sabato 7 ottobre 2006

Se il futuro saranno finezza, eleganza e terroir

Angelo Peretti
Basta coi vini palestrati. È ora di tornare alle bottiglie da bere. Il tema l’ho accennato l’altra settimana, riprendendo una circolare del segretario generale della federazione internazionale dei giornalisti e scrittori del vino, Hervé Lalau. Il quale rilanciava a sua volta l’editoriale di Denis Saverot sulla Revue des Vins de France (fra gli addetti ai lavori è chiamata, confidenzialmente, RVF) di ottobre. Nel quale si domandava: i vini d'oggi non sono troppo alcolici? E la risposta era: sì. Perché, secondo Saverot, dopo i vini esili delle annate «produttiviste», s’è voluto strafare, e l’equilibrio è scappato di mano.
Il mio pensiero è comunque in sintonia: è vero, verissimo: dobbiamo ritornare a far vini che si bevono per davvero, che ti permettono di finire la boccia. Mica solo da degustazione, da concorso. Da guida.
Ora, a parte il mio commento, che conta quel che conta, l’intervento del capo della federazione non poteva di cero passar sotto silenzio. Perché invitava apertamente i giornalisti a occuparsi dei vini bevibili, a promuoverli. A farli tornare d’attualità, insomma. Così ecco che sono arrivate le prese di posizione - pro e contro – d’altri colleghi da vari angoli del pianeta enoico. E lui, il capo, ha rilanciato i pareri dei confrère. Una parte, intendo, ché sennò temo ci sarebbero volute circolari-fiume. E dunque li riporto, alcuni di quest’interventi, ché mi sembrano buona materia d’approfondimenti. Perché, non c’è dubbio, il tema dei vini da bere contrapposti a quelli palestrati è d’attualità. Urca, se è d’attualità. E i produttori s’interrogano su quale sia la via da seguire. Magari aspettando il nuovo verbo del giornalista-guru di turno. Per prendere un nuovo abbaglio. Che però può rendere quattrini nel breve periodo. Come diceva il buon Giulio, a pensar male si fa peccato, ma quasi sempre ci si indovina.
Certo, c’è il sospetto che ognuno tra i commentatori tiri l’acqua al proprio mulino. E così chi vive nella vecchia Europa vede con estremo piacere il tornar di moda dei vini che giocano più sulla finezza che sulla potenza. Ma i wine writer del nuovo mondo la pensano esattamente al contrario. E insomma la querelle sembra lontana dal trovar soluzione.
Prendiamo Sue van Wyk. Giornalista free lance, consulente e giudice di concorsi, wine master dall’89: una che se n’intende. E che ha fatto conoscere nel mondo i vini dell’emisfero sud, quelli delle sue terre: la tesi del master, giusto per dire, era dedicata al Pinotage sudafricano. Lei è piuttosto critica con l’idea di Saverot e Lalau. E ribatte in maniera pungente. Quasi stizzita, direi. Scrive: «Cos’è che è troppo alto? Se c’è sole, ci dev’essere alcol! I produttori del nuovo mondo non aggiungono zucchero per spingere in alto i livelli alcolici. Il mio sospetto è che questo non sia che un altro tentativo dei wine writer francesi di sminuire i vini del nuovo mondo per distogliere da questi l’attenzione dei consumatori e orientarli di nuovo a quelli francesi, nel tentativo di sospingere in alto le vendite dei loro vini, che stanno calando da ogni parte del mondo». E potrebbe starci, come obiezione, visto che il contendere ha origine in Francia.
Ma c’è l’antitesi. «Je suis entièrement d'accord avec Denis Saverot!» esclama - e non serve traduzione - la parigina Nathalie Le Foll, fondatrice e caporedattrice di Elle à Table, nonché autrice di vari libri di cucina. Ma qui è lotta - femminile contesa, ché le donne mica tirano di fioretto quando si tratta di prender posizione - fra sostenitrici delle opposte visioni dei vecchi e nuovi mondi vinicoli.
