domenica 30 ottobre 2005

Una scommessa sui Lugana

Angelo Peretti
I dodici lettori che mi fanno la cortesia di leggere di tanto in tanto questa rubrica sanno probabilmente della mia opinione sul Lugana. Ossia che è sì bianco buono da bere giovane, ma che soprattutto merita, nelle etichette migliori, d’esser fatto affinare per qualche anno e anche di più. Come accade per pochi altri bianchi italiani: qualche Soave, qualche Trebbiano marchigiano e qualcheduno magari dell’Abruzzo. Poi, credo, basta. Invece il Lugana, con quel suo esser vino d’argille, su cui la vigna fatica e stenta, sa esser longevo, e anzi migliora addirittura, se ben fatto e ben serbato in cantina, col fluire degli anni. Ora, è accaduto che il consorzio di tutela del Lugana abbia convocato un manipolo di giornalisti, fra cui il sottoscritto, per sottoporre al loro palato una quindicina di bottiglie e valutarne il potenziale d’affinamento. La scommessa era questa: può qualcuno di questi vini esser tale da migliorare nel prossimo triennio? Unica regola per il produttore era presentare vini almeno del 2003, esclusa dunque l’ultima annata (e, badate, il 2004 è stata ottima vendemmia bianchista). Ebbene, su circa un terzo ci siamo sentito di provare a scommettere. Li riassaggeremo l’anno venturo e quello dopo, e dovranno mostrarsi non già semplicemente conservati, ma anzi cresciuti in eleganza.
Quali siano questi Lugana dal possibile futuro in crescendo ve lo vado a descrivere qui di seguito.
Primo vini ad aver passato la selezione è il Lugana Riserva del Lupo 2003 di Cà Lojera. Per me, è un autentico fuoriclasse. Probabilmente uno dei migliori Lugana che mi sia mai stato dato d’assaggiare. L’ho già bevuto varie volte, e sempre mi si è confermato d’enorme carattere. Magari difficile, ora, da comprendere. Perché ancora chiuso, nervoso. Ma, a mio avviso, destinato a fascinoso futuro. È fatto in acciaio. Solo acciaio, niente legno. L’alcol, pur sostenuto, è quasi mascherato da una vivida freschezza, del tutto inusuale per la calda annata di cui è figlio. Emergono afrori d’agrumi (di limone, di pompelmo) e poi di citronella e d’erba di sfalcio. La vegetalità è a tutto tondo. La mineralità è lì che preme per uscir fuori. Il finale, lunghissimo, gioca sui toni della mandorla verde e della colorofilla. Lasciatelo riposare ancora, e vi darà soddisfazioni. Ci scommetto davvero.
Cà Lojera ha giocato una seconda ottima carta col suo Lugana Superiore 2001. Altro bel vino. Stavolta da botte di legno. Anche qui, i colleghi sono stati concordi: bel vino ora, ma potrà ancora migliorare (occhio: è un 2001, e dunque ha già quattr’anni sul groppone). Al naso appare addirittura restio a concedersi. Ma mineralità e nota verde poi balzano fuori. La bocca è agile, vibrante. Il legno non è ancora del tutto fuso. Si farà: probabilmente il prossimo triennio lo vedrà arrivare al massimo delle potenzialità.
Torniamo ai bianchi fatti in acciaio. Ha passato la prova il Lugana Superiore Vigna di Catullo 2003 della Tenuta Roveglia. Altro bel vino (e badate: il Lugana base del 2004 è addirittura una spanna sopra: compratelo e mettetene un po’ da parte). Frutto di tre successive vendemmie, ne propone i diversi caratteri. Vegetale e salino per rappresentare la prima e la seconda cernita in vigna, denso di frutto surmaturo e quasi di caramello per descrivere il terzo passaggio, quello della vendemmia tardiva.
Poi, il Lugana Molceo 2003 di Ottella. Siamo nella categoria dei vini affinati nel legno. E il Molceo si conferma ancora una gran bella espressione luganista. Denso, grasso, setoso, eppure anche citrino, rigoglioso di salvia. Il passaggio in botte quasi non l’avverti. Te ne accorgi solo per una vena vanigliata sottesa all’ampia struttura. Non dovrebbe aver proprio problemi a dipanarsi al meglio nel triennio che viene.
Quinto e ultimo vino su cui ci siam sentiti di scommettere, il Lugana Superiore Fabio Contato 2003 di Provenza. Fabio è il patron dell’azienda e firma di pugno in etichetta nelle annate migliori un bianco e un rosso. Questo Lugana fa legno. Ed è un vino che ha muscoli e gran corpo. Ricorda i frutti esotici, i fiori bianchi (la magnolia), l’uva surmatura. La vena verde è ben impressa. Decisa. La mineralità è lì pronta a comparire. Non avrei dubbi sulla tenuta per tre e più anni.
Detto questo, abbiamo anche provato qualche vecchia bottiglia di Lugana, giusto per avere (per me scontata) conferma della longevità del bianco di riviera. La migliore, entusiasmante, era quella d’un Lugana I Frati 1996 di Cà dei Frati. Vino superbo, che rasenta la perfezione. Roba da 95 centesimi di valutazione. Naso da idrocarburi e pietra focaia, che s’apre con lentezza estrema verso i ricordi di frutto e fieno, di fiori essiccati e mandorla. Emerge anche un’aristocratica venatura fumé. Bocca solida, sapida, vegetale. Esce di lì a poco la susina acerba. Poi ecco le erbe alpestri in un finale lunghissimo e avvolgente. Fantastico. Peccato non ce ne sia praticamente più neppure nella collezione privata di casa Dal Cero.
Buonissimo anche il Lugana Il Brolettino 1994, sempre di Cà dei Frati. Di questo vino ho raccontato qualche tempo fa una piccola verticale. Meglio il Frati ‘96, ma ragazzi che stoffa che conferma anche questo Brolettino, con quel suo naso subito prima restio e poi ammaliante nell’ampliarsi verso toni floreali che sanno di gelsomino. La bocca propone erbe montane, menta, eucalipto. Il finale rammenta i distillati di susina.
Poi, due sorprese. La prima, il Lugana Superiore Vigna di Catullo 1994 di Tenuta Roveglia. Ha naso minerale, con memorie quasi di kerosene. Escono poi il fieno secco, la buccia essiccata d’agrumi. Il palato lo coglie ancora integro, sapido. Ha sentori di limone, di cedro candito. Poi, la mandorla verde. È probabilmente giunto all’apice della maturazione, e più a lungo non potrà ancora svilupparsi, ma vivaddio ha passato con scioltezza il decennio.
Infine, sorpresa vera, ché non ho mai apprezzato moltissimo, l’ammetto, l’etichetta, il Lugana Il Rintocco 1996 della Marangona. Ebbene sì, oggi è un gran bel vino. Il naso è violentemente improntato al segno degli idrocarburi tipici dei trebbiani coltivati su argille ostiche. Sa, subito, di trielina, gasolio, nafta. Che quasi butti indietro la testa. Ma poi, ossigenandosi, i sentori minerali divengono ammalianti. E dopo, ecco il frutto giallo. In bocca è addirittura giovanile, pregno di memorie vegetali, d’eucalipto, mentuccia, erba luigia. Per finire, freschissimo, sulla mandorla verde. Averne qualche bottiglia in cantina non sarebbe male.

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