sabato 10 dicembre 2005

Dolcezze in bottiglia e santi bicchieri da parroco

Angelo Peretti
Fortunati i parroci del Trentino. In questi giorni riceveranno una bottiglia. Piccola, da 0,375. Ma con dentro un bel vino. Fuori commercio. Unico. Irripetibile. Un vino per la Messa di Natale. L’hanno fatto i produttori – son solo sei – dell’associazione dei Vignaioli del Vino Santo. Sono Pisoni, Gino Pedrotti, Francesco Poli, Giovanni Poli, Pravis, la Cantina di Toblino. Dirò: tutt’e sei intriganti, i loro vini. Da comprare e bere a botta sicura. Dolcemente. Ma per fare un Vino Santo ancor più pregno di santità, ciascuno n’ha messo a disposizione un quantitativo del suo. Se n’è tratta una cuvée. Riservata alle parrocchie tridentine. Con poche eccezioni. Una bottiglia a papa Ratzinger, e scusate se è poco. Qualche pezzo ai giornalisti del vino. Una è toccata a me: si sa, a Natale sono tutti più buoni, e i Vignaioli del Vino Santo, mercé l’intercessione dell’amico Nereo Pederzolli, narratore di cibi e di vini e di tradizione della terra di Trento, m’han ritenuto degno di tanta grazia. Fortunato anch’io. Come i parroci.
Ora, della bottiglia che m’è toccata in sorte (la numero 357 sulle 400 realizzate, per esser pignoli), so che ai miei dodici lettori non importa granché. Piuttosto, potrà esser loro d’interesse aver notizia di qualcheduno dei vini «dolci» che si son potuti provare a Dulcenda, la manifestazione che s’è svolta in una freddo sabato decembrino a Castel Toblino, lo stesso luogo dove s’è presentato l’originale Vino Santo per il Natale del 2005. Ora, di passiti e affini ce n’erano in degustazione un centinaio. Farne selezione non è facile. Ma, ahinoi, occorre far sintesi, e quindi cercherò di descriverne qualcheduno. Il numero dei prescelti? Sei, appena, ma non per demerito degli altri. Forse perché son pigro a scrivere. O forse perché non voglio ubriacare i miei lettori, che com’è noto son dodici appena: mezza boccia a testa gli basta e avanza, e dunque sei bottiglie. Sapendo di far torto a molti espositori di Dulcenda. Pazienza: farò di più quand’anche i lettori saranno aumentati.
La prima citazione va al Vino Santo Trentino. Ma mica per l’omaggio che m’han dato. Perché invece è monumento della cultura enoica in Valle dei Laghi. Perché è il passato che si fa presente. Perché è sintesi alta di sapere vinicolo. Lo fanno con le uve di nosiola. Fatte appassire lungamente esposte all’Òra, vento che spira fin là dal Garda, incuneandosi fra le montagne. Pigiate poi, le uve passe, verso Pasqua. Il vino riposa per lungo, lungo tempo - cinque anni e più - nel legno prima della bottiglia. Se proprio uno e uno solo ne dovessi scegliere, be’, m’orienterei allora su quello del Gino Pedrotti, uomo dei silenzi dei boschi, orso delle solitudini dei monti. È Vino Santo della vendemmia del ’95. Dieci anni d’ombroso riposo nella cantina. Vince ai punti – è mia opinione – per complessità, austerità, finezza.
Alto Adige, adesso. Scelgo il Terminum, vendemmia tardiva di gewürztraminer. Maestoso e complesso. Gli accenti floreali inseguono le note spiccatissime d’agrume. L’erba aromatica, alpestre, avvince il naso e il palato. La freschezza smussa la presenza dolce. Un mostro d’equilibrio. Lo fa la Cantina Produttori di Termeno. La vendemmia è del 2003. Ha solo un difetto: è pressoché introvabile.
