venerdì 29 settembre 2006

I vini d’Arturo: del Pressoni e d’altri Soave

Angelo Peretti
Leggendo, un paio di settimane fa, le note ch’ebbi a scrivere su una ventina di vini in assaggio all’ultimo Soave Versus, c’è stato chi s’è domandato - e m’ha domandato - come mai non ce ne fossero della Cantina del Castello. La risposta è semplice: perché avevo da tempo (troppo) promesso ad Arturo Stocchetti che sarei andato a trovarlo, e siccome ormai l’appuntamento era in scadenza, avevo in mente di dedicare un pezzo a questa sola realtà. Che è, a mio avviso, di quelle importati, a Soave. Non solo per la storia aziendale, ma anche, e direi soprattutto, per la qualità di quanto mette in bottiglia. Eppoi m’aveva garantito, Arturo, che avrebbe stappato qualche vecchia annata, ché a me i bianchi piacciono evoluti, e adoro sentire se e come reggono il tempo. Insomma: era obbligo di visita, il mio, da rispettare. E l’ho dunque rispettato, e adesso ne do conto, per chi ha voglia di leggerne.
Ora, si dà il caso che Arturo sia anche presidente del consorzio di tutela soavese, e già me le vedo - le sento - le linguacce maliziose che si mettono in testa che mi son convertito all’istituzionalità. Epperò non mi resta, per far convinti costoro, che invitarli a fare un salto in pieno centro storico a Soave, alla casa di Arturo e alla sua Cantina del Castello, e a toccar dunque pur loro con mano (con occhio, con naso, con palato). E poi se ne potrà, se del caso, discutere.
Detta quest’ovvietà, eccomi all’uomo, che è una specie di diesel vecchio tipo in fatto d’oratoria. Nel senso che dapprima fai quasi fatica a tirargli fuori due parole all’Arturo, ma poi, quando prende l’abbrivio, diventa un fiume in piena, e non ti salvi più, e cominciano a brillargli gli occhi, e insomma ti racconta la sua idea di vigneron.
Già: vigneron. Lui le vigne ce l’ha. Ma non le aveva. E spiego. Venticinque anni fa, Stocchetti mica faceva vino. Di mestiere - non ditelo in giro, ché lui m’ha chiesto di non scriverlo, ma io lo scrivo lo stesso, ché deve imparare a non fidarsi dei giornalisti – era arredatore, col diploma di geometra in tasca. Poi, un po’ la voglia di cambiare, un po’ la passione latente, eccolo metter gli occhi su una vecchia azienda a Soave, la Cantina del Castello. Che aveva una qual fama, ma era da rimettere in sesto. E lui, passo dopo passo, l’ha rimess’a posto, buttando nei muri quanto prendeva dal vino. Oh, non è mica casa da niente, questa: pare fosse il palazzo antico dei conti Sambonifacio, in corte Pittora. E se andate nel sotterraneo, vi rendete conto dalla pietra che qui di storia n’è passata tanta e tanta davvero. E dunque ha fatto bene, l’Arturo, a crederci e a metterci le mani. Solo che allora, un quarto di secolo fa, di vigne ne possedeva zero: comprava vino e faceva commercio, come tanti. Ma l’obiettivo era chiaro: voleva il vigneto, e se l’è pian piano acquistato, con raziocinio, senza mai fare il passo più lungo della gamba. Tant’è che adesso d’ettari ne ha tredici, un paio nel crû di Carniga, il resto, che è la più parte, sul Monte Pressoni. E sul Pressoni ha fatto anche un lavoro mastodontico di terrazzatura, con la vigna che ora è messa ad anfiteatro per sfruttare la luce della mattinata.
L’aiuta da un decennio, nelle cose di vigna e di cantina, Giuseppe Carcereri, che si dovrebbe dir consulente, ma che Arturo dipinge invece come una sorta d’alter ego: «È il mio specchio» sostiene. E l’altro definisce il suo intervento come minimalista, dettato dalla filosofia di toccare il men che si può quanto arriva dalla vigna. E insomma: i due sembrano capirsi ormai al volo.
Detto questo, aggiungo che m’ha dato, la visita in cantina, l’idea che l’uva si cerchi di rispettarla per davvero: la si raccoglie - tutta - in cassette da una quindicina di chili, che vengono stoccate su un furgone impegnato a far la spola. E in cantina c’è, prima della pressa, una nastro per la cernita manuale dei grappoli.
Ora, i vini, alla buon’ora. Dico di tre.
Il primo è il Castello. O meglio il Soave Classico Castello 2005, il bianco basic, che è buonissimo, credetemi. Scattante e snello, va giù un gotto tira l’altro. Godibilissimo. Un gioiellino della categoria.
Merita tre lieti faccini :-) :-) :-)
