sabato 11 marzo 2006

Comunicare si deve

Angelo Peretti
T’annoi, in treno. D’accordo, non hai lo stress del guidare. Ma il tempo non passa, ingabbiato in sedili stretti, che puzzano sempre, anche se viaggi in prima classe. Con la polvere che ti prende la gola.
Mi capita sempre più stesso d’andare a Milano, e prendo il treno, che sennò è un tormento coi parcheggi (e già quest’è peggio del viaggiare in ferrovia). Per vincere la noia, leggo. Magari il libro appena comprato all’edicola della stazione.
A un baracchino di Milano Centrale ho adocchiato un volumetto che non m’era ancora capitato d’incrociare, anche se avevo avuto notizia dell’uscita. Un manuale. Si chiama «La comunicazione del food & beverage», Agra editrice. Autore: Fabio Piccoli, giornalista veronese. Bravissimo giornalista del vino, aggiungo. Serio e modesto. Bella persona, ottimo collega. Uno che prima di dire pensa e prima ancora studia, s’informa, ricerca, e non è cosa da poco.
Spiega, il libro, come «farsi conoscere con piccoli budget» ed è rivolto ai produttori dell’agroalimentare italico, vinicoli in particolare, ma non solo. Onestamente pensato.
L’ho letto, ovviamente, in treno. Letto e poi riletto sottolineandone frasi e frasi, quasi facendomi in questo violenza, ché non mi piace sfregiare con la penna le pagine d’un testo. Eppure ne sentivo l’urgenza, perché gli ammonimenti, i consigli che ho trovato son di quelli da farti entrare in testa a tutt’i costi.
Tesi di fondo: la qualità è necessaria, ma da sola non basta. Bisogna che venga conosciuta. O meglio, riconosciuta. «La qualità – dice giustamente Fabio – è un termine altamente inflazionato da tutti coloro che fanno comunicazione». Bisogna distinguersi. Muovendo altre e più elevate leve. Toccando il valore immateriale delle produzioni. E su questo concetto dell’immaterialità mi ci soffermo più sotto.
Altra tesi portante: la verità è sempre manipolata, inevitabilmente, ma la balla non premia. Perché alla lunga emerge e si ritorce contro chi l’ha diffusa.
Terzo: se voglio parlare al mercato, il mercato lo devo conoscere. Devo sapere quali sono le caratteristiche, le abitudini, le attese dei miei colleghi e concorrenti e venditori e clienti. Mica andare alla cieca, che sennò spreco tempo e denaro.
Quarto: comunicare è un lavoro, che va fatto da chi lo sa fare. M’aspetto l’obiezione: dici così perché anche tu sei uno di quelli che scrivono di vino e di cibo, parli pro domo tua. Obiezione respinta: andreste mai a farvi riparare la macchina da un parrucchiere, a farvi modellare un vestito da un panettiere? A ciascuno il suo lavoro: improvvisare è inutile e dannoso. «Oggi, paradossalmente – si legge nel libro – ci troviamo spesso di fronte ad un grande professionismo nella produzione dei prodotti agroalimentari di qualità e a un grande dilettantismo nella loro comunicazione». E vivaddìo è proprio così.
Quinto: per comunicare non servono investimenti enormi. Basta volerlo fare. Pianificando chiaramente gli obiettivi. Piuttosto, dice Fabio, «la prima domanda da porsi è se siamo disponibili a comunicare». Già. Ché troppe volte trovi produttori che dicono di voler far comunicazione e invece poi li scopri chiusi, ritrosi: non una parola fuori dall’autoelogio, dall’autoreferenza. Instillando la cultura del sospetto per giustificare i propri fallimenti. Invece serve apertura, disponibilità, onestà. «La comunicazione – leggo (e sottoscrivo) – inizia dal produttore, dai suoi modi di fare, dal suo stile, dalla sua capacità di relazionarsi, prima ancora che dalla sua azienda e dai suoi prodotti. E questo, ovviamente, vale ancora di più quando si parla di realtà sostanzialmente piccole come le imprese vitivinicole».
Sissignori: il fattore umano è un elemento fondamentale. È il più importante dei valori immateriali di cui dicevo sopra. Dice niente il caso di Giovanni Rana testimonial di se stesso e dei suoi tortellini? Ma qui, aggiungo, entra il gioco la filosofia stessa dell’esser produttore. Soprattutto d’esser piccolo produttore, d’essere uomo o donna del territorio.
Entra in gioco, intendo, quell’interpretazione del terroir che ho altre volte affrontato, e qui pecco io, adesso, d’autoreferenzialità. Ma ribadisco una convinzione, e cioè che il terroir non è, come vorrebbe farci intendere una scuola di pensiero tutt’e solo italiana, la combinazione di suolo, clima e vitigno. Perché c’è un quart’elemento altrettanto e forse ancora di più importante: è l'uomo, con la propria storia, il sapere, l'istinto, il sentimento, la gioia e la tribolazione. Perfino col suo l'orgoglio. Anzi, soprattutto con quello. L’orgoglio di saper mettere dentro una bottiglia la stagione, la terra, la vigna, la storia del luogo, eppoi le cose liete e i pianti e i rimpianti e quant’altro fa delle nostre vite qualcosa d’irripetibile e insomma è unicamente nostro e di nessun altro al mondo. L’orgoglio di comunicare in un bicchiere, di trasmettere in un sorso un po’ di se stessi. E per far questo serve onestà vera. Prima di tutto onestà con sé stessi.
Ma mi dilungo. Rischio d’uscir dal seminato, che voleva esser la segnalazione del libro d’un capace collega. Ma Fabio dice uguale: «È evidente che un fattore chiave nella forza e successo della comunicazione è l’unicità o, quantomeno, la particolarità, l’originalità. E nulla più del fattore umano è originale».
L’ho già detto, ma insisto: il fondamento è l'umanesimo, mica il tecnicismo. E dunque basta farmi vedere diraspatrici e concentratori e robe d’acciaio e plastica e gomma e vetro. Capisco che è roba utile a far vini puliti, corretti. Ma mi si parli piuttosto del sentir la terra e la vigna, delle storie dei padri, dei progetti dei figli, dei sogni che vengono cullati. Ché dei metalli non m’interesso: quelli, non hanno cuore e sentimento.
Altro non aggiungo, se non di leggerlo, ‘sto libro. E di pensarci su. Avvertendo (mica solo son rose: anche le spine bisogna vedere) che pecca, il volumetto, di quelle tipiche pecche dei manuali d’oggidì: la scrittura è talvolta un po’ frettolosa, ché gli editori – e credo neppure Fabio abbia potuto sottrarsi - ti chiedono il testo oggi per pubblicarlo ieri, e la fretta è proprio inevitabile. Pazienza. In fondo, questo non è romanzo da cuscino, bensì prontuario, e dunque quel che conta è il contenuto, e qui ce n’è tanto, tanto davvero. Da meditare, metabolizzare.
Comunicare si deve.

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