sabato 21 ottobre 2006

Il vino ai tempi di Truciolo Bill

Angelo Peretti
Da piccolo facevo la raccolta delle figurine. Alzi la mano chi non l’ha mai fatta. Mi ricordo un album che mi piaceva un sacco, sulla conquista del West. Storie di indiani e cow boy. Allora erano quelli gli eroi. Con le mirabolanti avventure di Bufalo Bill. Be’, ora che invece colleziono bottiglie, mi toccherà affrontare le storie di Truciolo Bill. Già, perché oggidì si può anche in Europa. Si può fare vino, intendo, in stile nuovomondista, come in Australia, in California o in Sudafrica. Aromatizzando il liquido alcolico coi trucioli di legno. Adesso è legale. Basta che i trucoli siano di quercia.
Pare che l’intervento non sarà possibile coi doc, i docg e gli igt, ma tu vallo a sapere. Unica «salvaguardia» del consumatore: se il vino è fatto coi trucioli non si può scrivere in etichetta che è invecchiato in botte. Tutto qui. Il che, francamente, sembra una presa in giro.
Della faccenda se ne parla da tempo. O meglio, se n’è fatto un gran can-can che mi pare abbia soltanto messo in confusione la casalinga di Voghera che acquista il vino al supermercato e il bevitore occasionale, ma anche, a dire il vero, quello un pochettino più esperto. E forse perfino qualche addetto ai lavori.
La questione è questa: nei paesi di nuova enologia, è pratica abbastanza diffusa quella di dar sapore di legno al vino mediante l’utilizzo dei chips. Già: chi vuol esser più figo, invece di trucioli usa dire chips, che sono poi, appunto, pezzetti di legname. Il vino in questa maniera diventa più tondo, morbido, vellutato. Un bibitone alcolico, piacione al punto giusto. Che però costa meno - parecchio meno - di quanto sarebbe potuto costare se fosse vino invecchiato in botte o in barrique.
Sia chiaro: sono - dovrebbero essere - solo vini di massa, industriali. Siccome però questo modo d’agire ha creato di fatto una situazione di concorrenza difficile da fronteggiare per i produttori europei, nel vecchio continente s’è passati ai ripari autorizzando un’identica pratica. E d’ora in poi anche in Europa è lecito dar sapore di legno al vino con l’uso del truciolame. Lo stabilisce il regolamento europeo numero 1507 dell’11 ottobre 2006. È legge.
Lo ricorderete: appena s’era sparsa la voce che l’Unione europea s’accingeva al fatal passo della libertà di truciolo, qui da noi era scoppiata la battaglia mediatica contro «l’invecchiamento artificiale del vino». Così si diceva: «invecchiamento artificiale». Si sono attivate petizioni. Ci sono state mozioni parlamentari. Son volati pacchi di comunicati stampa. C’è stato un sindaco che ha decretato che il suo comune è «detruciolizzato»: con un’ordinanza ha vietato l’uso dei chips sul territorio municipale. Ma tutto questo bailamme ha finito per confondere la solita casalinga vogherese. «Invecchiamento che?» L’invecchiamento non c’entra niente. Semplicemente, si dà sapore di legno al vino, e in genere è vino giovane e di poca sostanza, se c’è bisogno di doparlo col sentor di falegnameria. Occorreva proprio parlare di «invecchiamento artificiale»?
In fondo, la questione è soprattutto economica. Mettiamo che il produttore Pinco Pallino faccia il suo vino utilizzando la barrique di rovere. Mettiamo che le abbia acquistate attorno ai mille euro l’una. Vuol dire che se le usa una volta sola, il vino che se caverà fuori costerà 4 euro al litro di solo uso della botticella. Il che significa che la bottiglia finale non potrà essere venduta a pochi soldi. Se invece della barrique si usano i trucioli di legno, il costo finale sarà molto, molto più basso. Ma, ripeto, il paragone vale solo se il vino è così così, senza infamia e senza lode, ché altrimenti non c’è confronto che tenga. Delle due l’una: o il vino di partenza è buono, e allora non serve aromatizzarlo, oppure è una mezza ciofèca e tale resta anche se sa di falegname.
Piuttosto, c’è chi teme la truffa del consumatore ventilando il rischio che gli si rifili del vino aromatizzato coi trucioli al prezzo di un altro affinato per davvero in barrique o in botte. Ma la faccenda è talmente ovvia che i legislatori di Bruxelles ne han tenuto – a modo loro – conto. Il regolamento approvato dalla Commissione Ue dice infatti così: «L’uso dei pezzi di legno di quercia nell’elaborazione dei vini conferisce al prodotto un gusto di legno identico o simile a quello di un vino elaborato in botti di quercia. È quindi molto difficile per il consumatore medio stabilire se il prodotto sia stato ottenuto con l’uno o con l’altro metodo. Il ricorso ai pezzi di legno di quercia nell’elaborazione dei vini è economicamente molto interessante per i produttori vinicoli e si riflette sul prezzo di vendita del prodotto. Può esserci quindi il rischio che il consumatore venga tratto in inganno, se l’etichettatura di un vino elaborato usando pezzi di legno di quercia contiene termini o espressioni che potrebbero indurlo a credere