giovedì 22 settembre 2005

La Froscà in verticale: che carattere quel Soave

Angelo Peretti
Ah, quel bianco del ’90! Ormai i miei dodici lettori (quasi metà dei venticinque che diceva d’avere Manzoni: siamo a buon punto) lo sanno che mi piacciono i bianchi che sfidano il tempo ed anzi vengono esaltati dai lunghi affinamenti. Be’, ne ho incontrato qualcuno a Monteforte d’Alpone, terra veronese, colline soavesi. M’hanno invitato a stare al tavolo con Sandro Gini per una verticale – cosa rara – del suo Soave Classico La Froscà, uno dei vini più importanti, giustamente, dell’area. Di scena sei annate: 2004, ultima uscita, densa di promesse, e poi 2002, 1999, ‘97, ‘90 e ‘88. Mica male. Anzi: imperdibile. Con più d’un gioiello in bottiglia. Primo fra tutti, a mio parere. quel sorprendente vino del ’90, stagione fantastica. Ma ne parlo più avanti. Intanto, dico dov’eravamo e ospiti di chi. Organizzava la condotta Slow Food di Soave e si era dentro al palazzo vescovile, reso disponibile dall’amministrazione comunale: bella struttura, che si spera di vedere in futuro ancor meglio valorizzata.
Ora, la Froscà, intesa come collina, vigna. Esposta a sud est, ha sole sin dalla prima mattina e resta meno assolata nelle torride ore estive del pomeriggio. Così le maturazioni sono regolari. In più, è protetta dalle correnti fredde. In alto, tufo basaltico scuro, più sotto, tufi di diverse coloritura e in mezzo una fascia calcarea. Le vigne – in gran prevalenza garganega di vari cloni, con qualche ceppo di trebbiano di Soave – sono vecchie di cinquanta, a volte settant’anni e più. Ecco le matrici della complessità.
La prima annata in cui le garganeghe della Froscà vennero vinificate da sole fu l’85. Nasceva il crû, uno dei primi della zona. A quel tempo, il Soave era ancora vino sputtanato da anni di cisterna. Il bianco dei Gini piaceva, ma i ristoratori chiedevano di togliere la denominazione dall’etichetta. Loro, duri, a resistere: han fatto bene, e oggi anche grazie a queste resistenze il Soave è tornato a essere bianco apprezzato. Com’è nelle sue corde e nella sua storia.
Le sei annate. Dicendo che il vino fa acciaio e, da qualche anno, minima parte di legno, per maturarlo prima. Le vendemmie le ha selezionate Sandro Gini dopo personali assaggi. Con l’incognita, ovvia, della tenuta dei tappi, gran cruccio per chi ami vini invecchiati.

Soave Classico La Froscà 2004
L’ultimo nato. In bottiglia da due mesi appena. Legno ancora un po’ sopra le righe, carattere tuttora non perfettamente composto, ma dentro c’è tutto il valore di un’annata da incorniciare: quella del 2004 a Soave e Monteforte sarà una vendemmia da ricordare, fantastica. Spiccati profumi varietali, garganega a tutto tondo. Solide note fruttate si fondono con vivide memorie di fiori macerati. Cenni di mandorla. Bocca rotonda. C’è corpo, c’è freschezza. Quanto serve a promettere grand’evoluzione. Bel vino, che potrà dare soddisfazioni per anni. Per me, già ora 89-90/100.

Soave Classico La Froscà 2002
Quella del 2002 fu ovunque annata critica: piogge continue, dove non era giunta la grandine a portar via tutto. La scontrosità della vendemmia è tradotta nel vino, che è sì complesso – e molto - sotto il profilo aromatico, ma un po’ velato d’uve dalla maturazione problematica estratte a fondo. Comunque di gran personalità, atipico nella sequenza delle sei bottiglie. Naso varietale, frutto e fiori bianchi, erbe officinali, mentuccia, erbaspagna. La bocca conferma la complessità. C’è frutto surmaturo e una speziatura avvolgente di noce moscata e pepe di Sichuan. Ha lunghezza, ma pecca un po’ - confermo - in pulizia. Chissà come potrà evolvere. Ora, a mio avviso, 86/100, che non è poco davvero.