Poi, il Carniga. Dico: Soave Classico Carniga 2004, vino d’impegno, da uve raccolte in leggera surmaturazione, fatto in acciaio, sur lie, sulle fecce fini per un annetto, in modo da cavar fuori tutto il possibile dalla garganega e dal trebbiano soavista, che concorre per un venti per cento all’incirca. Ed è vino che m’è piaciuto tanto e tanto già ad assaggiarlo la prima volta un paio di mesi fa e mi ripiace oggi, con la pesca bianca matura e la mela e la susina e il finale snello, asciutto.
Tre lietissimi faccini anche qui :-) :-) :-)
Terzo, il Soave Classico Pressoni, ch’è in genere il mio preferito fra quelli dell’Arturo Stocchetti. E qui mi dilungo, ché devo parlar della verticale.
Del Pressoni, ordunque, n’ho provate cinque diverse annate. L’85 in primis, che fu davvero l’incipit, la prima vendemmia imbottigliata ed etichettata dall’Arturo, rudimentale e rustica, senza tecnologia e sapere, venuta coma l’ha mandata Iddio. Poi abbiam fatto scorrere il decennio, e aperto un ’95, che è figlio di un’annata fresca, che per il bianco soavista, a mio avviso, è bell’annata. Indi, il ’96, che è vendemmia che spesso ho trovato intrigante sui bianchi veronesi. Siamo poi passati al difficile 2002, anno di piogge. E per finire l’ultimo nato, il 2005. Di seguito dico quel che ci ho trovato. Avvertendo che il nome è cambiato in etichetta, e lo vedrete: dapprima era Monte Pressoni, ora è Pressoni solo. Ed è stato, cammin facendo, un Superiore.
Soave Classico Monte Pressoni 1985. Due bottiglie abbiamo tirato fuori di cantina, ed entrambe marcavano gli anni, ché le ossidazioni (i tappi non sembravano gran cosa) erano avanzate. Eppure c’erano note minerali intriganti e anche, nella seconda boccia, un pelo di freschezza che rendeva l’ultima traccia di frutto. Certo, da non giudicare, ma rendevano entrambe l’idea d’un abbozzo, d’un vigneto di valore.
Soave Classico Superiore Monte Pressoni 1995. Averne, di bottiglie così. Dieci anni ben portati. E la si vedeva, la forma smagliante, già dal colore, giallo chiaro e cristallino, con venature addirittura ancora verdine, che non gli avresti dato più d’un paio d’anni d’età. Il naso, ah, quello era delicato e fascinoso: speziatura minuta e vene ben delineate di grafite. In bocca una bella tensione. Vivo, pulito. Fiore macerato e mineralità graffiante e pulizia e accenni direi balsamici. E poi lunghezza considerevole. Per dirlo perfetto, mancava solo un po’ di profondità, ma vorrei averne - ripeto - un paio di bottiglie nella mia cantinetta.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Soave Classico Superiore Monte Pressoni 1996. Due bottiglie stappate. La prima, purtroppo, ossidativa, ché il tappo aveva mal tenuto, eppure capace di porgere complessità olfattiva e note di cannella e di grafite e quasi, direi, di terra, e poi frutto, dolce e maturo. Seconda boccia. Densa, al naso, di memorie d’idrocarburi, di kerosene. Di pietra focaia. Epperò anche capace di porgere frutto e piccola spezia e pian piano, coll’ossigenazione, cenni di resine. E bocca ampia e fruttata, pur con qualche piccolo segno, invero, di stanchezza, che però non inficia la prova. Ecco, avesse lo scatto del ’95 sarebbe da favola.
Due lieti faccini :-) :-)
Soave Classico Pressoni 2002. Oh, che Soave! Ha naso sontuoso di frutta e di spezia minuta e bocca splendida e potente e vibrante. Ha snellezza e opulenza insieme. Lunghezza di beva. E frutto che si mastica. Ed è - lasciatemelo dire - spettacolare nella sua mineralità ben definita e per nulla eccessiva e anzi graduale nel porgersi. Gran bel vino. Spero d’averne anch’io ancora una bottiglia in cantinetta: devo verificare, in fondo alla cassa dei Soave.
Tre lieti faccini, ovviamente :-) :-) :-)
Soave Classico Pressoni 2005. Imbottigliato in febbraio, è ancora un giovincello. Il naso ha tanto frutto, con la mela in rilievo. E c’è pure, notevole, traccia di fiore giallo. E tornano, frutto e fiore, al palato, che trova dolcezza e pienezza e sapidità. È ancora bimbo, ripeto, ma si farà, ché ha materia e freschezza. E il finale è asciutto e tannico, come s’addice al bianco di razza.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

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