti gl’insaccati e de’ salumi e delle conserve e delle marmellate e dei sott’aceti e dei sott’oli e dell’affumicato e dell’essiccato. Per il vino, era importante averne. Ma per chi tirava avanti vigna in collina alta c’era guaio in più: l’uva non maturava, e dava dunque vinelli aspri e subito acetici e per nulla capaci di durare. Ed ecco l’ingegno: se l’uva non matura in vigna, la si può far maturare in casa. Di qui l’appassimento, che concentra zuccheri. Se ne traeva dunque vino poco, ma alcolico e ricco di zucchero, nutritivo molto, e dunque passibile d’essere allungato coll’acqua per farne quantità maggiore. Per la romanità e per il tempo medievale e per l’età rinascimentale e insomma fin quasi ai giorni moderni, allungare il vino con l’acqua è stato normalità, per averne più quantità, più alimento.
Se quest’è vero, è forse la collina la terra madre dell’appassimento valpolicellese. Dunque, se si vuol fare Valpolicella da uve appassite, è corretto andare a cercarle lassù. Come ha fatto la Cantina di Negrar. Il problema è spostar la focalizzazione: non è per fare appassimento che si deve andare a trovar uve ne’ vigneti in quota, ma è per valorizzare il carattere - il genius loci - del terroir d’alta collina che si può utilizzare «anche» l’appassimento. E il Verjago questo passaggio culturale lo potrebb’affrontare, ché i presupposti ci sono - mi pare, e son convinto - tutti. E dunque potrebb’essere questo il New Valpolicella, il domani, il rosso valpolicellista di terroir. Che sia figlio d’appassimento, è meno importante.
Intanto, prendiamolo com’è, e ringraziamo la Cantina di Negrar che il coraggio, in questo progetto, l’ha mess’in campo per davvero.
Prima uscita, ho detto, è quella della vendemmia del 2004. Che ha fatto quaranta giorni d’appassimento e due anni di botte grande e nuova. Mi spiegano che l’uva messa ad asciugare fino a due settimane perde acqua nel graspo e solo poi concentra il frutto, che resta integro nelle fragranze sue fin verso i quaranta giorni e poi comincia la modifica aromatica che troveremo piuttosto nel bouquet dell’Amarone. Dunque, per conservar fruttato originario, occorre agire entro il mese e mezzo. Bene: questa è tecnica e va tenuta a mente: pre-requisito.
Adesso, qui di seguito, la scheda.
Valpolicella Classico Superiore Verjago Domini Veneti 2004
Alla sua prima uscita il Verjago è vino che sa il fatto suo. Ha oggettivamente all’olfatto frutto tanto e integro, fascinoso e piacevole, pur virando un po’ verso l’accento amaronista. La bocca apre ampia, ancora sul frutto. A mio dire, esce un poco il legno (ma ad altri non dà noia), e penso che forse due anni di botte son tanti. Vorrei un pelo in più di spinta acida, che dia slancio, lunghezza. In ogni caso, piacerà. Commercialmente sarà un successo, non dubito.
Per me, ora, vale un lieto faccino e quasi due, da rivedere, probabilmente, al rialzo col passar del tempo :-)
Verjago 2006 (dalla vasca)
Ho avuto occasione di provar la vasca del 2006 che sta nascendo. Prima della malolattica. Prima del legno, ovviamente. E be’, se il buon giorno si vede dal mattino… Ci ho trovato frutto bellissimo, che d’uva appassita non aveva neppure memoria. Ecco: queste fragranze van conservate.
Restasse questo slancio giovanile unito alla struttura ch’è di tutto rispetto, i faccini sarebbero di certo, domani, tre :-) :-) :-)
Ci va aggiunto, adesso, al Verjago, il carattere della terra sua, la capacità di narrarla, questa terra valpolicellese e i suoi crû e le sue vigne. E va modificato - penso - quanto dichiara l’etichetta: appassimento, legno - vabbé - ma mi dica qualcosa anche delle vigne, di dove sono e perché son quelle, proprio quelle. Sia vino terroirista della Valpolicella alta: trovi il coraggio. E gli sia lunga e lieta la vita.

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