Soave Classico La Froscà 1999
Fu annata fresca, ma buona. Buonissimo è il vino. Naso decisamente improntato alla mineralità, e perdoni Masnaghetti. Che c’entra? C’entra, ché nell’ultimo numero della sua felicemente rinata rivista Enogea (la ricevete per posta abbonandovi: scrivete a almasnag@tin.it , vale la pena) ironizza sulla nuova mania collettiva: qualche anno fa un vino doveva per forza esprimere il frutto, mentre adesso dev’essere, appunto, minerale. Scrive: «Se volete quindi fare un complimento a un produttore o a un amico che ha stappato una bottiglia per voi, tirate fuori il ‘minerale’ al momento giusto (non un sasso, cosa avete capito!) e vi sarà eternamente riconoscente». Be’, nella Froscà ’99 la mineralità c’è tutta per davvero: grafite, pietra focaia in abbondanza, ché è così che nelle annate giuste s’esprimono nel vino le terre vulcaniche dei colli di Monteforte. Sotto, c’è il frutto della garganega a piena maturazione, ben delineato. La bocca è in perfetta corrispondenza. Gran corpo, bell’equilibrio. Vino che si conferma nel tempo (fu tre bicchieri della guida Gambero Rosso – Slow Food). Vérghene (averne in cantina, intendo). A mio parere, 91/100.

Soave Classico la Froscà 1997
Ahimè, il tappo qui non aveva tenuto. Almeno sulla bottiglia del mio tavolo. Naso sporchetto di legno secco, tracce ossidativa, bocca che asciuga. In mezzo, per pochi secondi, la garganega, ben definita, ma è solo un flash. Ho assaggiato al volo un bicchiere d’un altro tavolo, ed era cosa ben diversa, col frutto grasso e ancora una bella freschezza e una beva d’appagante lunghezza. Ma un sorso e via a fine degustazione non mi fa esprimere giudizio. Semmai il rimpianto (è buona annata).

Soave Classico La Froscà 1990
Che il ’90 sia stata un po’ dovunque una gran bella annata è cosa nota, ma la Froscà stupisce, affascina, commuove. Per giovinezza. Non avessi visto la bottiglia stappata lì davanti, difficilmente avrei pensato foss’un bianco di quindici anni, e mai – l’hanno ammesso – c’avrebbero giurato gli altri presenti ai tavoli. Il naso, sì, è ovviamente subito chiuso, magari un po’ evoluto, ma sfoggia pian piano spezie finissime, fieno secco, cedro candito, vene sottili di minerale. Stessa progressione sul palato, sorretto da un’invidiabile freschezza. Poi giungono la nocciola appena colta, i fiori bianchi. Le poche bottiglie ancora in cantina potranno avere ancora lunga vita. Un fuoriclasse. 93/100.

Soave Classico La Froscà 1988
Quarta annata nella storia della Froscà (la prima, l’ho detto, fu l’85). Naso evoluto (ovvio!), con tanta nocciola e cenni di fiore essiccato. Bocca però grassa, corposa, ricca. Frutta secca, spezie in rilievo (noce moscata, soprattutto, come nel 2002). Frutto dolce, rotondo, ancora succoso. Forse non avrà ancora molta vita, ma così com’è adesso dà soddisfazione. Dice Sandro Gini che ne aveva aperto una bottiglia qualche giorno prima e s’era dimostrata meglio del ’90. Complimenti. Questa, comunque, 87/100.

Per finire. La Froscà ha dato gran prova di sé. S’è dimostrata quel che sappiamo: bellissima espressione del Soave, uno dei benchmark del territorio, uno di quei capisaldi cui si deve far riferimento quando si voglia capire il bianco soavese. E il Soave s’è dimostrato quel che da anni credo: bianco che nelle migliori espressioni può sfidare gli anni. Peccato sia così difficile trovare annate vecchie: pochi produttori conservano in Italia loro «archivi» di vino, i ristoranti neanche a parlarne (in fondo li capisco, ché molti clienti sarebbero contenti di trovare già in tavola l’annata ancora da vendemmiare, tant’è la mania del bianco giovane). Qualcosa sta cambiando, però: che si diventi adulti?

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