Ora il Veneto. Vado nel Vicentino, a Breganze. Bevo il Torcolato di Firmino Miotti. Che poi Firmino segue la vigna, mentre a far vino è la figlia, Franca. Che sa il fatto suo. Così come lo sa il consulente che s’è scelta, il Federico Giotto, giovane dalle idee chiare e dalle realizzazioni sicure. Be’, il Torcolato 2002 è vino che mi devo decidere a comprare in cassa. Lo fanno in prevalenza con uve di vespaiolo, più piccole aggiunte di tocai «nostrano» e ancora più piccole dello sconosciuto autoctono della pedevenda, di cui non so alcunché, se non che forse prende nome da un monte di quelle parti. Il vino ha naso avvincente, secondo me il più bello dei cento di Dulcenda. Tartufo, sottobosco, frutta appassita, spezie fini, quasi accenni di chiodo di garofano, vene balsamiche. Vino da olfatto. E da gusto. Grande tensione. Freschezza nervosa. Lunghezza invidiabile. Da bere e ribere. Anche da far riposare, se si vuole, lungamente in cantina per ottenerne ancora maggiore complessità.
Ora Verona. Per me, veronese, capirete ch’è difficile scegliere: roba buona ce n’era, bianch’e rossa. M’impongo un’unica opzione. E dal taccuino di degustazione ecco che esce un nome: Le Selle dei Coffele da Soave. Che, attenzione, non è il vino più impressionante tra i passiti scaligeri provati. E allora – mi chiederà il lettore, uno dei dodici miei – perché lo privilegi? Rispondo: per la finezza, non per pienezza. A Dulcenda la Chiara Coffele – tipetto vispo, capelli un pochetto da punk – ha portato il 2001. È sauvignon appassito. Naso esilissimo, ma di nitore impeccabile. Poco alcol: undici gradi appena. Bella freschezza. Eleganza. Fosse un quadro, sarebbe un acquerello appeso fra oli e acrilici.
Adesso il Friuli. Con un capolavoro. Il Cràtis 2002. Verduzzo friulano doc. Lo fa Roberto Scubla a Ipplis di Premariacco. Ha avuto i tre bicchieri dal Gambero Rosso & Slow Food. Li merita, stramerita. Le uve le lascia in vigna più a lungo che può. Ne fa selezione e poi appassimento sotto tettoia, senza vetri o porte o finestre. All’aria, al vento. L’uva rustica e il rigore della maturazione gli rendono il carattere acceso, la personalità complessa. Che volete vi dica, per descriverlo: pensate ai frutti appassiti che vi piacciono, dalla scorza giallo-ambrata, e ce li troverete. Retorico elencarli. Sappiate però ch’è per nulla stucchevole. L’acidità gli dà slancio ed equilibrio. La quadratura del cerchio.
Uno me ne resta da scegliere. Medito e dico: Vin Santo dell’Umbria di Stefano Grilli, La Palazzola. La vigna è a Stroncone, provincia di Terni. Il vino – l’annata è il 2001 - lo si fa con il trebbiano spargolo e la malvasia. L’uva viene appassita, appesa, fino a Natale. Il mosto fermenta in carato sigillato. Be’, m’ha intrigato. Peccato non averne qui una nuova bottiglia da stappare. N’esce al naso una florealità che s’innesta su quella nota ossidativa ch’è tipica di vini del genere e ne trae slancio e lunghezza e fascinosa ricchezza. La bocca è salda, invitante, succosa di caramella alla pera, d’albicocca, per passare a memorie inusitate che direi di ginepro secco come quello che conservo in bacca nei vasetti per l’arrosto. Ma qui rischio d’esser preso per matto. O d’essermi fatto traviare dal gin tonic sorbito ad ampia coppa in compagnia di Stefano Bertoni e Leandro Luppi e Isidoro Consolini, i magnifici tre che han preparato la cena per la stampa. Il primo chef a Castel Toblino, l’altro stellato al Vecchia Malcesine, il terzo creativo patron e cuoco del Caval di Torri del Benaco. Bravissimi. Dedico loro un calice. Di passito, però, ovvio. Col gin & tonic water continuino pure loro.

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