Allora andiamo dove tradizione enoica non ce n’è quasi (ancora). In Danimarca, ad esempio: lì mica ce le hanno, le vigne, e il vino lo conoscono da poco. A farsi interprete della cultura bacchica in terra danese è ad esempio Jörgen Aldrich, giornalista del Fyens Stiftstidende. Che interviene con parole che credo vadano lette anche alla luce del suo essere divulgatore in un mondo di bevitori praticamente del tutto nuovo, che si sta solo da poco aprendo alla seduzione del vino. «Sono lieto di vedere - scrive Aldrich - che il problema dell’alcol è preso seriamente in considerazione. Come wine writer danese, sto da qualche anno affrontando sia nei miei scritti che nei dibattiti coi colleghi e soprattutto coi produttori d’oltreoceano il tema dei vini quotidiani sopra i 13,5 gradi di alcol. A parte quanto già sottolineato, c’è anche un aspetto che riguarda la salute. Che il vino abbia 14-15 gradi o che ne abbia 12-12,5, la gente ne beve la stessa quantità. Non ho dubbi che questo nel lungo tempo sia dannoso per la loro salute. Nessuno discute i grandi vini (Châteauneuf-du-Pape, Amarone e cose del genere) che sono da sempre bombe alcoliche. Questi non sono vini destinati al consumo di tutti i giorni. Il problema è quello dei vini più economici, che seducono i consumatori (e i giornalisti?) perché sono così bevibili e disponibili. Sfortunatamente, mi sento abbastanza solo nel trattare questo tema. I colleghi non sembrano pensare che abbiamo un problema».
«Che vini serviremo domani?» è il titolo d’un intervento del francese Paul Brunet su L’Hôtellerie Restauration. Dove prende in esame quello che lui chiama «il grido d’allarme di molti professionisti della ristorazione». La prima a sollevargli la questione - racconta - era stata proprio una ristoratrice, Liliane, che gli aveva fatto arrivare un messaggio sul sito del giornale: «Monsieur Brunet - gli diceva -, davanti all’ansia dei clienti che devono riprendere il volante, faccio appello a lei. Creda, sono sempre di più quelli che rifiutano i vini che superano i 12,5 gradi di alcol». E poi di mail gliene sono arrivate altre ancora. Al che lui ha tentato di coinvolgere il mondo produttivo francese, mettendolo di fronte all’evidenza, suffragata per di più da una previsione di mercato. Autorevole. «C’è una domanda sempre più insistente per i vini da bere, a bassa gradazione - ha scritto -, ma il fatto è che nel corso degli ultimi vent’anni, la gradazione media dei vini è aumentata di due gradi!» Ed ha citato a tal proposito un rapporto del Senato transalpino, nel quale si legge che esiste almeno un segmento di mercato per il quale la domanda non è al momento soddisfatta dall’offerta francese: è quello dei vini quotidiani a bassa gradazione. Secondo quest’indagine, il 50% delle vendite di vini quotidiani interesserà in futuro prodotti con un tenore alcolico che non superi i 12 gradi. «In ragione dell’insufficienza di questo tipo di mercato in Francia - dice il documento del Senato -, questa parte di mercato è catturata dai vini importati dalla Spagna o dall’Italia».
Poi, è arrivato Saverot sulla Revue des Vins de France. Che trova, s’è visto, consensi e dissensi. Come quello sinteticamente (ben) espresso dal belga Bernard de Nivelles: «C’è stato un tempo in cui la RVF - ha osservato - ha spinto verso la concentrazione, ed ha dunque contribuito, al pari di Parker, a quest’eresia. È un bene che oggi il suo capo redattore riconosca quest’errore». E già: tutti ci siamo più o meno infatuati dei vini muscolosi che piacevano a Parker e a Wine Spectator. Ma adesso è ora di trovare la nostra via. Che potrebbe essere un ritorno al passato. Ai concetti di terroir, di finezza, d’eleganza. E chi mi legge sa (forse) che sono il mio credo.
