giovedì 23 novembre 2006

Nulla accade per caso: le ragioni della Valpolicella felix

Angelo Peretti
Qualcuno che conosco è convinto che nulla accada per caso. Ma difficilmente intelligibile resta, per i modesti mezzi dell’uomo - e soprattutto per i miei -, la ragione di certi accadimenti. È già fatica, molta, capire che t’accade attorno giorno dopo giorno, nella tua sfera personale, ed io non sempre ci trovo risposta. Figurarsi gli eventi che superano la tua dimensione, e che a volte si fanno addirittura planetari. A meno che si creda - e credere è la parola giusta - che l’umana avventura abbia un fine ultimo, assoluto e trascendente. Ma qui entriamo nel campo della filosofia o della fede, che - forse - non compete a un web magazine che s’occupa invece di vino e di gastronomia.
Diversa è la questione quando si gravita nell’ambito dell’economia di mercato, ché qui sì che le cose non possono davvero accadere per caso. Nel senso che ad ogni avvenimento, ad ogni fenomeno, c’è - si può e deve trovare - una spiegazione.
Ordunque, nell’ambito della microeconomia vinicola delle terre di cui più mi occupo, ossia quelle della regione gardense, è avvenuto negli ultimi anni qualche cosa d’anomalo. Mi riferisco al fatto che almeno da un paio d’anni un po’ ovunque, nel mondo intiero, il vino è entrato più o meno in stallo, con poche, pochissime eccezioni, ed una di queste è la Valpolicella. Ma non solo il territorio valpolicellese non ha conosciuto crisi - se non un breve, temporaneo assestamento -, ma addirittura ha consolidato e accresciuto la propria penetrazione sui mercati. Tant’è che perfino un’annata balorda come quella del 2002, con le piogge e la grandine, ha finito per premiare l’Amarone, o almeno quel poco che se n’è fatto, e chi ha optato per la (saggia) scelta di non realizzarlo in quell’annus horribilis, be’, un po’ s’è mangiato le mani, perché la domanda è comunque rimasta buona. Non solo. Nell’ultima vendemmia, sono state rare le aree viticole d’Italia che abbiano visto quotazioni in crescita per l’uve, ed anzi l’unica che ha volumi importanti è, appunto, la Valpolicella. Un successo che lascia letteralmente a bocc’aperta.
Ora, se quest’è un fenomeno dell’economia, e se in economia, appunto, nulla accade per caso, occorre seriamente interrogarsi come sia potuta capitare una cosa del genere. Ritenendo semplicistico sostenere che è andata così perché l’Amarone è un vino di tendenza, che è denso, corposo, fruttatissimo eccetera eccetera. Vero, l’Amarone risponde ai canoni di successo sui mercati internazionali, ma gli altri rossi che hanno identità simili - vedi i Supertuscans - hanno pur’essi conosciuto un cert’arretramento. «Di Toscana non ne vendo più neanche una bottiglia, di Barolo nemmeno» mi dicono molti ristoratori. E allora?
E allora quando si vuol capire un fenomeno economico, occorre far le cose per bene, e ricercare con metodo la spiegazione. Quest’ha fatto il Consorzio di tutela dei vini della Valpolicella, che non a caso, permettetemi d’aggiungerlo, ha al vertice un uomo che i mercati ha mostrato di saperli cavalcare, e mi riferisco - ovvio - ad Emilio Pedron, che oltre che presidente consortile è anche ai vertici del Gruppo Italiano Vini, prima potenza enoica nazionale.
Che cos’ha fatto dunque ‘sto Consorzio. Be’, è andato a chiedere di far l’esame a chi d’esami se n’intende. Ha chiesto aiuto a un’Università. Al Dipartimento di Economia e Politica Agraria dell’Università Federico II di Napoli, che ha mess’in campo uno staff coordinato dal professor Eugenio Pomarici. E il risultato che n’è saltato fuori è, per certi versi, sorprendente.
Ebbene, volete sapere perché la Valpolicella ha tenuto così bene? Be’, lo faccio dire alle parole di Pedron: «Oggi non si va bene per caso. Esistono dei motivi. Il primo è la solidità strutturale. All’interno della Valpolicella esistono dei vantaggi strutturali che la fanno andar meglio di altre aree, di altre denominazioni». Così ha detto il leader maximo a un drappello di giornalisti riuniti alla tavola – eccellente: mangiato benissimo – dell’Enoteca della Valpolicella. Ero tra quelli, e riferisco.
Ora, capisco che quando si dice genericamente di vantaggi strutturali, occorre qualche spiegazione aggiuntiva. E qui entra in ballo la ricerca di Pomarici & Co. Ma fors’è meglio invece fare un passo indietro. Tornare al contesto di mercato, che ha fatto da premessa alla ricerca, e l’ha anzi fatta generare. Lascio ancora spazio alle parole di Pedron, ché meglio di così non saprei fare: «Sono ormai più di due anni - dice - che gli osservatori più attenti hanno delineato uno scenario di difficoltà che interessa il vino di qualità. Uno scenario che pone fine ad un periodo caratterizzato da un importante sviluppo della domanda di vino di qualità dal quale i produttori hanno tratto grande beneficio in quanto hanno potuto commercializzare le loro bottiglie a prezzi in costante crescita. Attualmente, il settore vitivinicolo sta attraversando una fase di grande incertezza originata da un eccesso di offerta mondiale di vino di qualità che causa una diminuzione generalizzata dei prezzi di tutta la filiera, da quelli delle uve a quelli dei vini all’origine, e da una agguerrita competizione su tutti i mercati, sia nazionali che internazionali. In questo scenario la Valpolicella rappresenta un’eccezione in quanto sta vivendo un nuovo importante successo di mercato. Questo è il motivo per il quale abbiamo ritenuto opportuno verificare le ragioni di questo successo e abbiamo inteso farlo in maniera seria e approfondita, fotografando la struttura e le caratteristiche della filiera vitivinicola del nostro territorio». Affermazioni da manuale.