che si tratti di un vino elaborato in botte di quercia. Per evitare che il consumatore venga ingannato e che si producano distorsioni della concorrenza fra i produttori, occorre definire norme di etichettatura appropriate». E allora che cosa ti han pensato i signori legiferanti d’Europa? Hanno deciso che sulle etichette si può scrivere che il vino è invecchiato in botte solo se si è adoperata la botte per davvero. Insomma, se il vino è fatto in fusti di legno, allora si può scrivere così: «fermentato in barrique/in botte/in botte di quercia», «maturato in barrique/in botte/in botte di quercia», «invecchiato in barrique/in botte/in botte di quercia». Le stesse diciture sono vietate se invece si sono adoperati i chips: ci mancherebbe altro. Occhio però: se il vino è fatto coi trucioli, non c’è alcun obbligo di dichiararlo, checché sostengano certe affrettate interpretazioni che si son lette qui e là. Almeno così mi pare: mica sono un esperto di cose legali, vivaddìo.
Bontà sua, il legislatore ha anche deciso che i trucioli devono essere di quercia. «I pezzi di legno di quercia – scrive il regolamento - sono utilizzati per l’elaborazione dei vini e per trasmettere al vino alcuni costituenti provenienti dal legno di quercia. I pezzi di legno debbono provenire esclusivamente dalle specie di Quercus. Essi sono lasciati allo stato naturale oppure riscaldati in modo definito leggero, medio o forte, ma non devono aver subito combustione neanche in superficie e non devono essere carbonacei né friabili al tatto. Non devono aver subito trattamenti chimici, enzimatici o fisici diversi dal riscaldamento. Non devono essere addizionati con prodotti destinati ad aumentare il loro potere aromatizzante naturale o i loro composti fenolici estraibili». Ecco: così dice la legge.
La questione dei trucioli non è ancora pacifica. C’è chi vuol salire sulle barricate. L’associazione delle Città del Vino ha annunciato l’intenzione di impugnare il regolamento comunitario davanti Corte Giustizia europea. Vabbé, vedremo come andrà a finire. Personalmente sono scettico: la grande industria finisce sempre per spuntarla, la multinazionale del gusto domina, e cercar di fermare il treno con il culo non è mai conveniente, ché il treno finisce inevitabilmente per schiacciarti.
Dico invece che a questo punto è urgente che i vignaioli facciano una precisa scelta di campo. Che decidano se stare dalla parte del gusto omologato internazionale o se invece optino alla buon’ora per la precisa proposizione del terroir. Se preferiscano fare il vino con lo stampo o se invece credano davvero che sia un valore il legame fra vitigno (preferibilmente autoctono), terreno, clima, ambiente, storia, passione, intelligenza. Se insomma nel vino sia meglio metterci truciolo o anima.
Eppoi, scusatemi, ma quello dell’aromatizzazione del vino coi trucioli è un problema, ma non è mica l’unico. Ché in cantina troppe volte imperversa il piccolo chimico. Legalmente. E per dirla come si deve, m’impossesso di quant’ha scritto Alessandro Masnaghetti, wine writer coi fiocchi, nell’editoriale della sua eno-newsletter indipendente Enogea (il numero è quello di settembre-ottobre). Una staffilata. Eccola qui:
«Arieggiamento.
Trattamenti termici.
Centrifugazione e filtrazione.
Utilizzo di anidride carbonica.
Utilizzo di lieviti per vinificazione.
Aggiunta di fosfato bibasico o di solfato di ammonio.
Aggiunta di solfito di ammonio.
Aggiunta di dicloridrato di tiamina.
Utilizzo di anidride solforosa (in varie forme).
Chiarificazione con gelatina alimentare.
Chiarificazione con colla di pesce.
Chiarificazione con caseina o caseinato di potassio.
Chiarificazione con ovalbumina e/o lattalbumina.
Chiarificazione con bentonite.
Chiarificazione con diossido di silicio.
Chiarificazione con tannino.
Chiarificazione con enzimi pectolitici.
Chiarificazione con preparato di betaglucanasi.
Utilizzo di acido sorbico.
Utilizzo di acido tartarico.
Utilizzo di tartrato neutro di potassio.
Utilizzo di bicarbonato di potassio.
Utilizzo di acido sorbico.
Utilizzo di carbonato di calcio.
Utilizzo di tartrato di calcio.
Utilizzo di preparati di scorze di lieviti.
Utilizzo di polivinilpolipirrolidone.
Utilizzo di batteri lattici.
Aggiunta di lisozima.
Aggiunta di acido citrico.
Aggiunta di acido L-ascorbico.
Aggiunta di tannino.
Utilizzo di gomma arabica.
Per chi non lo sapesse, queste sono solo alcune delle pratiche e dei trattamenti enologici autorizzati dalla Comunità Europea. Detto ciò, siamo sicuri che i trucioli di cui tanto si è discusso siano il problema?»
Sic dixit il Masna, e sottoscrivo.
A proposito, l’ho già suggerito un’altra volta, ma lo ripeto: leggetela Enogea. In edicola non la trovate: dovete abbonarvi. Sei numeri a 55 euro. Potete scrivere direttamente all’one-man-band che la dirige, scrive e compone: la mail è almasnag@tin.it.
E qui mi fermo.
Prosit.

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