E qui finisce la cronaca, se cronaca è definibile il dibattito (in)sorto fra gli addetti ai lavori del giornalismo vinicolo dopo l’uscita della RVF. Però è vero che ci s’interroga sul futuro. Che si cerca di capire quale sarà il vino di domani. Dove andremo a finire, insomma, nell’epoca della globalizzazione. Orbene: su quest’argomento mi pare illuminante - come su tant’altre questioni enoiche - quanto scrive Hugh Johnson, che fra i wine writer del mondo occupa il ruolo che spetta alle star. Ebbene, è appena uscita l’edizione 2007 del suo «Libro dei Vini», utilissimo tascabile. In Italia è per i tipi di Rosenberg & Sellier: lo trovate (16,30 euro ben spesi) in qualunque libreria che abbia un minimo d’assortimento. Dunque, chiederete. che cosa scrive ‘sto Johnson? Calmi: di seguito riporto un paio di passaggi. Da meditare.
Primo stralcio: «Livelli inferiori di acidità, tannini meno astringenti e gradazione alcolica più elevata sono tutti elementi - scrive il sommo Hugh - molto facili da ottenere e molto diffusi. La tentazione di fare vini secondo questo gusto è grande, e i critici americani ripagano con le loro lodi i produttori che si lasciano tentare. In fin dei conti, il punto cruciale è quel che si vuole dal vino. Una bevanda per soddisfare la sete? Un bene di investimento? Un trofeo da mettere in bella mostra? Il perfetto compagno del pasto, un oggetto fatto ad arte, sviluppato da francesi e italiani nel corso dei secoli di amorevoli ricerche? Apparentemente c’è poca concordia sulla risposta, sia per chi il vino lo beve che per chi lo produce. In ogni altro settore, lo spettro della scelta si va restringendo. Con la globalizzazione, si dice, la varietà è al capolinea: tutti i vini, alla fine, avranno lo stesso medesimo gusto».
Come dite? Che è uno scenario da far accapponare la pelle? Certo, ma molti profeti di sventura la pensano esattamente così. Non Johnson, però, che saggiamente annota: «A mio parere, l’esplorazione dei significati che un vino può avere per ogni persona è solo all’inizio. Le risorse in termini di stile e sentori sono ben più ampie di quanto possiamo immaginare». E nel tracciare gli «appuntamenti per il 2007, sembra delineare una via. Dice infatti - e sono parole da leggere e rileggere - così: «La modernità del vino, in effetti, è un aspetto curioso. Da un lato, si potrebbe definire “moderno” un vino netto, nitido, equilibrato, con fruttato pulito bene in evidenza. Ma i curatori d’uva si volgono nuovamente al terroir: cercano sempre più toni minerali per i propri vini, e il carattere del luogo. Persino in California, dove il suolo è stato a lungo visto come quella cosa che serve a far stare in piedi la vite, i reimpianti forzati in seguito agli attacchi di fillossera degli anni Novanta hanno rivelato un interesse tutto nuovo per quanto c’è anche sotto il terreno: quale è la struttura del suolo in ogni parte del vigneto, e di conseguenza la sua importanza. È vero, gli americani sono ancora molto sospettosi della parola terroir, ma ancora un po’ di tempo e possono farcela anche loro. Alcuni vinificatori stanno anche cominciando a guardare con molta preoccupazione all’aumento del contenuto alcolico dei vini. Cercano di capire come vincere la sfida del clima e riuscire a produrre vini più leggeri, a dispetto dei voleri della natura. Così, il concetto di modernità sembra assumere un nuovo significato e non è lontano il giorno in cui le parole chiave saranno di nuovo “eleganza” e “finezza”. Per alcuni di noi, naturalmente, queste parole non si erano mai zittite». Già, ed è tempo che, senza timori d’essere tacciati per retrogradi, cominciamo a gridarle nuovamente. Non è tardi. Anzi: è il futuro.
Leggetele, produttori, le parole di Hugh Jonhson, il «grande vecchio» (alla fine fine, si spende poco per possederle, poco più di 16 euro all’anno per leggere le preziosissime - distillate - parole d’introduzione della sua guida). Se possibile, metabolizzatele. E mettetele in bottiglia. Tocca a voi.

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