Capita l’antifona? Bisogna investire in conoscenza, e bisogna farlo soprattutto quando le cose vanno bene, per capire le ragioni del successo e farlo durare nel tempo. Inutile correre a chiudere la stalla quando i buoi sono scappati, s’è sempre detto: perché nel mondo del vino, che pure ha radici contadine, non lo si rammenta tanto spesso questo vecchio adagio?
Ordunque, a ricerca eseguita, Pedron dice: «Siamo convinti che in Valpolicella esistano vantaggi strutturali tali da consentire ai vini che nascono da questa splendida terra la possibilità di raggiungere traguardi sempre più brillanti». Alla faccia dei pianti altrui.
Questi vantaggi li riprendo, pari pari, dalla ricerca universitaria, che descrive quello che potremmo definire il «sistema Valpolicella». Ebbene: «Il sistema - si legge - è complesso perché agiscono come propulsori della dinamica una molteplicità di soggetti con caratteristiche dimensionali e di organizzazione dell’offerta molto diverse ma, a ben vedere, complementari. Vi sono le piccole imprese caratterizzate da una forte specializzazione nei vini Valpolicella soprattutto di elevatissimo pregio, fortemente caratterizzate dal territorio, con imprenditori di grandissima capacità relazionale, con politiche distributive molto selettive e orientate prevalentemente al mercato interno. Vi sono poi le medie imprese, di grande talento e esperienza nella produzione, che gestiscono una gamma molto ampia, affiancando ai vini Valpolicella, nei quali mantengono una specializzazione, prodotti di altre aree e che distribuiscono i loro prodotti in Italia ma anche, per una quota importante, all’estero. Operano, infine, grandi imprese che presentano una notevole capacità di innovazione e una notevole solidità e che gestiscono una gamma multiregionale e assai differenziata per fasce di prezzo e una molteplicità di canali di distribuzione in Italia e all’estero». Ebbene, queste tre tipologie d’impresa convivono senza farsi la guerra, senza farsi (troppa) concorrenza, ché hanno scelto di ritagliarsi mercati diversi. Non solo. Tra di loro hanno messo in piedi una sorta di partership ampiamente diversificata, una «molteplicità di relazioni» che si esprime «sotto il profilo della fornitura e dell’acquisizione dei fattori di produzione». «Il sistema – osserva il gruppo di ricercatori universitari che ha condotto l’indagine sul caso valpolicellese – è reso efficiente sotto il profilo produttivo da una rete di scambi di uve e vini tra diversi operatori che consente ai più di ottimizzare lo sfruttamento della propria capacità produttiva e/o commerciale e di valorizzare le specifiche competenze». In poche parole: un tipico caso di distretto industriale, di quelli che hanno fatto grande il nordest.
Ora, si tratta di migliorare, di crescere. E se non è possibile aumentare le quantità, giacché il territorio è pressoché interamente sfruttato, occorre spingere sul tasto della qualità. Che sia possibile? La risposta, stando alle evidenze della ricerca, sembra orientarsi verso un’impronta positiva. E ancora una volta la motivazione sta nelle componenti strutturali del comparto vinicolo valpolicellese. Il fatto è che una parte delle uve o del vino è attualmente consegnata a dei commercianti che non sono basati in Valpolicella: sono in altre regioni d’Italia o addirittura all’estero. Per loro il Valpolicella, come qualunque altro vino che trattino, è una sorta di commodity. Nel senso che si vende finché c’è, e poi può essere sostituito da qualunque altro vino che proviene da qualunque altra parte del mondo. Ecco: questa presenza di commercianti extraconfine è oggi un elemento di potenziale equilibrio del mercato. Sì, perché se i piccoli vogliono accrescere la loro offerta in termini di qualità e quantità, conferiranno meno prodotto ai medi e questi ridurranno i conferimenti ai grandi e questi a loro volta sottrarranno scorte ai commercianti di vini commodity. Insomma: c’è spazio di crescita per tutti gli operatori della filiera locale a parità di produzione complessiva, e il traino verso l’alto è costituito dalla crescita qualitativa. Non è un vantaggio da poco.
Certo, non son mica tutte rose e viole, e anche la Valpolicella ha le sue magagne. Questa docg per l’Amarone che sembra sempre lì lì per arrivare e invece non ci si mette mai d’accordo, ad esempio. Eppoi un numero troppo piccolino di aziende davvero orientate al mercato. Uno sfruttamento eccessivo e ossessivo del territorio, tant’è che ormai molta terra valpolicellese è diventata il dormitorio di lusso della città di Verona. Ma i motivi per esser fiduciosi ci sono. Soprattutto, c’è un livello di conoscenza maggiore. C’è una crescita di consapevolezza di cosa sia - davvero - il comparto vinicolo valpolicellese. Anche finanziando studi, ricerche di settore. Roba che altri, magari, ritengono soldi buttati. Invece no: è investimento. «Vogliamo conoscere di più la nostra denominazione. Conoscerci per poter decidere meglio in tempi difficili e anzi anticipare i tempi. Tutto questo serve per far crescere l’identità della denominazione» butta lì der Präsident Pedron. E non è obiettivo da poco, questo qui: vale più di cento, mille attrezzi di cantina.
La consapevolezza e il terroir, l’orgoglio e la vigna: eccole qui le chiavi per vincere. No, non è un caso che esista una Valpolicella felix.

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